sabato 7 gennaio 2023

Conservazione e missione

 

Il ricco e profondo magistero del papa emerito tornato pochi giorni fa al Padre è contenuto nelle centinaia di testi che egli ha pubblicato, da teologo, da professore, da cardinale e, infine, da pontefice. Ma lo si trova anche condensato in piccoli ma memorabili passaggi, autentiche “perle” dei suoi discorsi, omelie e saggi. Tutti, per esempio, ricordano la magistrale e altamente sintetica formula «riforma nella continuità del medesimo soggetto-Chiesa» per dire che cosa era stato, al di là delle polemiche incrociate, il vero senso del Concilio Vaticano II. Oppure la precoce intuizione, della fine degli anni 1950, dello spopolamento delle file dei fedeli sino a ridursi a un piccolo greggeche la Chiesa avrebbe conosciuto nei decenni a venire.

Ma ve n’è uno che mi risuona particolarmente frequente nelle orecchie in questi giorni di inizio 2023 e che mi pare pertinente per aiutarci a comprendere meglio il tempo presente. È un insegnamento che egli applicava in primis alla Chiesa apparso alla vigilia del Sinodo Straordinario sul ventennale dell’assise ecumenica, celebrato dal 24 novembre all’8 dicembre 1985. Mi riferisco a quella felice risposta che egli, ancora cardinale e prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede diede al giornalista Vittorio Messori che lo intervistava nell’agosto del 1984 a Bressanone, in Alto Adige, dove Ratzinger passava qualche settimana di vacanza e di studio, un colloquio da cui sarebbe nato il famoso libro Rapporto sulla fede. Vittorio Messori a colloquio con il cardinale Joseph Ratzinger, pubblicato nel maggio del 1985.

Interpellato su quale fosse il vero “spirito” del Concilio, l’allora presule ebbe a rispondere: «Molti dimenticano che il concetto conciliare opposto a “conservatore” non è “progressista” ma “missionario”» (p. 9).

Questo insegnamento, valido in ambito ecclesiale, stimola tuttavia la riflessione anche in altre prospettive. Di esso mi pare infatti sia lecito, ovviamente in via analogica, fare tesoro utilizzandolo come criterio per capire meglio dove sta andando oggi la società civile e, al suo interno, la politica.

Trasferendoci dall’orizzonte ecclesiale a quello, distinto ma non separato, secolare, spostandoci cioè sul piano della filosofia politica, la medesima distinzione mi pare si possa applicare in generale al ruolo della politica ma, in particolare, alle caratteristiche che dovrebbe avere un movimento o un partito che voglia definirsi conservatore. La sua prospettiva, la sua intentio, dovrebbe quindi essere non tanto voler conservare questo o quell’elemento meno “radicale” o più “moderato” della situazione presente, bensì soprattutto quella di ricostruire un futuro secondo i principi che il progressismo, potremmo dire la Rivoluzione moderna, autentica utopia gnostica di massa, organizzata e armata, nega e combatte. Questo non va contrapposto dialetticamente alla difesa dell’esistente: anche il missionario religioso ad gentes cerca di difendere la bontà residua dei costumi dei “missionati” per poi purificarli. Il conservatore applica la legge dell’ “et, et”: difende e riedifica, senza disprezzare il poco di buono che sopravvive e quello che di sicuro, anche solo come “scarto di produzione”, rinasce. L’accento, la priorità che lo anima è lottare per ricostruire, per ricreare forme di convivenza collettiva in linea con l’idea di creazione e con una corretta antropologia, che non escluda il destino eterno dell’anima individuale. Nessun amore per lo status quo in quanto tale deve animare il conservatore: egli o ella deve invece, con lo stile accennato, ricostruire, mutatis mutandis e giorno dopo giorno, un mondo diametralmente opposto al mondo plasmato dalla modernità radicale, un mondo che, si badi bene — egli lo sa, perché non disprezza il magistero sociale della Chiesa e ricorda le parole di Leone XIII nell’enciclica Immortale Dei —, è già esistito fra il Natale dell’anno 800 e la Rivoluzione francese e non è da inventare.

Attenzione, però: il conservatore non ama neppure l’utopia al contrario, la nostalgia romantica di un mondo che non c’è più e che non ci sarà più così come è stato. Tanti nostalgici della cristianità si rifugiano nel mito, amano giocare a dame e cavalieri e dimenticano che allora non c’era l’elettricità, gli inverni erano gelidi, non c’era l’automobile e si moriva di peste o di vaiolo con estrema facilità… Il conservatore desidera un mondo “a misura d’uomo e secondo il piano di Dio” — come dirà san Giovanni Paolo II — che non comporta un regresso di secoli, bensì tesaurizza accuratamente le conquiste del progresso materiale, depurandole dalle schiavitù che esso crea. La tragica discrasia fra progresso materiale e brutale regresso verso la barbarie nelle idee, nei costumi, nella bellezza è il male che oggi ci affligge.

Non è illecito desiderare e operare per far rinascere un mondo che torni a essere popolato di cattedrali e persino imperniato su un nuovo feudalesimo — sì, anche di questa realtà, che decenni di egemonia culturale marxista hanno caricato della peggiore semantica ma che in realtà significa solo rapporto da uomo a uomo, non regolato da contratti formali e dalla burocrazia ma dalla consuetudine —, dove risplenda la “verità delle cose” e la Verità con la maiuscola, dove i rapporti fra le genti siano di reciproca e pacifica assimilazione e non di conflitto. Un mondo che si riconquista passo dopo passo, piccola vittoria dopo piccola vittoria, partendo dal basso, ricostruendo legami e tessuto sani, senza grandi piani strategici ma vincendo ogni giorno al proprio interno, nella propria anima, la propria piccola ma dura “guerra santa”.

 

domenica 1 gennaio 2023

 

Benedetto XVI: un ricordo “a botta calda”

    Benedetto XVI ha compiuto il suo transito al Padre. Era della generazione del 1927, l’ultimo anno dei chiamati alla leva prima che l’apocalisse mondiale del 1939-1945 terminasse, lasciando l’Europa e varie parti del mondo un cumulo di rovine.

    Joseph Ratzinger nel 1943 ebbe anch’egli la sorte per quasi tre anni — e tre anni di guerra ormai persa per il Reich — di vestire la divisa militare, prima quella grigio-azzurra di addetto alla Flak, l’artiglieria contraerea, che difendeva la sua terra dalle terribili incursioni aeree terroristiche degli Alleati, poi quella della Wehrmacht, sebbene senza mai dover combattere.

    Poi, nella Germania post hitleriana, che, sfidando la damnatio totale, iniziava con pazienza e alacrità la ricostruzione e preparava il suo lento ritorno a potenza leader del Vecchio Continente, il suo prorompente cursus di uomo di Chiesa, di teologo e di pastore, una traiettoria senza uguali da umile coadiutore di parrocchia a successore di san Pietro. Un curriculum di studioso inarrivabile — si parla di circa ottomila testi pubblicati, da volumi ad articoli, da pensieri a omelie, su temi religiosi, ma anche politici — di cui il Concilio Vaticano II sarà la rampa di lancio definitiva. Un percorso pastorale simile a uno dei crescendi “rossiniani” da prete a docente, poi perito conciliare, da vescovo ad arcivescovo, da cardinale a prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, infine, a Pontefice, ora al cospetto di Dio.

    Cultore tenace e ininterrotto dell’understatement, schivo e nobile nella sua statura intellettuale, «gentile», come lo ha definito più volte Papa Francesco durante il Te Deum di fine-2022, ha attraversato i numerosi ruoli ricoperti con serenità e distacco, con umana — oserei dire “bavarese” — bonomia, ma con un rigore intellettuale unico e un afflato apostolico senza pari. Vissuto a lungo a fianco di quel “gigante della fede” che è stato san Giovanni Paolo II forse ha potuto risentire dell’ombra di questi, ma quante volte questi ha dovuto ricorrere al mite, ma lucido e inflessibile prelato bavarese, così diverso da lui?

    Da Papa, Joseph Ratzinger ha regalato al mondo dei testi magisteriali di grande valore, ma soprattutto ha tracciato delle mete, dei sentieri nel dialogo con il mondo e con il “mondo” — specialmente con l’islam —, forse ardui, forse esigenti un coraggio ormai introvabile, ma che poi sono stati senza motivo completamente abbandonati: eppure, se così non fosse stato, forse ora qualche — dico qualche — problema in meno ci sarebbe o, quanto meno, non si soffrirebbe delle tante crisi d’identità che oggi il popolo fedele attraversa. Credo che fra i contributi teologico-pastorali più “epocali” che ci lascia vi sia la lettura o, meglio, la forma in cui ha tradotto la lettura — qualche riga di testo pronunciato durante una udienza di fine-anno — del Concilio Vaticano II, tranciando il pluridecennale groviglio di tesi e di contro-tesi con la lama di una espressione semplice e rigorosa: «“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato». Ma non va dimenticato nemmeno quel preziosissimo passaggio dell’intervista del 1985 con lo scrittore Vittorio Messori, secondo cui «Molti dimenticano che il concetto conciliare opposto a “conservatore” non è “progressista” ma “missionario”». Lo stesso amplissimo e sapiente magistero di san Giovanni Paolo II si è spesso appoggiato alla poderosa “macchina intellettuale” del cardinale di Marktl am Inn, sia direttamente, sia attraverso le conoscenze del suo “prefetto della fede”.

    Da intellettuale di razza, la sua mente non si sentiva appagata dalla esegesi del versetto biblico — che pure gli riusciva magistrale — ma spaziava in orizzonti ampi, dalla letteratura alla morale, alla dottrina sociale, alla politica internazionale. Forse la sua vera passione, la sua vocazione autentica era, a lato dello studio, l’insegnamento, che ha praticato per decenni con corsi e lezioni seminariali e accademiche memorabili e che ha con rammarico lasciato quando è stato trasferito a Roma a capo del dicastero della fede.

    Dal 2013 viveva, per alcuni anni in compagnia del fratello prelato, Georg, nel ritiro totale delleremo vaticano immerso nella preghiera e negli ultimi sforzi di studioso.

    Su di lui, vivente, sono stati scritte migliaia di pagine di vario valore, ora la profluvie sarà un’alluvione e non voglio aggiungere inchiostro — o toner — a inchiostro.

    A me piace pensarlo nella pace, che pure a lui anche in vita non era estranea, in piedi di fronte al Signore che ha detto «Beati i miti perché erediteranno la terra». Ecco: al mite uomo di Chiesa che ha vissuto le sue straordinarie doti intellettuali non nel­l’or­go­glio ma nell’umiltà, il Signore ha concesso in un certo senso ancora in vita di ereditare la terra, cioè ha concesso di rivestire il ruolo di suo Vicario nell’intero orbe terrestre. Ma questo infinito beneficio, che pure ha avuto il suo doloroso rovescio di medaglia nell’odio patito, nel disprezzo, nella dimenticanza, è nulla rispetto a quell’eredità che Dio gli ha riservato e che ora, passata felicemente la barriera che separa la vita terrena dalla vita eterna, gli viene trasmessa: il Regno celeste di cui è — o sarà a breve — cittadino per l’eternità.


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