domenica 21 aprile 2013



Napolitano-bis
sconfitta o vittoria del PD?



Comunque si sia dipanata la vicenda, al PD è riuscito il grande slam, cioè ha preso tutto: ha il capo dello Stato, ha i presidenti delle due camere (autorità n. 2 e 3 della Repubblica), avrà il capo del governo, che sia di larghe intese o meno, e, quindi, la totalità o la maggioranza dei ministeri. E tutto questo con un misero 29% dei votanti che, considerando l'intero corpo elettorale, equivale a un elettore su quattro. Oggi, 21 aprile, il Corriere titola “Berlusconi gongola”. Ma vi è motivo per gongolare? Certo: poteva andare peggio. Tuttavia è drammaticamente frustrante per i conservatori: 1) che si gongoli quando si è perso e le conseguenze della sconfitta, non solo di una élite politica ma di una porzione significativa del popolo italiano, sono gravi e si assaporeranno in tempi lungh; 2) non essere stati capaci nemmeno di esprimere, quanto meno in prima battuta, un “candidato di bandiera”, avendo fin dalla partenza come unico candidato, ergo come unico progetto di guida della Repubblica, l’inciucio con l’avversario. 
A Berlusconi il fallimentare (in casa propria) Bersani è riuscito, miracolosamente ma non di meno fattualmente, a non lasciare nemmeno le briciole.
Da oggi (per inciso il dies natalis di Roma) in poi l’Italia sarà tenuta saldamente in pugno dalla vecchia diarchia Napolitano-Monti, forse nell’attesa che a quest’ultimo subentri un personaggio come Amato, di cui gl’italiani ricordano ancora il borseggio sui conti correnti, oppure uno dei peggiori nemici del conservatorismo, il velenoso e rancoroso genietto del male Enrico Letta, un giovane-vecchio (giovane di età, vecchio di idee) della peggiore specie, e che avvenga l’avvicendamento al Colle del vecchio presidente postcomunista con il nuovo eurocrate Monti, da rincuorare dopo le legnate prese da capo-partito e forse ancor maggiormente gradito del primo allUnione Europea. Avremo quindi o una Italia Napolitano-Monti o una Italia Monti-Amato/Letta. 
Il che lascia intuire quale futuro di lacrime e sangue ci aspetti, e pronosticare una ulteriore accelerata nel declino del Paese, forse fino al di là della soglia da cui non ci si potrà riprendere nemmeno con una dittatura militare.
A questo punto che Bersani vada in pensione, che SEL lasci il PD, che il PD si spacchi diventano fenomeni, tutto sommato, di sfondo: di certo la classe dirigente del centrodestra — anche se in certi momenti dei giorni scorsi, di fronte alla bagarre “intrademocratica”, il partito è sembrato una corazzata blindata, una specie di  PCI dei tempi d’oro — non saprà approfittare anche perché di elezioni, salvo sorprese, si riparlerà nel 2018 della crisi intestina dell’avversario, troppo inconcludente, impreparata e “Arcorecentrica” com’è. 
L’unica chance che a mio avviso ha oggi l’area berlusconiana non è accettare un eventuale governo di larghe intese dove, qualora si faccia, i rappresentanti del centrodestra avranno un ruolo non superiore a quello del personale di pulizia di Montecitorio, ma boicottare con la guerriglia diplomatico-parlamentare l’imminente vicenda dell’incarico ad Amato o a Letta e puntare con tutte le forze disponibili su una nuova tornata elettorale, da giocare, sperando che dopo l’ennesima débacle almeno un barlume di buon senso torni a brillare, con determinazione, con volti vecchi (magari in ruoli nuovi) ma anche volti nuovi e progetti chiari e seducenti per quella minoranza di elettori di centrodestra che non va a votare o per i centristi ingenui sconfortati dopo l’esito della manovra Casini-Monti. Magari senza dimenticare i principi non negoziabili...

martedì 16 aprile 2013


LA VOLPE E I LEONI ASSOPITI



Non si riesce a fare un governo coerente con il risultato delle recenti elezioni politiche, ergo coerenti con la volontà del popolo italiano (espressa ovviamente, non in modo assoluto ma in relazione al ventaglio di offerte poco attraenti o autenticamente millantatrici che gli si ponevano).

Prima abbiamo avuto l’attesa per il conferimento del mandato esplorativo al “vincitore” di marzo, quindi la lunga esplorazione, accompagnata dall’ostinata operazione di seduzione dei “marziani” 5 Stelle, poi la rinuncia “non definitiva”, infine i dieci saggi (o i "dieci piccoli indiani" di Agatha Christie?). E ancora: l’analisi delle proposte dei saggi e lo stop dovuto all’elezione presidenziale. A cui farà seguito l'attesa dell’insediamento del nuovo “uomo (o donna) del Colle” e il conferimento di un nuovo mandato per la formazione di un governo da parte sua. Oppure nuove elezioni, si vocifera a luglio.

Cercando di tradurre in tempi tutte queste successive fasi procedurali  si ottiene la seguente cronologia.

A dicembre del 2012 Berlusconi “stacca la spina” al governo Monti e apre la crisi: il governo Monti rimane in carica per l’ordinaria amministrazione; a marzo: elezioni anticipate; intorno al 10 aprile fine del lavoro dei saggi; 18 aprile inizio delle elezioni per la presidenza; insediamento di “Mister (o miss/mistress) X” a maggio; conferimento del mandato a giugno; fine esplorazione a giugno o luglio; inizio attività nuovo governo a settembre. Oppure: elezioni a luglio, conferimento del mandato a settembre, avvio del nuovo governo nella migliore delle ipotesi a ottobre 2013.

Risultato: forse nessuno se n'è accorto i leoni della politica dormono —, ma Monti, invece che andare a casa ad aprile, governerà fino all’ottobre del 2013
E questo che cosa significa? Che, nonostante tutte le varianti in corso d’opera, Monti arriva a fine-mandato, anzi va oltre.

Il governo di emergenza opererà, ancorché a regime ridotto — ma sarà bello vedere chi ostacolerà le impennate di giri che vorrà permettersi —, per un bel pezzo. Ma dare a Monti più mesi (otto o nove) per lavorare significa aggravare le conseguenze di quello che è riuscito a fare e a non fare nei mesi dal novembre 2011 al dicembre 2012. Quindi vuol dire aggravare la recessione e aumentare il peso del fisco che non riesce più a “realizzare” i suoi target attingendo perché il corpo sociale e il mondo delle imprese sono sempre più esangui. Lalgido e miope governo tecnico magari ci “coprirà” validamente ma alla lunga i nodi veri, espressi dai numeri verranno a galla — con Bruxelles, ma, d’altro canto, arrecherà al Paese un danno difficilmente rimontabile e la pazienza degl’italiani, con una tassazione al 52%, non sarà eterna.

Accadrà così, per altro verso, esattamente quello che aveva previsto il vecchio Volpone (chi non ricorda lingegnosa e scaltra trama della vecchia commedia Volpone di Ben Jonson, divulgata dal film Masquerade degli anni Sessanta?) che si appresta a lasciare la residenza che fu gdi Pio IX. Napolitano si dimostra ancora una volta, nonostante l'immagine di apparente debolezza che lo connota, il vero vincitore e il vero politico — moderno, ergo machiavelliano — di rango: ha spaccato e poi distrutto il potere del centrodestra, la cui remuntada assomiglia sempre più a uno spasmo preagonico che non a una reazione salutare; ha spianato la strada a un successo, ancorché di Pirro (non “di Pirlo”), della sua antica compagnia, ma ha tutelato questa compagnia dal disastro di dover gestire il potere in una condizione di minoranza e di minorità. 
E ha nel contempo dimostrato oltre ogni dubbio che nella Presidenza, rebus sic stantibus, ovvero con questa Carta costituzionale invecchiata e piena di buchi altro che la più bella del mondo, si nasconde un potere che la debolezza dell’esecutivo e la minorità del parlamento rivela essere il vero potere. In questo crepuscolo della politica, gli attori sbiadiscono e quello che emerge è il regista del film. Quest’ultimo è un incompiuto che dovrà essere ultimato e rifinito da un altro regista. Vuoi vedere che sarà un personaggio dalla stessa “scuola di cinematografia?

giovedì 4 aprile 2013


DESTRA E DESTRA LIBERALE: 
PER FAVORE NON CONFONDIAMO



 

Sul Corriere della Sera di oggi Angelo Panebianco lamenta l’eccessiva fragilità che affligge la cultura politica dell’attuale destra italiana. E continua sottolineando come essa non si faccia paladina di una maggior difesa dell’istituto della proprietà privata, già gravata di troppi limiti nella carta costituzionale ed esposta, quindi, all’arbitrio delle maggioranze parlamentari e dei governi.
   E fin qui ci siamo. Una destra troppo “sociale” sarebbe una vera destra? Direi di no…
Ma, ahimè, l’argomentazione del noto — e non di rado eccellente — politologo è viziata da un equivoco di fondo: tutte le carenze che imputa alla destra sono carenze di liberalismo. Per lui la destra si riduce tout court alla destra liberale. La quale si distingue certamente dalla sinistra per molti aspetti, uno dei quali è proprio quello dell’uso sociale della proprietà, spesso, per via legislativa o fiscale, ampliato a dismisura. Ma si distingue e si contrappone anche al conservatorismo che della destra è l’espressione più genuina. Non che la destra liberale e la destra autentica non abbiano punti in comune. Molte delle libertà rivendicate dal liberalismo “non liberal”, non radicale, non “alla Scalfari”, per intenderci, fanno parte anche del patrimonio — o, come si dice oggi, del Dna — del conservatorismo, tuttavia (a) non sono tutte le stesse e (b) non sempre sono intese nello stesso modo nelle due ottiche.
La lotta contro lo Stato-Moloch e la difesa dell’autonomia del privato è certo una battaglia squisitamente conservatrice, però il conservatore non rivendica solo la libertà individuale, ma libertà dell’individuo “complesso”, visto inscindibilmente inserito in corpi di cui naturalmente fa parte, e libertà dei corpi medesimi. In primis della famiglia, nei confronti della quale il liberale non si rende conto di quanto le libertà individuali, se fraintese e dilatate oltre misura — per esempio, l’apertura indiscriminata dei punti-vendita, il gioco d’azzardo, la prostituzione non disciplinata, il divorzio, l’aborto, ecc. — o anche solo equiparate a quelle lecite e irrinunciabili — autodifesa, fiscalità giusta, diritto-dovere di procreare, libertà d’impresa e di religione — possono agire come dei terribili solventi e veleni.
Vorrei — ho l’ardire di — dire a Panebianco: la destra, se è vera destra e non un pateracchio ideologico, è tutto fuor che liberale. Se vi sono punti di contatto fra destra e liberalismo e storicamente è esistito ed esiste una destra liberale; ancora: se è meglio la destra del liberalismo alla sinistra liberale o al socialismo, non è per questo lecito confondere due realtà dissimili e in certa misura antitetiche.
Noi conservatori italiani e, ipso facto, conservatori cattolici, per inciso, non possiamo dimenticare quanto il nostro liberalismo ottocentesco, figlio indiretto della ghigliottina del 1793 e schiavo diretto della visione panstatalistica hegeliana, ha distrutto del capitale di virtù sociali accumulate nella nostra Penisola in secoli e secoli di ordine civile illuminato dal diritto naturale e animato dal cristianesimo.
Non dico che bisogna fare la guerra al liberalismo indiscriminatamente — eventualmente solo a quella sua deriva “giacobina” e borghese che si riflette sulle colonne de la Repubblica —, anzi si deve cercare la massima collaborazione con quelle frange liberali più “illuminate”, cioè più “aggredite dalla realtà” — che hanno capito cioè con l’acqua sporca del bagnetto si sta gettando via o spesso si è stati in procinto di gettare via anche il proverbiale bambino —, più sensibili al richiamo dei princìpi naturali e non ostili pregiudizialmente alla presenza del dato religioso nella sfera pubblica.
Ma, per favore, smettiamo di confondere le cose:  non lo dico specificamente a Panebianco, ma a tutti i numerosi personaggi che, con maggior o minor grazia o lucidità, millantano la medesima falsa equazione destra-liberalismo. Destra è conservazione, in tutta la dinamica possibile — e misconosciuta — del termine. Destra è lotta contro lo Stato onnipotente e per la proprietà privata e per i diritti naturali, ma è anche difesa delle comunità naturali non solo dallo Stato ma anche dagli egoismi privati, peggio se corporati e potenti.
Il primo dei postulati che distingue la destra da altro è proprio il primato della verità sulla libertà e il rispetto, specialmente in tempi in cui il cosmo semanticoper usare una felice espressione del precedente pontefice Benedetto XVI è altamente corrotto e confuso sistematico della verità del linguaggio.




mercoledì 3 aprile 2013


ABORTO
"ALLA CINESE"

Ha fatto il giro del mondo la fotografia del bambino di sette mesi abortito forzatamente in Cina. Quasi tutti gli organi mediatici italiani, a esclusione de il Foglio diretto dal deciso antiabortista Giuliano Ferrara, ne hanno presentato l’immagine — immessa in Internet dal padre — velata, in modo tale che non si riconoscessero le fattezze, per di più quasi simili a quelle di un neonato, di una vittima di un aborto, cioè di un piccolo d’uomo ammazzato e sfigurato dalla sofferenza, gettato su di un tavolo.

Il fatto, anche se non nuovo in assoluto — ricordiamo la fotografia di qualche anno addietro di un neonato nudo gettato in un rigagnolo lungo un marciapiede nell’indifferenza dei passanti? —, risveglia riflessioni assai poco “gaudiose”.

Parto da quest’ultimo dato: la velatura della realtà. Perché chi legge o guarda non dovrebbe vedere con i suoi occhi in che cosa consiste un aborto? Forse per timore che l’immagine sia vista dai piccoli? Certo. O forse — e credo sia la cosa più probabile — perché capire ictu oculi  che l’aborto è uccisione sanguinosa di un essere umano innocente potrebbe mettere in crisi tante filosofie, e teologie, e prassi liberatorie in cerca di una legittimazione legale, anzi di una sempre maggiore estensione dello status di legalità già raggiunto?

Poi, il settimo mese: anche i Paesi più “avanzati” nella liberalizzazione della pratica abortista pongono dei limiti temporali all’uccisione, nella erronea convinzione che dopo una certa data non si tratti più di “grumi di materiale organico” ma di un bambino. In Cina no: è talmente importante che una vita non veda la luce che è lecito uccidere fino al tempo in cui un bambino potrebbe quasi certamente sempre vivere al di fuori del grembo della madre. Sarebbe fra l’altro bello capire se si tratta di vere e proprie leggi oppure di regolamenti sanitari o di polizia, non dimenticando che fior di giuristi italiani stanno da anni collaborando con il governo comunista di Pechino per dare una forma all’apparato legislativo della Repubblica cinese, non curandosi di che cosa disciplinino tali leggi.

Ma gli aspetti tragici e sconvolgenti della vicenda non sono finiti: l’aborto di una creatura umana con tanto di padre e di madre è stato un aborto obbligato. Se la madre non avesse acconsentito, sarebbero scattate sanzioni gravi, cioè una “contravvenzione” di oltre tremila euro che in Cina equivalgono, non so a quanti, ma di certo a molti stipendi. E questo credo sia il punto più gravido di riflessioni e di moniti. In un Paese a regime totalitario come la Cina comunista lo Stato ha il potere di decidere se si deve vivere o meno, chi è padre o madre non ha diritto alcuno sulla prole. Questo smentisce radicalmente, fra l’altro, la tesi che la Cina abbia rinunciato al socialismo: se è vero che forme di proprietà privata dei beni sono state introdotte, quella sui “prodotti” del concepimento letteralmente non esiste. Per poter procreare occorre il permesso dello Stato e l’eventuale figlio non è di pertinenza di chi l’ha messo al mondo —o in cantiere — ma della collettività. Più collettivismo di questo… E pensare che il comunismo si è proposto per secoli come difensore del proletariato, ovvero di coloro che non possedevano nulla al di fuori della propria prole! Il partito dei proletari si appropria anche della prole!

Non dimentichiamo quindi che il fatto che è divenuto noto all’opinione pubblica occidentale non è un fatto isolato, ma solo una delle migliaia e migliaia di casi di aborto coatto in stadio avanzato di gestazione che si registrano. E non dimentichiamo neppure che in Cina esiste una taglia sulle madri al secondo figlio: è prassi normale che chi le denuncia gode di un premio da parte delle autorità.

La Repubblica popolare cinese, abortista e, con l’incentivo della delazione, distruttrice della concordia civile, si rivela dunque nel secondo decennio del terzo millennio cristiano quello che è stata dal suo inizio nel 1949 a oggi: un regime onnipotente e omicida di massa, dove lo Stato ha potere su tutto e il Partito Comunista Cinese, un’associazione nominalmente privata che però gode di potere assoluto sullo Stato,  ha la totale facoltà di decidere il destino degli uomini da ancora prima che nascano.

Mi torna in mente, concludendo, quello che si diceva ai tempi della introduzione della legge 194 del 1978 che ha introdotto la libertà e il finanziamento pubblico dell’aborto in Italia: se permettiamo che abortire, anche sotto ben determinate e gravi condizioni, diventi un diritto, infrangiamo un principio e rompiamo il classico vaso di Pandora. Se smettiamo di dire che l’aborto non è mai lecito, se lo Stato concede alla madre di liberarsi di un figlio concepito, se fra le libertà civili inseriamo anche questo diritto, non solo legittimiamo un comportamento inumano ma ne esponiamo la pratica all’arbitrio. Oggi un governo o un parlamento può ammettere l’aborto sotto limitazioni più o meno pesanti, ma domani può decidere di allargare tali limitazioni o può spingersi fino quasi ad annullarle. O, addirittura — e questo è il caso cinese — se per ipotesi tale governo non è più sottoposto al controllo di istanze più elevate o alla sanzione popolare, se diventa un regime totalitario, una volta trovatasi aperta la strada, potrà trasformare il diritto in obbligo positivo e affidarne la sanzione a uno qualunque degli organi pubblici.

Ecco, la storia conferma il pronostico: entrambe le prassi, quella dilatativa delle condizioni e quella coattiva sono una realtà.

Da noi non esiste il poliziotto con la stella rossa sul berretto che viene a prendere a casa le gestanti “fuorilegge” per portarle in ospedale, né vi sono premi per i delatori. Ma esiste un potere di persuasione sottile, radicalmente ostile alla vita, di cui sono promotrici culture ideologiche e istanze politiche sovranazionali, che crea le “condizioni”, i fattori di condizionamento, perché sempre più spesso la gestante vada da sola “volontariamente” ad abortire in tempi sempre meno precoci.

Che il “caso” cinese valga a monito per chi dalle nostre parti ha ancora qualche limitata possibilità d’influire sulle cattive leggi che esistono e che si vengono formando o modificando: il futuro potrebbe essere non molto dissimile...

lunedì 25 marzo 2013





BREVI CONSIDERAZIONI 
SUL POSTCOMUNISMO




   L’onorevole Silvio Berlusconi, quando vuole effettuare un affondo contro il Partito Democratico e, nel contempo, suscitare l’entusiasmo dei suoi fedeli, sfodera senza timore la parola “comunisti”. Bersani e i suoi, cattolici democratici compresi, non sarebbero altro per lui che la continuazione, sotto mentite spoglie, del vecchio partito comunista, che, con i suoi errori e le sue colpe, con la sua mentalità settaria e la pratica abituale del mendacio, era un tempo l’arcinemico delle destre. È un illuso, Berlusconi, o uno scaltro manipolatore di coscienze che propala a sua volta menzogne per attizzare un odio anticomunista da “guardie bianche” oppure uno che, in qualche misura e forse solo “a naso”, “ci azzecca”?
Forse, le prime due cose, almeno in parte, sono vere. Però, nella sua argomentazione così tranchant e apparentemente rozza credo vi sia un fondo di verità.
Al di là della filiazione storica oggettiva da Partito Comunista Italiano a Partito Democratico della Sinistra, da Democratici di Sinistra a Partito Democratico — che il Cavaliere cita spesso —, in questa catena di cambiamenti d’identità qualcosa è rimasto, un substrato esiste ancora di quello che era il vecchio modo di pensare e di agire dei comunisti “storici”, qualcosa che sopravvive al di là del ricambio di personale politico, dei programmi, dei riferimenti ideologici e partitici. Esiste cioè un fil rouge che lega i comunisti di Berlinguer — prendendolo come esempio — e i “democratici” di Bersani.
La difficoltà nel rinvenire questo filo rosso fra postcomunisti e comunisti non dipende solo, a mio avviso, dall’abilità con la quale i membri del partito postcomunista si travestono — le differenze non sono poche — da social-democra­ti­ci europei, ma da un grosso equivoco culturale dal quale solo pochi studiosi del comunismo — e poco noti, al di fuori di determinati ambienti del mondo cattolico: li cito più sotto — hanno messo in guardia.
E l’equivoco consiste nel credere che comunismo e socialismo sia due realtà coincidenti, credere cioè che il collet­tivismo sociale, la società livellata in senso egualitario, la proprietà dei beni allo Stato, il socialismo “reale”  sia la sostanza, l’essenza del comunismo. Ossia credere che nel marxismo professato dai comunisti a suo tempo il mate­rialismo dialettico e il materialismo storico, che sfocia nella società senza classi, siano due aspetti inscindibili. Eliminato, perché crollato e impresentabile, il socialismo reale dagli obiettivi degli eredi del comunismo, quindi, non avrebbe più senso parlare di comunismo.
In realtà non è così. E non nel senso dei progressisti non marxisti, specialmente cattolici, che negli anni della grande fascinazione marxista, gli anni 1970, sostenevano — e forse ancora sostengono —, in Europa e in America Latina, di fare a meno della dialettica e di avvalersi della sola concezione materialistica della storia come mero strumento di analisi dei “conflitti di classe”. Bensì in senso esattamente opposto: cioè che l’“essenza” — uso le virgolette proprio perché il marxismo nega che le cose abbiano una essenza fissa — autentica del marxismo dei comunisti è proprio la concezione dialettico-materialistica della realtà, mentre la lettura della storia come lotta di classe ne è una categoria derivata ma non più — per usare una categoria anch’essa marxista — di una sovrastruttura, un elemento in fin dei conti acciden­ta­le e, in tesi, caduco.
E qual è l’“essenza” della dialettica marxista? Come noto, la dialettica è il movimento ininterrotto in cui qualunque concetto che si pone viene di continuo superato dal suo opposto e da tale superamento nasce un altro concetto che nuovamente si pone e che sarà a sua volta superato. Nell’accezione marxista tutta la realtà non è altro che materia in perpetua evoluzione secondo il ritmo triadico tesi-antitesi-sintesi: ogni epifenomeno della quale — ogni bolla che si forma dal ribollire perpetuo del metaforico pentolone — esiste nella misura in cui forze oscure ne promuovono la nascita momentanea, ma subito dopo la riassorbono.
L’accento va posto proprio su questo termine “superamento”, concetto espresso meglio dal tedesco  o Auf­hebung, cioè superamento verso l’alto (auf), verso l’ulteriore: la logica marxista non concepisce nulla di stabile, di definito, di perpetuo. Tutto è divenire e perenne mutamento verso stadi “superiori”. «La tesi della razionalità di tutto il reale si risolve quindi secondo tutte le regole del ragionamento hegeliano nell’altra: tutto ciò che esiste è degno di perire», scrive Friedrich Engels (1820-1895)[1]. E secondo il Manifesto comunista del 1848, «vengono quindi travolti tutti i rapporti consolidati, arrugginiti, con il loro codazzo di rappresentazioni e opinioni da tempo in onore. E tutti i nuovi rapporti invecchiano prima di potersi strutturare. Tutto ciò che è istituito, tutto ciò che sta in piedi evapora, tutto ciò che è sacro viene sconsacrato, e gli uomini sono finalmente costretti a considerare con sobrietà il loro posto nella vita, i loro rapporti reciproci»[2]. E tutto ciò che fa da ostacolo, tutto ciò che è antitesi, ogni realtà che non si presta a divenire sintesi, a questa dialettica incessante va abbattuto, va dissolto.
«Convenzioni, tradizioni sociali, fedeltà provinciali, patrie, nazioni, proprietà: in una parola tutto ciò che fissa, tutto ciò che radica, tutto ciò che è durevole o favorisce la stabilità»[3] deve sparire, scrive . Lo sforzo dialettico di progresso ha come fine di emancipare sistematicamente l’uomo dalle sue “alienazioni”. E questo vale sul terre­no prediletto da Marx, quello economico-industriale, ma anche e specialmente sul piano delle credenze, della religione, delle “sovrastrutture”, meno inclini al cambiamento. «Per realizzare un ideale di azione pura, occorre […] uno stato di disponibilità pura, una condizione di sradicamento totale. E perché il proletariato operaio è essenzialmente una classe di “senza radici”, esso è per eccellenza la classe rivoluzionaria»[4].
«Per sviluppare una volontà rivoluzionaria totale, che non voglia conservare niente, che non mantenga niente di conservatore, che voglia trasformare tutto, creare una società completamente nuova, ci volevano uomini che non avessero rigorosamente niente, che fossero strettamente spogli di tutto» (Jean Daujat (1906-1998), Conoscere il comunismo, trad. it., il Falco, Milano 1979, p. 19).
È dunque pensabile un marxismo “senza Marx”, un marxismo dove dell’articolata dottrina del filosofo di Treviri rimane solo il nucleo centrale: la concezione dialettico-materialistica del reale. Il comunismo o i comunisti — come più spesso, con estrema concretezza, per evitare la subdola domanda dialettica “sei anticomunista? sì, ma contro quale comunismo sei?”, li chiama la dottrina cattolica —, per quanto numerosi, sono infatti una «[…] setta. Non dovete pensare — scrive acutamente nel 1961, quando s’inaugura la “distensione” fra Usa e Urss e la scena è dominata da John Kennedy e dal “Papa buono”, un vescovo tradizionalista brasiliano, postosi poi in rotta con Roma —, infatti, che il comunismo sia solo  un partito  politico. Lo è, certamente, e le sue reti avvolgono in molti paesi migliaia e perfino milioni di uomini e donne organizzati politicamente, e che servono da nucleo intorno al quale gravitano altre migliaia di simpatizzanti e di collaboratori. Ma il comunismo è più di questo; è una setta filosofica, che tende alla conquista di tutto il mondo al suo modo di pensare, di volere e di essere. Per giungere a questa conquista i comunisti si organizzano in partito, ma l’irreggimentazione partitica è solo un mezzo, uno strumento per raggiungere la meta universale. Ciò che anima l’azione della setta marxista e le dà energia interna, chiarezza di fini, coesione e coerenza è la sua ideologia»[5]. Il comunismo non è, dunque, un movimento per la giustizia sociale, per la pace, per le “pari opportunità”, per l’uguaglianza dei popoli, come si dipingeva nella sua propaganda. Si tratta invece di un gruppo di uomini, che professano dottrine di sapore gnostico e che adorano “il divenire per il divenire” e intendono “liberare” l’uomo da tutto ciò di naturale e di fermo, stabile, duraturo che ne caratterizza la natura e l’esistenza e che impedisce l’annegamento dell’individuo nel tutto, il singolo uomo in una umanità indeterminata.
Ciò posto, possiamo dire che il movimento comunista “storico”, cioè il socialismo marxista di stampo sovietico — che prende nome dalle assemblee operaie o soviet del periodo precedente al 1917—, come tale, non c’è più: forse solo a Cuba il modello collettivistico a fatica resiste. In altri Paesi tuttora ufficialmente comunisti la visione dialettico-marxista del gruppo dirigente non si coniuga più con il “socialismo reale”, ma con una qualche economia di mercato controllata, con una sorta di capitalismo dirigista e illiberale di cui il Partito, attraverso lo Stato, è il motore e il regista. L’esempio più clamoroso in tema è quello della Repubblica Popolare Cinese, dove il marxismo-leninismo rimane l’ideologia del gruppo al potere, ma l’intera politica economica obbedisce a leggi diverse. L’ideologia di partito ha abbandonato la sfera economica e si è concentrata su quella politica, ancorché con discrezione, almeno agli occhi esterni. Nei Paesi dove vigono istituzioni libere il comunismo come tale si è eclissato, non esiste più o rimane patrimonio di minoranze contestative marginali. Anche in questo caso la saldatura fra visione dialettica della realtà e socialismo “reale” è caduta.
Ma possiamo dire che la dialettica sia sparita? No: la dialettica persiste non più come dottrina ma come forma mentis ereditaria.
Se osserviamo quel poco di dottrinale che si può rinvenire nei programmi e nella linea politica delle forze politiche postcomuniste si vede nitidamente come il vecchio tour d’esprit relativistico non è morto, ma solo la sua estrin­se­ca­zio­ne ha subìto — in perfetta coerenza con la “natura” contraddittoria della dottrina del divenire attraverso il superamento di conflitti e contraddizioni — una metamorfosi. Al proletariato e, più in generale, a una dottrina precisa e alternativa dell’economia e della società, si è infatti sostituito qualcosa di diverso, di meno tangibile, un soggetto, o un insieme di soggetti, nuovo, che oggi incarna la contraddizione, la sfida all’ordine vigente, all’essere presente, e che diviene la leva per attuare il progetto di sradicamento totale.
Non che non importi più loro delle classi umili o delle sparute tute blu restanti: in questa prospettiva, però, l’autentico soggetto “debole” e, in tesi, rivoluzionario del terzo millennio cristiano, non sono più gli operai e neanche le donne, come ai tempi della prima stagione dei diritti civili. Operai e donne sono vecchie “antitesi”, da usare all’occorrenza. Oggi l’ostacolo allo “sradica­men­to totale” non è più visto, come fino a qualche decennio fa, nelle discriminazioni legali della donna, del figlio illegittimo, del coniuge del matrimonio fallito, della donna incinta che non vuole divenire madre.
Oggi il polo dialettico negativo da porre e da superare per progredire è la persistenza — nelle leggi e nel costume — di differenze del tutto radicali e per i cristiani da difendere, in quanto “non negoziabili”. Del confine fra la vita e la morte, fra sesso maschile e sesso femminile, fra umano e subumano o inumano, fra la realtà oggettiva e la sua “costruzione” soggettiva.
Qui, su questo fronte poco visibile, su questo discrimine sottile, intorno a queste materie dove occorre una preparazione non ordinaria, si combatte ai nostri giorni la battaglia.
Il nemico di un postcomunismo, contenitore vuoto di una dottrina positiva, non è il borghese liberal, che su questi punti non fa opposizione o di essi non fa una questione di principio. E neppure il cattolico progressista o distratto. Nemico mortale diventa invece chi al drammatico passaggio di questo estremo limen si oppone: chi difende la vita innocente, al suo inizio e al suo termine, contro la morte; chi sottolinea che la diversità e la complementarità sessuale è in re, nel bios; chi pensa che fra uomo e bestia o vegetale esista una differenza di essenza, di sostanza, di ordine e di qualità — tutti termini “ahimè” tomistici, ma quanto appropriati! —; che il reale non è una costruzione arbitraria del singolo: la ragione non può
Per inciso l’odio profondo per gli uomini di centrodestra di ieri e di oggi non è tanto o solo la figura esecrata del Cavaliere di Arcore, ma la consapevolezza che nel centrodestra, fra una maggioranza che su questi punti non ha idee o forse è anche a favore, vi sono dei grumi, dei noccioli incomprimibili, dei residui che possono — non è detto che debbano — tradursi in altrettanti sassolini che s’incastrino negl’ingranaggi e blocchino la “gioiosa macchina” che porta al “grande sradicamento”.
È questo, più che legami programmatici o storici, che apparenta il vecchio sogno di dissoluzione totale che si ritrova nell’ideologia marxista “profonda” al disperato “negativismo” e all’esasperata battaglia per “diritti civili” dei postcomunisti e li fa trovare — loro e i loro sindacati: non dimentico che la Cgil ha presentato un ricorso a Bruxelles contro il troppo elevato numero di medici obiettori di coscienza contro le pratiche abortive — sempre in prima fila in tutte le battaglie contro la vita innocente, la libertà di educazione e la famiglia naturale.
Ecco questo, credo, è quanto rimane del comunismo nel postcomunismo: non elementi di dottrina formali,  ma una mentalità diffusa, impalpabile ma dura come il diamante. Per questo si può affermare con legittimità che l’antica “setta”, come la chiama il vescovo di cui sopra, non è morta: qui ha rottamato le cose ormai impresentabili, là ha sostituito il soggetto sul quale “lavorare” con un altro: ma il giro mentale, la logica basata della dialettica “amico-nemico”, dove tutto ciò che vuole conservare qualcosa, anche di minimo, che dia origine a una qualunque differenza, ancorché benefica, diventa il Nemico da odiare e da abbattere, è rimasta identica.
Forse, gli attuali postcomunisti nemmeno se ne accorgono, è per loro un riflesso condizionato, un pre-giudizio, qualcosa che viene prima del giudizio di ragione, ma è così…
E credo che finché questa impronta ideologica non scomparirà, quando questa radice antica non sarà tagliata, quando queste forze non cambieranno davvero identità, pur nelle diversità di accenti, sarà impossibile costruire nella nostra Italia qualcosa di politico e di civile adeguato al nuovo tempo e destinato a durare.
Quanto quello che ho detto sia vero lo vedo confermato dal passato recente, ma ancor più lo vedremo tutti confermato se e qualora il Partito Democratico governerà: se così andrà — e non me lo auguro — le prime cose che faranno Bersani e i suoi non sarà di rimboccarsi le maniche per cercare di raddrizzare la barca di un Paese che sta affondando. Esattamente come hanno fatto e fanno nelle amministrazioni locali conquistate, a Roma la loro prima preoccupazione — dopo aver fatto leggi ad personam per mettere definitivamente fuori gioco Silvio Berlusconi — sarà di buttarsi sui presunti diritti civili e mettere atto la trita agenda fatta di leggi sui “desideri” che “finalmente” ci equiparerà ai Paesi “più avanzati”: matrimoni omoses­suali, adozione gay, eutanasia, manipolazione degli embrioni, e tutto quanto segue… Hanno ben poco di altro “da vendere” e in queste materie il rischio di fallire politicamente non è, in fin dei conti, alto come nelle altre...





[1] Friedrich Engels, Ludovico Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, in K. Marx e Idem, Opere complete, a cura di Luciano Gruppi, Editori Riuniti, Roma 1971, p. 1.106).

[2] Karl Marx e F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, 1848, trad. it. di Lucio Caracciolo, Silvio Berlusconi Editore-liberilibri, Milano-Macerata 1998, in formato Pdf alla pagina , consultata il 24-3-2013, p. 14.

[3] Jean Ousset (1914-1994), Marxisme et Révolution, Club du Livre Civique, Parigi 1973, p. 80. 

[4]  Ibid., p. 81.


[5] Mons. Antonio de Castro Mayer (1904-1991), Le insidie della setta comunista, in Cristianità, anno II, n. 6, luglio-agosto 1974, pp. 1-12 (p. 5).

domenica 10 marzo 2013

 
IL TEMPIO VUOTO
 
   Roma, 9 marzo 2013, sabato, ore 11,10: insieme a mia moglie entro quasi casualmente in un’antica chiesa di via del Corso, una delle due o tre dove alla dome-nica si celebra la Messa con il rito straor-dinario. Sta celebrando un sacerdote di mezza età, rivolto al popolo. Le luci e candele sono accese, i microfoni inseriti: ha appena terminato di leggere la scrittura all’ambone: ne ho colto le ultime parole, pronunciate stranamente sottovoce. Tutto regolare, insomma, direte.
   Ma non è così: la chiesa dove sono entrato, tutta linda e lustra, è vuota, spaventosamente vuota. Oltre al celebrante non c’è nessuno: né un chierichetto, né un laico addetto alle letture, né un solo ascoltatore. Una missa sine populo non voluta.
   Decido allora di fermarmi, spinto soprattutto dal desiderio di dare a quel sacerdote — non so se la cosa fosse per lui abituale, ma credo che un sacerdote vi si possa rassegnare mai — la consolazione della presenza di una se pur minima ombra di populus, di qualcuno che ascoltasse le sue preci e partecipasse al santo sacrificio da lui celebrato.
   È la prima volta che mi capita di entrare in una chiesa durante la Messa e di non trovarvi anima viva: mi era successo di trovare chiese vuote, ma al di fuori della funzione principale, magari in ore in cui le chiese non sono frequentate. Ma mai, ripeto, ho assistito a una Messa istituzionale, ancorché feriale, in una chiesa del centro della cristianità senza trovarvi nemmeno l'ombra di un sacrista.
   Mera coincidenza o segno dei tempi? Propendo per la seconda ipotesi. Di fatto, nessuna delle persone che gravitano intorno a quella chiesa — tante? poche? chissà… —, né alcuno dei mille di passaggio sulla frequentatissima via del Corso a Roma in una tarda mattinata di un giorno per molti non lavorativo, in Quaresima, ha ritenuto di entrare e di assistere alla messa.
 
   Possiamo pensare che sarebbe stato così anni addietro? Oppure oggi la partecipazione al culto pubblico è drammaticamente decaduta? Se così è, che cosa aspettarsene? Che cosa pensare per il futuro?
 
   Che cosa sarà domani di quella chiesa? Finirà rottamata con tutti i suoi arredi, come accade in Olanda — lo ha raccontato assai bene Vittorio Messori in un articolo scritto all’indomani della rinuncia di papa Benedetto XVI —, e le sue mura ospiteranno la show room dell’ennesimo stilista? oppure un negozio di abbigliamento trendy? o una sala-giochi? Non sono prospettive pessimistiche di un retrivo: in molti luoghi è la realtà!
 
   D’accordo, la messa è valida anche sine populo, Dio è soddisfatto. Ma sfortunato quel popolo che non sente più il bisogno di comunicare ai sacri misteri: come farà a riempire il vuoto che la vita moderna crea nei cuori? Non andrà a infoltire i ranghi — per così dire — di quelle orde di “barbari” deracinées, stufi di Dio e vuoti di senso, che si trascinano nei corsi e nei centri commerciali delle nostre città secolarizzate, nei giorni festivi, sempre più etero-diretti dalla pubblicità e bramosi appagamenti sempre più terra-terra e che nemmeno i beni materiali riescono a colmare?

 

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