sabato 3 novembre 2007

L’ineffabile Sergio Romano non viene meno alla sua fama di “cerchiobottista”.
Da una parte le sue lucide analisi dispensano, infatti, quasi quotidiane pillole di saggezza e di severità nonché frequenti rampogne sulla decadenza politica del paese. Dall’altra, invece, l’autorevole commentatore politico non si fa scrupolo di bacchettare il Papa e di ammannire una sonora reprimenda ai cattolici in materia di diritto all’obiezione di coscienza per i farmacisti che vogliano sottrarsi all’obbligo (per ora potenziale) di vendere prodotti abortivi chimici.

Romano, nella rubrica di lettere di cui è titolare sul Corriere della Sera (3 novembre 2007), si premura di precisare che chi svolge una “funzione pubblica” non può non obbedire alle leggi dello Stato e, se non lo vuol fare, è meglio per lui cambiare attività, nella fattispecie trasformarsi da farmacista in un volgare “negoziante”.
Tralascio la replica sui singoli punti – che opinione ha della professionalità e della deontologia dei farmacisti, Romano? come concepisce la funzione pubblica, come un ministero o un esercito, oppure come il libero esercizio di funzioni a vantaggio della collettività che chiunque può svolgere e in molti casi, non messi in discussione, di fatto svolge? Come si sposa questa concezione vetero-statalista con il fallimento mondiale dell’equazione pubblico = Stato? – e mi limito a due domande, più o meno “retoriche”.

Se si afferma da più parti che un soldato hitleriano aveva il dovere di disobbedire a un ordine di sterminio, perché invece si nega al farmacista – che per di più non è un soldato e non vuole affatto sopprimere bensì permettere che nasca una vita –, il diritto di dire di no, almeno per quanto lo concerne – cioè dispensare sostanze che curano e non veleni –, a una quasi certa (Norlevo) o inevitabile (Ru 486) soppressione di vita umana innocente?

E se, in virtù di una legge dello Stato – può capitare, ed è capitato –, un giornalista come Romano fosse obbligato a scrivere articoli di apologia di fascismo e questi, fondandosi sulla sua libertà di coscienza, rifiutasse di farlo, ci sarebbe qualcosa da eccepire? Credo proprio di no. E se qualcuno gli facesse osservare che, se non vuole obbedire a una legge dello Stato, può fare, invece che il giornalista, il copista, lo scriba, il dattilografo, cosa che nella maggioranza dei casi equivale in realtà alla disoccupazione?

Questa defaillance del noto scrittore è tuttavia rivelatrice di un altro aspetto sconcertante per i più. Di quale sia cioè la mentalità, la “cultura”, di un certo ambiente, politico e pre-politico, che si potrebbe definire “conservatore nazionale” o liberal-conservatore. Si tratta di una cultura che in Italia è abbondata nei due secoli passati, dal liberalismo “di destra” – alla Crispi – a un certo nazionalismo novecentesco. Una posizione sostanzialemente agnostica in religione, relativista in morale e laicista “moderata” nella politica ecclesiastica, che all’esterno ostenta una faccia conservatrice e che pone l’interesse nazionale come prima cosa, quindi lato sensu autoritaria. Mentre poi, ad intra, professa o anche solo dà diritto di cittadinanza alle teorie più “liberali-libertine” di volta in volta possibili, proprio in nome di quella statolatria attraverso cui esprime un culto della nazione così forte da rendere relative anche le opzioni religiose e morali. Solo che due secoli fa era in gioco magari la libertà di fare i propri comodi in campo sessuale, oggi, invece, nel degrado etico generale, è in gioco di decidere della vita o della morte dell’essere più debole che possa esistere.

Se si vuole dunque difendere la vita, la famiglia e l’educazione – le basi non negoziabili di ogni convivenza civile – bisogna diffidare di queste posizioni falsamente conservatrici e francamente falsamente autorevoli, che – magari per ragioni “superiori” o apparentemente “nobili”, ma più spesso logora reiterazione di luoghi comuni vetero-laicisti –, con serenità oggi danno un colpo al cerchio (la politica attuale) e domani magari, con la stessa serenità, alla botte (il concepito o il matrimonio naturale o la scuola libera).

mercoledì 1 agosto 2007

«Cattolici adulti» e tasse

Per l’ennesima volta il nostro ineffabile premier Romano Prodi ha perso l’occasione di stare zitto.
Il più noto dei «cattolici adulti» è infatti uscito con queste dichiarazioni, rese in un’intervista concessa a Famiglia Cristiana e riportate dal Corriere della Sera del 1° agosto: «Un terzo degli italiani evade. Tutti facciano la loro parte. Perché, quando vado a messa, questo tema non è quasi mai toccato nelle omelie? Eppure ha una forte carica etica».
Parto la falsità dell’assunto che i preti non parlino del dovere di pagare le tasse: a me è capitato più di una volta di sentire tali richiami nelle omelie, anche se, ahimè, quasi sempre nella medesima ottica «monca» del premier; ma non solo: la Conferenza Episcopale Italiana nel 1991 — dunque ben prima che esplodesse «Tangentopoli» — ha emesso un ampio documento intitolato Educare alla legalità, in cui questo tema trova ampia accoglienza. Da allora l’educazione alla legalità è entrato (basta fare qualche ricerca in Internet) nella pastorale di più di una diocesi italiana e nei programmi dei gruppi giovanili, per esempio degli scout. E il Catechismo della Chiesa Cattolica conferma in pieno la doverosità in questione (cfr. n. 1916: «La partecipazione di tutti all'attuazione del bene comune implica, come ogni dovere etico, una conversione incessantemente rinnovata dei partner sociali. La frode e altri sotterfugi mediante i quali alcuni si sottraggono alle imposizioni della legge e alle prescrizioni del dovere sociale, vanno condannati con fermezza, perché incompatibili con le esigenze della giustizia. Ci si deve occupare del progresso delle istituzioni che servono a migliorare le condizioni di vita degli uomini»).
Ma c’è di più: davanti agli occhi del nostro premier, «cattolico adulto», sfilano tutti i giorni in maniera torrentizia episodi clamorosi d’immoralità, appelli pressanti, richieste prepotenti, aperti attentati all’eticità della vita e disprezzo della religiosità: eppure tra le forme di comportamenti anti-etiche riesce ad accorgersi solo dell’evasione delle imposte. Degli embrioni massacrati, degli aborti «legali» a valanga, dei matrimoni omosessuali, dell’eutanasia, della pedofilia, dello sfascio morale prodotto dalla pornografia dilagante e tracimante: di tutto questo, come dicono a Roma, non gliene può fregare di meno… Invece che sottolineare il danno irreparabile apportato al tessuto della convivenza civile da una immoralità ormai entrata nei codici a Prodi importa solo che il cittadino, nonostante il marasma che lo circonda e che arriva al punto di far diventare una questione nazionale lo smaltimento dei rifiuti o , sia puntuale e docile nel finanziare uno dei principali agenti di questo sfascio della società: lo Stato democratico post-moderno temporaneamente affidato alle sue mani. Incredibile ma vero.
Le esternazioni prodiane sono tuttavia rivelatrici di qualcosa di più ampio e drammatico, che investe il campo della cultura religiosa e politica dei nostri governanti. Il doloroso strabismo di cui oggi si fa testimone Prodi, che fa considerare normalità malattie sociali gravissime mentre sopravvaluta comportamenti di certo riprovevoli, ma in ultima analisi «fisiologici», rivela una visione del rapporto con la Chiesa e delle priorità nei confronti del bene comune che devono ispirare l’azione del politico e ancor di più dell’uomo di governo che, sotto un aspetto pare mille miglia lontano dalla retta opzione cristiana e, sotto un altro, sembra quasi coincidere con quelle ideologie della modernità estrema che da decenni funestano il panorama della vita politica in Italia e nell’occidente. In particolare pare enorme il fraintendimento sul ruolo dello Stato e sui doveri del cittadino nei sui confronti. Pare che Dio abbia creato lo Stato democratico post-moderno così com’è… E invece questo è nato dalla deformazione secolare dell’organismo politico fondato all’epoca della post-romanità, differenziandosene sempre più in termini di libertà concrete, di autonomie, di autogoverno, che ha costantemente risucchiato dalla società verso apparati anonimi e meccanici.
Questo processo (che sarebbe troppo lungo descrivere) ha richiesta un sempre maggiore drenaggio di risorse dalla società che ha raggiunto gli aspetti parossistici dello Stato odierno per il quale il cittadino lavora in media sei mesi all’anno prima di poter lavorare per sé stesso. E questo è un dramma autentico che ciascuno vive sulla sua pelle e non un valore come per gli statalisti socialisti e per i «cattolici democratici». Un dramma che nel nostro paese è acuito dal fatto di avere uno degli apparati pubblici più faraonici, più simile a una democrazia popolare che non a uno Stato liberaldemocratico che poi rende ai cittadini un servizio dei più scadenti al mondo. E spesso il non pagare le tasse o tutte le tasse dovute (nonostante la sempre maggior difficoltà di attuare un simile comportamento) non è altro che una forma di auto-difesa o di protesta individualistica, una sorta di sciopero che il cittadino, infischiandosene di ogni e qualunque struttura deputata a trasferire le sue istanze verso il potere, applica autonomamente e un po’ anarchicamente.
Dunque, se è vero che ciascuno deve contribuire alla vita di quel «guscio» della società che è lo Stato, lo Stato ha il dovere di chiedere alla società il contributo minimo possibile riducendo il suo apparato e facendolo funzionare in maniera efficiente. Non solo: lo Stato stesso ha il dovere di promuovere il bene comune, il quale inizia dal divieto legiferare a favore dell’errore e del male. Sempre il Catechismo recita al n. 1923: «L’autorità politica deve essere esercitata entro i limiti dell’ordine morale e garantire le condizioni d’esercizio della libertà». Altrimenti il suo buon diritto conosce un forte ridimensionamento etico e morale. E questo è esattamente ciò che la dottrina sociale della Chiesa insegna. Forse Prodi non la conosce? non conosce il Catechismo? Se così è gli consiglierei di leggerlo prima di parlare di eticità. Non credo tuttavia che non lo conosca: è che nella sua prospettiva un insegnamento così preciso e autorevole sfuma, scolora, non è rilevante, non è in primo piano. Il problema è tutto culturale. Nella cultura politica dei cattolici democratici la subordinazione ai miti politici della modernità è totale, dalla visione della storia alla dottrina sulla società. E questa totalità si esprime proprio nella preferenza per la politica moderna a discapito della dottrina: se la Chiesa dice qualcosa di diverso dall’ultima cultura politica «laica», è la Chiesa che sbaglia… E recenti uscite di amici politici di Prodi, come Rosy Bindi e Pierluigi Castagnetti, che con questo animus attaccato hanno l’attuale «gestione» del Pontificato come un’anomalia sono del tutto eloquenti…
C’è da chiedersi dove si voglia arrivare: il gioco in effetti è sempre più smaccato e perde sempre più presa nei confronti di chi cattolico «fanciullo» e docile alla Chiesa si sente integralmente e non ama subordinazioni a culture estranee… e se Prodi e il suo entourage di cattolici più che adulti, direi senili, continua su questo timbro se ne ricorderà a tempo opportuno.

Nel frattempo preghiamo Dio che liberi la cultura politica cattolica da queste incrostazioni ideologiche «adulte», che sono una specie di camicia di forza che rende senz’altro meno facile l’evangelizzazione sociale e, quindi, frena la rinascita della società in un paese come il nostro che ne ha così bisogno, essendo un autentico «vaso di coccio» fra «vasi di ferro» in questo frangente di tumultuoso cambiamento a livello globale.

giovedì 7 giugno 2007








Preghiera










«Quando dunque arriveremo alla Tua presenza,



cesseranno queste molte parole,



che diciamo senza giungere a Te;



Tu resterai, solo,



tutto in tutti,



e senza fine diremo



una sola parola,



lodandoTi in un unico slancio,



divenuti anche noi



una cosa sola in Te»







(Sant'Agostino, De Trinitate, 15, 28, 51)

giovedì 5 aprile 2007


Crisi della famiglia: dove sono le sue radici storiche?

Famiglia cristiana, il diffusissimo rotocalco della congregazione paolina, in un dossier sul tema della famiglia (pubblicato sul numero 13 del 1° aprile 2007), presenta un conciso ma efficace resumé di quello che l’autorità pubblica, al di là delle ripetute dichiarazioni di intenti e perfino della istituzione di un ministero per la famiglia, non ha fatto e non fa per aiutare la famiglia italiana. Si tratta di un elenco puntiglioso di normative attuali che si traducono in altrettante sperequazioni dirette o indirette verso l’istituto familiare. Autore dell’elenco — redatto in forma di decalogo e nel contesto di un manifesto-appello — è il Comitato per la Famiglia (sede organizzativa: viale Libia 174, 00199 Roma, tel. 06.86.38.63.92, comitatofamiglia@tiscali.it), un organismo nato in seno alla confederazione italiana dei consultori familiari di ispirazione cristiana.
Ecco in sintesi i dieci punti: [1.] «LE TRATTENUTE IRPEF. L’attuale sistema di tassazione non prevede l’esistenza della famiglia. Un single che guadagna 40.000 euro l’anno viene tassato allo stesso modo di un capofamiglia con 2, 4, 6 o 8 figli. […] Le cosiddette detrazioni per familiari a carico non fanno che restituire una minuscola parte di quello che viene tolto pagando le tasse. [2.] GLI ASSEGNI FAMILIARI. Gli assegni rientrano in una logica “assistenzialista”. Questo può essere considerato un paradosso del sistema, se pensiamo che sono le famiglie numerose quelle che più portano benefici allo Stato, non solo perché immettono nuova manodopera giovane e lo fanno allevandola a loro spese, ma anche perché questi figli, coi loro consumi, contribuiscono sia a far girare l’economia sia a rimpinguare le casse dello Stato, pagando il 20 per cento di Iva su ogni prodotto acquistato. [3.] L’ICI. L’imposta sulla casa è pagata in base al valore catastale, che è tanto più alto quanto maggiore è il numero dei metri quadri o dei vani. Al legislatore non interessa che il numero dei vani in molti casi salga col numero dei figli. […]. [4.] LA LUCE. Il consumo di elettricità viene addebitato per fasce progressive di consumo, che avrebbero lo scopo di penalizzare i più sciuponi: più consumi, più i kilowatt sono salati. Ma allo Stato non interessa se il maggior consumo di kilowatt derivi per caso da un maggior numero di componenti nel nucleo. […] [5.] IL GAS. Ultimamente il costo del gas al metro cubo è salito più del 20-30 per cento. Lo Stato applica inoltre un’imposta Iva doppia rispetto a quella della luce: il 20 per cento. Ma in realtà si paga di più a causa di una speciale “imposta di consumo”, che in seconda fascia aumenta del 318 per cento. Le più penalizzate sono, come risulta evidente, le famiglie. [6.] L’ACQUA POTABILE. La tariffa sociale a metro cubo dell’acqua, applicata sulle bollette delle famiglie, costa il 25 per cento in più rispetto a quella per le attività zootecniche. […] [7.] L’ASSISTENZA SANITARIA. Anche nel caso dei ticket sulle prestazioni sanitarie, sempre più cari, l’eventuale esenzione non è concessa in base al reddito pro-capite, ma per l’età o il reddito complessivo. […] [8.] I FARMACI GENERICI. Nei farmaci generici, che costano molto meno, non sono compresi farmaci a uso pediatrico. [9.] IL BOLLO AUTO. Più un’auto è di grossa cilindrata, e più aumenta il costo del bollo, ma lo Stato non valuta la possibilità che spesso, dietro l’acquisto di una vettura a 7 o 9 posti, si cela per una famiglia numerosa una necessità imprescindibile, e non un simbolo di status. […] [10.] L’ISEE. Un numero sempre crescente di agevolazioni (borse di studio, contributi libri di testo, rette scolastiche) fa riferimento all’Isee, l’indice di ricchezza di una famiglia, in cui rientra anche il reddito della prima casa (che inevitabilmente sale col numero di metri quadri da offrire ai figli), ma la più palese ingiustizia è che, nei calcoli, ogni figlio è conteggiato pari a 0,35, piuttosto che pari a 1».
Si tratta, a mio avviso, di squilibri gravi, che vanificano qualunque discorso pubblico sulla famiglia finché non saranno rimossi.

Ma, se si riflette, ci si accorge che l’origine di queste disuguaglianze non è accidentale, ma strutturale. Va cioè al di là delle politiche dei vari governi che si sono succeduti alla guida del Paese dall’Unità in poi — ad esclusione del regime fascista, che qualcosa fece, pur se in nome di principi anch’essi ideologici, per la famiglia — e persino, sotto il profilo “tecnico”, degli ordinamenti stessi. Lo si evince, per esempio, dal fatto che, anche nella scorsa legislatura, con un governo di centro-destra non poco sensibile al richiamo della famiglia, anche per la presenza di una forte componente cattolica nel suo elettorato, ciò che è stato possibile fare per alleviare le condizioni della famiglia non è consistito nel rimuovere le disuguaglianze sopra descritte, ma solo nell’introdurre provvedimenti ad hoc, non permanenti — si pensi al «buono-scuola» —, prontamente rimossi dal governo di centro-sinistra oggi al potere.
Questa constatazione ovviamente non va discarico i governi delle loro responsabilità, né vuole ignorare i problemi sociali che influiscono sulla condizione dell’istituto familiare oggi — il pauroso calo demografico, la frattura generazionale, il lavoro materno obbligato, la facile solvibilità dei legami matrimoniali, la legalizzazione dell’aborto —, ma fa intendere che in ultima analisi si tratta di un problema di idee, di cultura, ovvero di visione del mondo e delle finalità dell’uomo che risale assai indietro nel tempo.

Che cosa è considerato, almeno da due secoli, prioritario rispetto alla famiglia o ad altre realtà umane collettive negli ordinamenti delle società occidentali? Null’altro se non l’individuo.
Da tutti e dieci i punti del dossier traspare chiaramente che gli attuali ordinamenti — qui come altrove — sminuiscono — se non ignorano del tutto — la dimensione delle relazioni di cui l’individuo è centro, sia perché egli le stabilisce — o le trova stabilite — per rispondere a esigenze di natura — la conservazione in vita, la propagazione della specie, l’educazione alla vita in comune —, sia perché le istituisce liberamente. Non danno, in altre parole, rilievo al ruolo — per usare un termine sociologico — che l’individuo riveste, negando diritti — contro il principio di sussidiarietà, pur presente nella Carta costituzionale italiana —, non solo politici, ma anche economici, a quelli che nella società sono i «corpi», tutte quelle realtà cioè che si situano sul percorso ideale nella piramide sociale che va dal cittadino allo Stato: in primo luogo alla famiglia, incluse le sue ramificazioni parentali, poi alle associazioni professionali o lavorative, ancora alle realtà educative.
La ricerca del perché di questo atteggiamento del legislatore — ormai divenuto una sorta di «canone», che non viene più rimesso in discussione se non da qualche isolato giurista — rimanda a una indagine sulla cultura della modernità o, meglio, su quella declinazione di essa che assolutizza — facendone quindi un’ideologia — quel portato, in sé positivo, della cultura della modernità occidentale che si esprime in una maggiore attenzione alla sfera dei diritti individuali.
Nei regimi precedenti alla Rivoluzione francese i diritti dei corpi erano riconosciuti sia in esplicito, nelle carte e nei patti sociali, sia, in forma non espressa, nel diritto consuetudinario, in quanto in genere i corpi erano più antichi delle nuove forme di sovranità che l’età moderna inaugura. Con il 1789, invece, i corpi sociali perdono d’imperio ogni rilevanza di natura pubblicistica. Anche se la ricupereranno eventualmente in seguito, ma solo in parte, come istituti di carattere privatistico, soggetti al riconoscimento dello Stato —, gli ordinamenti di tutti gli Stati europei o di matrice europea — chi prima, chi dopo, ma pressoché tutti dopo il 1870-1880, soprattutto nella misura in cui il Code Napoléon si diffonde durante e dopo il ventennio cesareo e ispira gli ordinamenti degli Stati nazionali liberali —, si imperniano sull’in­di­vi­duo e non più sui corpi. E ciò che resta del riconoscimento della sfera in cui i diritti individuali si inevitabilmente proietterebbero, appunto la sfera relazionale, si assottiglia sempre più col passare del tempo e con l’avvento di regimi radicali. La legislazione stessa degli Stati socialisti si manterrà sostanzialmente su questa falsariga, anzi amplierà la gamma delle libertà individuali riconosciute, anche se poi, nella realtà, l’individuo socialista sarà sempre più simile a un burattino nelle mani di corpi intermedi artificiali promananti dal Partito, attuando il totalitarismo allo stato puro.
La penalizzazione della famiglia — e degli altri corpi — risale quindi a molto lontano, a questa opzione che rende totalitario ed escludente un principio in sé buono.
Come mai, potremmo chiederci per completezza di argomentazione, queste disparità si rivelano solo oggi così acute? Che cosa in passato le ha fatte avvertire di meno? Il discorso sarebbe lungo. Un abbozzo di risposta potrebbe essere: il passaggio da una condizione sociale A a una condizione sociale B, nella concretezza dei rapporti coinvolti, non avviene in pochi anni ma richiede tempi lunghi. Un’immagine utile per capire quanto è accaduta potrebbe essere quella della progressiva erosione della carne e dell’apparire graduale dell’osso: fuori di metafora, solo nel tempo le virtualità eversive insite negli ordinamenti liberali si sarebbero palesate come tali. Per esempio, la famiglia ha «tenuto» finché il matrimonio non fu concepito solo come la conclusione di una storia d’amore di due individui ma come la creazione di un caposaldo della società, quindi da preparare con cura anche nei suoi aspetti materiali. Oppure finché esistettero le proverbiali «vecchie zie: quella delle zie non è una boutade ma un tema d’indagine storica e sociologica non privo d’interesse. Per capire quanta importanza le scelte «sacrificali», soprattutto femminili — con il nubilato volontario —, ma anche maschili — con la gestione oculata delle scelte successorie —, abbiano avuto nella sopravvivenza della struttura famigliare. Poi, a mano a mano che la famiglia si è appiattita sulle sue forme mononucleari, e si è quindi indebolita come soggetto sociale nei confronti dello Stato è affiorato in tutto il suo peso appunto il «peso» della struttura pubblica sulla famiglia.

Ciò detto — visto cioè che la crisi attuale risale a una certa cultura, che esiste da secoli e che impronta gli ordinamenti — occorre evitare la tentazione di pensare che la collocazione del problema in prospettiva storica renda la condizione in cui versa la famiglia meno drammatica, come se fosse un dato di natura, contro il quale non ha senso combattere. Anzi, occorre vigilare per evitare che la situazione — come ampiamente possibile — peggiori e incalzare questo e ogni governo perché nondia ascolto alle istanze pseudo-libertarie e ultra-ugualitarie, ostili alla famiglia, di alcune sue componenti e si muova invece a vantaggio della più importante cellula dell'ordine sociale.
La considerazione che faccio serve solo a far capire che non si può andare alla radice del problema senza un processo di ripensamento dei presupposti «filosofici» stessi della famiglia e della società nel suo complesso, che è poi quello che chiede — in maniera non astratta, ma propositiva —, da decenni se non da secoli, la dottrina sociale cristiana e la filosofia sociale conservatrice.
È realizzabile un cambiamento di percorso, una rettifica, l’abbandono di un’opzione preconcetta e abusiva di un buon principio? Credo di sì, anche se si tratterà certo un processo assai lungo.
In fin dei conti la rinascita e l’affermazione dei corpi sociali nel cosiddetto Medioevo è stata propiziata da un evento colossale e traumatico come lo sgretolamento della struttura imperiale romana e il vuoto che questo crollo ha creato. Lasciata libera, bongré malgré, dalle sovrastrutture createsi storicamente, la società in Occidente è rinata — con tutti i drammi che un ambiente diventato «selvatico» e l’inte­gra­zione di soggetti nuovi imponevano — ricalcando le linee che scaturiscono dall’antropolo­gia umana, dal diritto naturale e dalla consuetudine. Senza augurarmelo, solo in presenza di traumi tali da generare un vuoto comparabile o analogo alla caduta dell’impero di Roma, la società europea potrà tornare a ripercorrere le linee sorgive della sua condizione istituzionale. Altrimenti — fatta sempre salva l'azione della Provvidenza divina — dipenderà dalla capacità delle agenzie di elaborazione della cultura alternativa a quella progressista e individualista egemone di penetrare nell’opinione pubblica e di cambiare il senso comune fino al ripristino di ordinamenti che diano lo spazio dovuto non solo all’individuo ma anche ai corpi sociali.

giovedì 8 marzo 2007


Nuova luce sulla campagna contro Pio XII

La memoria di Pio XII ha subito negli ultimi anni attacchi formidabili, tanto da parte ebraica — ricordo, fra i molti, i volumi di David Kertzer —, quanto da parte catto-progressista — dove spiccano gli acidi lavori di John Cornwell. La storia di questa campagna, scatenata a freddo agli inizi degli anni 1960, quando in parallelo fu lanciato a livello mondiale l’Olocausto — ossia il ricupero della memoria del genocidio degli ebrei europei perpetrato dal nazionalsocialismo —, è abbastanza nota. In specifico, già a un primo esame, traspare che i toni della polemica, mantenuta peraltro costantemente viva, si alzano o si abbassano in sintonia con la politica estera israeliana. Nell’ultimo anno pare che il fuoco di sbarramento contro la memoria di Eugenio Pacelli — che mira soprattutto nel frangente a bloccarne la causa di beatificazione — si sia alquanto attenuato. Forse perché è cresciuto l’isolamento di Israele e aumentato il suo bisogno di alleanze, anche solo sul piano morale, e forse anche perché si sono moltiplicate le testimonianze a favore di Papa Pacelli, a seguito di quella ondata di studi scientifici che in campo cattolico ha fatto da risposta alla violenta campagna diffamatoria degli anni 1990.
L’episodio comunque che ormai a opinione comune segna l’esordio della vague anti-pacelliana è la rappresentazione, nel 1963 — quindi in anni di crescente entente cordiale fra Vaticano e casa-madre del comunismo mondiale —, del dramma Il Vicario, di cui fu autore un allora semisconosciuto scrittore di teatro tedesco, Rolf Hochhuth. In quel contesto venne per la prima volta formulata in maniera precisa — e propagata poi massicciamente e per anni in Occidente — l’accusa contro il Pontefice di aver, se non collaborato positivamente, quanto meno omesso di condannare i giganteschi massacri di ebrei che avevano avuto luogo negli anni della seconda guerra mondiale nei territori del Terzo Reich.
Ora, di recente — 25 gennaio 2007 — la National Review americana ha pubblicato un articolo di Ion Mihai Pacepa — Moscow’s assault on the Vatican. The KGB made corrupting the Church a priority (L’assalto di Mosca al Vaticano. Il Kgb fece della corruzione della Chiesa una priorità) —, il generale romeno che capeggiò i servizi segreti romeni all’epoca del regime comunista di Nicolae Ceausescu e si rifugiò in Occidente nel 1978 (dodici anni prima della fine del regime), dove ha pubblicato un grosso volume di memorie, Orizzonti rossi. Memorie di un capo delle spie comuniste (L’Editore, Trento 1991), uscito in ben 27 paesi.

2. Che cosa si dice in questo articolo? Fra le altre, due cose assai interessanti. La prima che Mosca, molto urtata dall’intransigente anti-comunismo del Pontefice romano, su iniziativa del direttore del prestigioso Dipartimento per la Disinformazione del Kgb Ivan Agayants, fece raccogliere ai servizi diretti da Pacepa, che per ragioni contingenti avevano più chance del Kgb di accedere al Vaticano — il tramite inconsapevole fu un giovane monsignor Agostino Casaroli —, quante più informazioni possibili su Pio XII negli archivi e nelle biblioteche vaticani da utilizzare per orchestrare campagne diffamatorie contro di lui, decise da Kruscev fin dal 1960. Si trattava soprattutto di trasmetterne un’immagine inquinata — quella di un pontefice freddo e cattivo — per, da un lato, segnare la differenza con il nuovo clima «distensivo» inaugurato da Giovanni XXIII e continuato da Paolo VI e per impedire, dall’altro, che la sua testimonianza sostenesse la resistenza anti-comunista nei paesi cattolici dell’impero sovietico.
La seconda che la scrittura e la rappresentazione de Il Vicario sia stata un’operazione di «montaggio» di questo tipo, nata e portata avanti in questo contesto generale, avvalendosi della documentazione vaticana procurata dagli agenti della Die — i servizi segreti esterni — romena infiltrati in Vaticano da Pacepa. Va notato che Il Vicario venne prodotto e trasformato in macchina propagandistica da Erwin Piscator, un potente organizzatore teatrale comunista tedesco, amico di Bertolt Brecht, rientrato appositamente nel 1962 a Berlino Ovest dall’Urss, dove si era rifugiato durante il regime hitleriano.

3. Quelle di Pacepa non paiono due affermazioni da poco. Entrambe confermano infatti autorevolmente la tesi della «manipolazione», che si è sempre sostenuta da parte cattolica e da destra riguardo a Il Vicario. Certo la fonte andrebbe verificata con altre, ma gli archivi del Kgb — che sarebbero la fonte decisiva — sono tuttora secretati e la cosa non è dunque facile. Andrebbe anche spiegato se gli ambienti ebraici e israeliani siano stati coinvolti fin dall’inizio nell’operazione oppure — come pare più probabile, viste le relazioni allora non idilliache fra Mosca e Tel Aviv — si siano accorti in seguito delle chance che il pezzo teatrale e gli attacchi a Pio XII offrivano ai fini di una politica di auto-difesa e abbiano cercato di trarne profitto. Va comunque preso atto e tenuto buon conto delle dichiarazioni dell’ex generale romeno, in quanto aprono comunque una nuova pista di indagine e, in ogni caso, rendono più arduo ai calunniatori di Pio XII di insistere con le loro tesi.

mercoledì 7 marzo 2007


Marx è vivo: parola del senatore Angius

Nell’odierno dibattito politico sulla legge che dovrebbe tutelare le coppie di fatto risuonano pesanti come pietre le dichiarazioni del Vice-presidente del Senato, il diessino Gavino Angius, riportate dal Corriere della Sera: «Tutte le democrazie moderne hanno leggi molto avanzate» in materia: solo in Italia, invece, «una visione antistorica della società si accompagna a una regressione politico-culturale che mette in discussione la laicità come principio di democrazia». C’è da non credere ai propri occhi o alle proprie orecchie: c’è ancora qualcuno che usa un armamentario verbale in cui trovano posto termini come «avanzate», «antistorico» e «regressione»! Pareva che la sorte di queste parole fosse segnata dopo la crisi del pensiero dialettico — nella duplice versione panlogistica di Hegel e materialistica di Marx — e invece no: sono ancora vive e vegete, almeno nella cultura del senatore Angius, che se ne fa inflessibile e orgoglioso paladino, senza accorgersi di assomigliare all'ultimo soldato nipponico dimenticato nella giungla dopo la fine della guerra.

Le espressioni usate da Angius avevano un senso — falso ma internamente coerente — nella logica marxista, che ha imperato per decenni — non solo nelle accademie ma influenzando le vicende dei popoli e la vita di milioni di uomini e di donne —, la quale, nella misura in cui è fallito il comunismo, si è rivelata sperimentalmente vuota di significato, incapace di comprendere la realtà.
Secondo questa concezione la storia non sarebbe il luogo della libertà umana — dove questa incontra la dimensione del destino e, per il credente, quella della Grazia —, ma avrebbe un senso predeterminato, fatale. Esisterebbe in altri termini un «vento della storia», cui nessuno può e deve opporsi, di cui è interprete autentico, l’unico autorizzato a dire verso dove soffi, l’incarnazione stessa del progresso dell’umanità: il Partito-Principe, quello che un tempo si definiva il partito di avanguardia della classe operaia, la classe destinata a dominare il mondo, cioè il partito comunista.

Ma oggi, oltre alla filosofia marxista, anche il partito comunista, unico medium fra la storia e l’uomo, non c’è più o, almeno, non detta più i tempi alla storia. Ora esistono solo dei «semplici» socialdemocratici o «democratici di sinistra».

Eppure si la mentalità di questi eredi del comunismo pare non essere cambiata. I Ds sfornano mozioni e programmi in cui il rifiuto della vecchia ideologia marxista-leninista è totale, ma poi uno dei massimi esponenti del nuovo partito — in via di diventare ancora più nuovo, più «democratico» e meno di «sinistra» — torna a formulare analisi secondo i vieti canoni di quell’ideologia che dovrebbe essere stata messa da tempo in soffitta.
Che cosa pensarne? Che l’asino ricasca? siamo davanti a un bluff collettivo? oppure il senatore Angius è un reperto del passato, che viene conservato provvisoriamente dal suo partito "di lotta e di governo" — che allo stesso tempo legifera e appoggia le manifestazioni delle lobby omosessualiste contro la famiglia — solo per la sua eccellente professionalità nel fare ostruzionismo contro ogni pur flebile sintomo di vitalità e di rinascita del corpo sociale in Italia?

domenica 25 febbraio 2007


Papa, coscienza e storici

Sabato 24 febbraio Papa Benedetto ha tenuto un magnifico discorso ai membri della Pontificia Accademia per la Vita. Magnifico — proprio nel senso di «che fa cose grandi» — per l’altezza del tono e anche perché ha tirato fuori dalla polvere e delineato in maniera magistrale quel luogo «forte» della prospettiva della fede e della morale cristiane che è la coscienza, quel giudizio della ragione sulla moralità — cioè sulla coerenza con quanto si può oggettivamente dedurre dall’antropologia, dalla natura umana — di un atto da compiersi o già compiuto. Giudizio che, come tale, deve essere informato dalla verità delle cose, ma che, come ogni atto di conoscenza umana, è suscettibile di errore. Di coscienza non si è parlato granché dal Sessantotto in poi, anche in ambito cristiano: forse il termine è riaffiorato solo in relazione all’obiezione di coscienza, per esempio verso il servizio di leva o la pratica abortiva.
Proprio nella debolezza della formazione nella maggioranza dei fedeli — per ragioni svariate — di una coscienza allo stesso tempo vera, cioè capace di conoscere, nella misura del possibile, la verità e di lasciarsene illuminare, e retta, cioè ossequiente alla verità conosciuta, sta, secondo il Papa, il problema che affligge oggi la battaglia per la difesa del diritto alla vita. Questa gracilità costituisce il tallone d’Achille di tanti cristiani e uomini di buona volontà, che si trovano così esposti senza adeguate difese alla massiccia pressione, quasi sempre interessata e «orientata», dei mezzi di comunicazione di massa, che vorrebbero liberare la coscienza da ogni vincolo di tradizione e di ragionevolezza. Non è forse un caso che il Papa chiami in questa occasione — a mia memoria, per la prima volta — i media «mezzi di pressione collettiva», quasi voler stigmatizzare la fatale deriva degenerativa odierna.
Da questa diagnosi nasce il richiamo ad adottare tutti i mezzi possibili per riplasmare e irrobustire una sana coscienza cristiana nel popolo cattolico. «Occorre rieducare al desiderio della conoscenza della verità autentica, alla difesa della propria libertà di scelta di fronte ai comportamenti di massa e alle lusinghe della propaganda, per nutrire la passione della bellezza morale e della chiarezza della coscienza». Un elemento essenziale di questa operazione rieducativa alla «bellezza morale» — è una bellissima espressione, che scaturisce forse da quell'agostinismo di cui il Papa è impregnato — e al nitore dell’auto-consapevolezza svolgono, secondo Papa Benedetto, «laici educatori» «specialisti». A essi il Papa rivolge un appello particolare dicendo: «Prego […] il Signore perché mandi fra voi, cari fratelli e sorelle, e fra quanti si dedicano alla scienza, alla medicina, al diritto, alla politica, dei testimoni forniti di coscienza vera e retta, per difendere e promuovere lo “splendore della verità” a sostegno del dono e del mistero della vita. Confido nel vostro aiuto, carissimi professionisti, filosofi, teologi, scienziati e medici. In una società talora chiassosa e violenta, con la vostra qualificazione culturale, con l’insegnamento e con l’esempio, potete contribuire a risvegliare in molti cuori la voce eloquente e chiara della coscienza».

Fin qui tutto giusto. Anzi perfetto. Ma poi sorge un bonario quesito: e gli storici? È una dimenticanza la loro mancata citazione nel novero dei «professionisti» formatori di coscienze? Oppure la non menzione è voluta, perché il Papa non ritiene che lo storico possa dare il suo contributo alla difesa della vita?
Ovviamente non voglio credere a quest’ultima ipotesi e mi pare vera invece la prima delle due...
Se si riflette, in effetti lo storico può fare molto per illuminare le coscienze dei credenti in ordine al problema della vita.
Per esempio documentando che tante idee che paiono nate ieri sono in realtà vecchie quanto il mondo, che l’eugenetica e l’eutanasia che oggi risorgono sono state sempre un'arma nelle mani dei poteri totalitari, siano essi il nazionalsocialismo hitleriano o il regime maoista, ma anche «scuole di pensiero» — e ahimé di pratica — forti all’interno delle democrazie occidentali, per esempio quelle scandinave, fra le due guerre… Lo stesso dicasi del malthusianesimo che combatte la vita limitando artificialmente le nascite…
Oppure, per spostarsi su un altro fronte, strettamente connesso con il precedente — lo ricorda il Papa medesimo — mostrando, come fa Marco Invernizzi nell’articolo sui Pacs che pubblica il sito www.identitanazionale.it, come si sia giunti allo scontro attuale. Non si può combattere bene questa battaglia se si crede, come purtroppo si rileva nella maggioranza almeno degli articolisti, che il problema sia nato con i Pacs e con i Dico, cioè se non ieri, l’altroieri. In realtà la lotta per sconvolgere il modello naturale e cristiano di famiglia nell’occidente cristiano e in Italia è partita molto tempo fa, almeno dall’illuminismo — che esalta il libertinismo — per continuare poi con l’individualismo liberale — che attacca la famiglia allargata eredità del Medioevo —, quindi avanzando sotto impulso delle idee materialistiche, darwinistiche e totalitarie del marxismo — soprattutto dell’amico di Marx, Engels —, infine con la ripresa malthusiana — ricordate il Club di Roma e I limiti dello sviluppo? — del secondo Novecento.
Passando dalle idee ai fatti, in Italia hanno contribuito a rendere sempre più esile la struttura della famiglia naturale, recepita dalla Costituzione repubblicana del 1948, l’introduzione del divorzio, il «nuovo diritto di famiglia» del 1975, la legalizzazione e la statalizzazione dell’aborto volontario, la concessione di diritti sempre più ampi alle minoranze omosessuali militanti.

La storia, inoltre, è una disciplina anch’essa, che dà una conoscenza «vera», nei limiti della sua specifica metodica di ricerca — cioè non dà una certezza scientifica, ma quella che giova ad acquisire quella conoscenza detta appunto «morale», cioè sufficiente soggettivamente per agire rettamente —, sul passato. E una buona conoscenza del passato, una buona anamnesi — come ben sa chi ha letto qualche testo di morale cattolica — è altresì parte integrante di quella virtù della prudenza che si dice sia il cardine di tutte le altre virtù naturali e morali, cioè umane tout court.

Avere presente questa dimensione storica più o meno profonda, fornire strumenti per un’azione prudente — che non vuole dire né rinunciataria e nemmeno cauta, ma solo storicamente e razionalmente fondata —, contribuire al ricupero di quella «tradizione» che «il potere dei più forti» vorrebbe oggi far smarrire, non può dunque non complementare ed esaltare gli altri benefici influssi esercitati dal teologo, dal giurista, dal bioetico, dal medico, sulla costruzione di una coscienza ben formata nel fedele.

E allora, dunque? Ho voluto forse «tirare le orecchie» al Papa? No, non è certo questo lo scopo di questo breve scritto: credo che quanto ho detto sia ben presente alla mente del Pontefice anche se in questo frangente non ha potuto trovare espressione. Questa omissione non mi esime dal rispondere con calore all’appello del Papa e a «mettere sul tavolo» anche ciò che la risorsa della riflessione sul passato, la memoria, la conoscenza storica offre alla causa comune.

giovedì 11 gennaio 2007



Il «ritorno di Lapo»

Dopo il riuscito rilancio delle automobili Fiat, che ha comportato per la casa torinese uno sforzo di mutamento dell’immagine aziendale davvero non comune, pare sia ora la volta anche del rilancio del rampollo di casa Agnelli il ventottenne Lapo Elkann, dopo il suo tremendo «scivolone» di due anni fa.
L’11 ottobre 2005 infatti il giovanotto rischiò di lasciarci la pelle per aver ingerito una dose eccessiva di un cocktail di cocaina, oppio ed eroina durante una «serata» in un appartamento-postribolo torinese «ospite» di tre prostituti transessuali che frequentava abitualmente. Al clamore sollevato dallo «scandalo» — ma chi si scandalizza più, oramai? — è seguito un periodo di relativo silenzio ma non di oblio, in quanto le cronache ci informavano puntualmente dei discreti tentativi di disintossicazione che la famiglia aveva imposto a Lapo oltreoceano.
Ora pare sia venuto il momento del grande rilancio, un rilancio dove s’intrecciano il ricupero d’immagine personale, della famiglia e, last but not least, del prezioso marchio industriale torinese.
Così, grazie a preziosi e immagino non disinteressati suggerimenti — si ha proprio il sentore del trust di esperti comunicativi in azione —, il nobile volto dell’erede Fiat, abbigliato all’ultima moda, campeggia sulla prima pagina di Vanity Fair e di Vogue, riviste notoriamente d’immagine, il Corriere della Sera, la Repubblica, La Stampa gli dedicano articoli dopo articoli — che ne attestano il pentimento e la volontà di ripartire, mentre riferiscono anche i più minuti dettagli del suo rinnovato stile —, importanti industrie tornano ad affidargli il ruolo di testimonial dei loro prodotti, gli si organizzano serate mondane di cui è il «reginetto»: l’unico pegno che deve pagare è la messa in guardia pubblica soprattutto rivolgendosi ai giovani, sui pericoli della cocaina.
Fermo restando che credo che chiunque ha sbagliato abbia il diritto di riacquistare piena cittadinanza fra le persone civili e oneste, non posso non rilevare qualche stonatura in questa vicenda di «redenzione».
A parte che non si vede come Elkann abbia «pagato» materialmente — moralmente, non è dato sapere — per il suo errore — eventualmente ha pagato, e salato, qualcun altro —, il modello che egli incarna — del tipo «soldi-sregolatezza-glamour» — non pare essere uscito nemmeno scalfito dalla squallida vicenda di cui egli è stato volontario protagonista: anzi si ripresenta prepotentemente alla ribalta attraverso lo stesso personaggio e forse proprio grazie allo scandalo da questi scatenato.
Mi sarebbe piaciuto invece che, attraverso la vicenda, proprio questo genere di vita, questo modello negativo, questo esempio di giovinezza buttata al vento, questo ennesimo «caso» di sfrenato edonismo, che si lascia alle spalle ogni norma morale e ogni legame religioso, fosse stato oggetto di condanna pubblica e di messa in guardia.
Secondo il vecchio adagio «corruptio optimi pessima», che vuol dire che più in alto sta chi si corrompe — e un Agnelli, lo voglia o no, fa parte dell’élite nazionale —, peggiore è l’indotto di tale corruzione, dal cattivo esempio di Lapo e soprattutto dalla benevola trattazione del suo infortunio da parte dei media, sono derivate conseguenze diseducative di massa. Non basta, credo, una sua frasetta di condanna della droga all’esordio della sua ripresa della scalata alla notorietà e al potere per annullare o per ridurre il guasto arrecato.
Se è vero che l’ozio è il padre dei vizi e il vizio della cocaina — uno dei più sulla cresta dell’onda oggi —, come peraltro quello delle altre droghe, si alimenta dal benessere, dalla mancanza di ideali, dall’edonismo culturale onnipervasivo, ma anche dall’ozio, non pare che il giovane Lapo abbia fatto alcuno sforzo per uscire dalla gabbia dorata in cui è nato è cresciuto: forse qualche mese alla catena di montaggio della sua azienda gli avrebbe forse fatto meglio… e avrebbe di certo dato un segnale a tanti giovani «a rischio»…

mercoledì 3 gennaio 2007


Ma da che parte stanno?

L’attuale governo vede la partecipazione di ingenti aliquote delle forze politiche dell’estrema sinistra paleo- o neo-comunista. In Italia, dopo la frammentazione del monolite marxista-lenininista gramsciano, seguita alla decomposizione dell’Urss, nei primi anni Novanta del secolo scorso, queste forze — sia nella loro veste partitica sia per la loro presenza nei sindacati — avevano assunto su di sé quel ruolo di natura «tribunizia» — ossia di difesa degli interessi delle classi lavoratrici contro il disagio imposto dalla globalizzazione, cavalcata invece alla grande dall’altro spezzone, quello maggioritario, rappresentato dai Democratici di Sinistra — già proprio, fra i tanti, del vecchio Pci.

Ora, stranamente per certi versi, si assiste a fatti che paiono contraddire questo ruolo. La legge finanziaria del 2007, a detta di molti — e non passanti della strada — una fra le più sbilanciate a sinistra di questi ultimi decenni, avrebbe dovuto riflettere in misura lampante questo carattere.
Tuttavia non mi pare sia così. Colgo questa contraddizione almeno in due provvedimenti di quella congerie sterminata — oltre 1300 — misure piccole e grandi di questo gigantesco maxi-strumento legislativo.
Il primo: oltre a quelli per le analisi mediche, crescono i ticket per gl’interventi dei reparti di pronto soccorso degli ospedali di carattere non urgente; il secondo, cresce la tassa di proprietà dei veicoli a emissione di polveri a livello cosiddetto «euro 0» per stimolarne la rottamazione.
Entrambe le novità hanno uno scopo dichiarato e peraltro condivisibile: la prima, abbattere i costi della sanità, la seconda ridurre un inquinamento atmosferico dagli alti costi sociali.
Però: si è pensato — e se lo si è fatto che cosa ci si è risposto — che delle cure del pronto soccorso approfittano soprattutto i più deboli finanziariamente: gli anziani, gli extra-comunitari, gli ospiti in transito? e si è pensato che chi possiede veicoli «euro 0» è in maggioranza appartenente alle categorie più povere, per le quali è già un grosso problema mantenere un veicolo, ma che se lo impongono a tutti i costi pur di disporre un mezzo di locomozione privato — anche perché la sfiducia verso quelli pubblici è ormai generalizzata — che consenta di fare la spesa al supermercato — il negozio all’angolo non esiste più — o per recarsi dal medico o per andare ad aiutare i figli o per quei pochi giorni di vacanza?
Come si può pensare che i pensionati o i poveracci possano avere oggi il denaro per permutare la vecchia auto con una in regola, nonostante i «succosi» incentivi governativi? E poi, fra l’altro, il problema dell’inquinamento oltre soglie accettabili esiste solo in alcuni centri urbani ad alta densità di circolazione, non in tutto il paese e il provvedimento del governo Prodi, come di sua natura, colpisce indiscriminatamente dalla Valtellina a Lampedusa…
Non vi erano alternative a quella di colpire i ceti più esposti, quelli che i neo-comunisti e le centrali sindacali — il cui nerbo è ormai formato da pensionati — dovrebbero per definizione difendere?

La scorsa estate, quando nasceva la «manovra» prodiana, Roma fu tappezzata di manifesti a colori in cui ci si felicitava — demagogicamente — perché questa volta anche i ricchi avrebbero pianto.
Ma a me pare che ancora una volta a piangere sarà solo la povera gente, punita dall’ennesima mazzata… Non mi pare di fare della demagogia segnalando questi due piccoli punti, che mi paiono estremamente eloquenti di una mentalità e di una logica — e di un personale politico — vetero-stataliste e anti-popolari, da dismettere al più presto.

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