ELEZIONI 2013: UNA LETTURA A CALDO
(MA NON TROPPO...)
Se si sommano i voti ricevuti da Pdl,
Lega e Movimento 5 Stelle si arriva a circa il 55% dell’elettorato, almeno di quello che si è recato alle urne.
Il che vuol dire che la maggioranza dell’elettorato è a favore del populismo. Assumendo
che tutte e tre le forze siano, al di là delle differenti ideologie di
riferimento — il berlusconismo al liberalismo, il leghismo all’autonomismo,
il grillismo a che cosa non si sa, forse a un qualunquismo anni 2000 —, in effetti appare come esse siano accomunate da un medesimo
aspetto: il populismo. Almeno da un populismo secondo all’accezione alquanto distorta — lo dico senza aprire
trattati di scienza politica e senza scomodare il defunto Juan Domingo Perón — che
di esso danno le alte istanze europee.
Se tecnicamente il populismo è il regime dove il legame fra un leader
carismatico e la base popolare non è mediato da strutture complesse, per Bruxelles populiste sono le forze ostili al progetto europeo così come si presenta oggi, cioè ostile alla religione, fondato sul controllo fiscale e promotore dei più dirompenti "diritti" civili.
Un populismo soft, e inficiato da molti residui della Prima Repubblica, quello
del Pdl berlusconiano; un populismo più grintoso e radicale, quello della Lega; e infine
il nuovo populismo hard dei grillini. Tre movimenti — un partito “di plastica”, un partito-orda e un
partito “liquido”... —, tre leader carismatici: nel primo domina l’impenitente
Cav; nel secondo aleggia ancora la voce roca di Umberto Bossi; nel terzo imperversa il comico ligure
dal trascinante eloquio.
Dunque, non ha vinto lo schieramento delle tasse e delle unioni gay, ma il detestato populismo. Che senso dare a questa vittoria?
Oltre che al rigetto di una politica conforme al rovinoso dettato europeo, mi piace sottolineare che il risultato elettorale suona a conferma in Italia che quegli
assetti della politica, nati nel secondo dopoguerra e corretti nel plebiscito
anticomunista e filo-occidentale dell’aprile del 1948, emblematizzati dalla carta
costituzionale, ispirano ormai solo una forte minoranza degli elettori del Paese. E il dato è ulteriormente evidente se ai populismi si somma l'astensione, che è stata pari al 25% degli elettori, cioè circa il 7% in più rispetto al 2008.
Il primo governo Berlusconi è stato
il primo esempio di un governo non condizionato dai paradigmi politici postbellici;
Forza Italia il primo partito non ideologico ed estraneo al “mazzo” delle forze politiche
uscite dalla Resistenza. Paralleamente, Alleanza Nazionale è stato la premessa per la nascita del
primo partito di destra conservatrice mai visto in Italia, mentre la Lega Nord il primo fenomeno di partito anch'esso nuovo e fuori dall’arco
costituzionale, che contestasse in certa misura le legittimità stessa dell’ordinamento
costituzionale nato nel 1948.
Ora, con la massiccia irruzione sulla
scena politica del qualunquismo grillino, l'establishment che si richiama all’eredità
della Resistenza e mummifica la Costi-tuzione “più bella del mondo”, come
cantano i comici di regime, si ritrova arroccata a difendersi dal "nuovo che avanza": non è un fatto da poco e su di esso ciascuno deve riflettere.
Lungi da qualunque prospettiva revanscistica, mi pare che il “sistema”,
così come si configura oggi, sia in netto declino, non funzioni più, non mobiliti più la gente, che va
altrove, sfiduciata e si accontenta di qualunque proposta, anche della più stramba, purché rappresenti una via di uscita da una condizione insopportabile. Il sistema, è vero, non copre più le esigenze di politica della
gente comune. È troppo obsoleto, ingessato, pieno di buchi per poter reggere il mutamento che è in atto nel Paese e intorno al Paese. La crescita del consenso al populismo è, quindi, la spia che una
situazione non può protrarsi a lungo. Come si può pensare di affrontare
le sfide del secolo con quell'ibrido di tecnocrazia e socialismo che è l'Italia politica di oggi?
Non a caso il cardinal Caffarra alla vigilia
delle elezioni, rivolgendosi ai cattolici della sua diocesi e alludendo al drammatico trend di declino e di morte che stanno
assumendo le ideologie moderne nel nostro secolo, diceva — cito a memoria — che
non si può più ristrutturare l’edificio: occorre rifare la casa, ben consci di
quanto sacrificio e pazienza questo comporti.
Ricostruire una casa è sempre un compito difficile ma dobbiamo
svolgerlo, e svolgerlo da soli, altrimenti qualcuno lo farà per noi — lo si è appena visto con il governo Monti —, ma poi non è detto che la
casa in cui abiteremo ci piacerà.
Di sicuro la sconfitta del grand commis
Monti e la crescita a livelli impensabili della resistenza, almeno potenziale, al disegno europeo in Italia non farà piacere ai signori di
Bruxelles, che solo pochi mesi fa dichiaravano — per bocca dello stesso Monti — di
voler convocare un summit
internazionale per combattere la refrattarietà dei popoli alla roadmap della politica europea.
Io auspico che quanto avvenuto da noi non inasprisca le attuali tendenze oligarchico-punitve, ma serva di lezione perché si capisca che le terapie sbagliate non solo non guariscono il paziente ma aggravano il suo male.
Se dovessi immaginare un’agenda
politica nazionale — quindi non indirizzata a questa o a quella forza politica
specifica —, vedrei al primo posto proprio la revisione della legge fondamentale
nel senso di riequilibrare i poteri dello Stato; di prendere atto dei
nuovi poteri sociali, quei poteri che nel 1948 erano ancora allo stato embrionale;
quindi, una drastica diminuzione dei costi dello Stato e della politica, incominciando
proprio da un forte regresso dello Stato dalla sfera pubblica, dalla società,
dismettendo funzioni esercitate dall’apparato palesemente inutili o meglio
esplicabili dal privato. Quindi, la riduzione della pressione fiscale a livelli sopportabili e il disboscamento dell'incredibile groviglio di normative burocratiche
e fiscali che soffoca la vita dei singoli e delle imprese. Ancora, l'abbandono di tutte quelle costose e disorientanti ricadute legislative degli “ultimi fuochi” delle ideologie
novecentesche — liberali e socialiste — che mirano solo a relativizzare il bene e a imporre erga omnes i
presunti diritti di microscopiche minoranze aggressive a danno di quelli veri delle maggioranze. Ma questo sarebbe solo l'inizio…
Il problema principale è che per porre mano a questi interventi occorrerebbe un potere esteso che oggi nessuna forza politica ha: forse solo il Monti del 2011 avrebbe potuto fare qualcosa di decisivo e qualcosa ha fatto ma nella direzione sbagliata... Il paradosso è che, nonostante la prevalenza
numerica dei populismi, chi governerà nella legislatura che si apre sarà probabilmente la forza
del più radicale “conservatorismo”, quella dove domina la volontà più ferma di mantenere in piedi l’“antico
regime” e la più tenacemente fedele alle ossificate ideologie progressiste del Novecento. Una forza in caduta libera come numero di suffragi ma che è riuscita a vincere perché
ha saputo sfruttare le debolezze e le divisioni degli avversari.
Così, salvo scaltre cooptazioni e possibili
tradimenti-ravvedimenti, la frizione fra
la prossima struttura di governo e il sentire della popolazione — la pressione del
vapore sul coperchio della pentola in ebollizione — è destinata a crescere.
Il parlamento che è nato il 26
febbraio 2013 è pieno di volti nuovi — qualcuno lo auspicava alla vigilia, magari
con la riserva che fossero volti nuovi con idee vecchie —, anche se molti di
loro faticheranno ad articolare l’italiano nei loro interventi in aula. È un
parlamento forse più onesto dei precedenti ma ancora più impreparato a
legiferare — ci pensate all’ufficio legislativo del Movimento 5 Stelle? —, più,
nel bene ma anche nel male, deideologizzato, meno politico. E, ancora, da scompaiono
i cattolici espliciti e viene meno pressoché di ogni presenza conservatrice — non di
tipo fattuale ma di principio —: domani il massimo di destra concepibile sarà
il liberale e il cattolicesimo politico estremo quello aperto alle unioni gay, ma non al “matrimonio”.
Se i populismi sono all'opposizione, se chi ha vinto con i numero non può governare, se un secondo governo tecnico non pare alle viste, se tutto è bloccato, so what?, e allora?, direbbe un anglosassone...
In questo difficile frangente l’unica
via praticabile non mi pare quella di un governo del risicato vincitore, con
qualche pattuglia di alleati arruolati alla bisogna — ne abbiamo già avuto l’esperienza,
con il secondo governo Prodi —, ma, se il buon senso prevarrà, quella di una
tregua, di una sospensione della politica antagonistica e di un rimettere in
discussione, tutti assieme, almeno un nucleo minimale di regole del gioco per
abbassare la pressione nella pentola, per sbloccare il Paese, per ridare voce non strozzata alle
istanze sempre più drammatiche che salgono dal basso, per riconquistare spazio
alla sana politica. Forse sarebbe anche l’operazione meno
sgradita a Bruxelles… Però ci vuole, ripeto, buon senso e, aggiungo, una buona dose di umiltà.