giovedì 2 maggio 2013



QUELLO CHE RESTA 
DEL SOCIALCOMUNISMO




Il comunismo ha fallito su tutti i piani: non è stato capace di creare la società senza classi e nemmeno di migliorare le condizioni di vita dei lavoratori, che sono migliorate grazie al profitto, redistribuito, del capitalismo moderno. Non è stato capace di creare uguaglianza, ma solo feroci disuguaglianze di casta; ha saputo solo creare Stati “teocratici”, dove una ristretta cricca di appartenenti al partito ha dominato per decenni su inermi popolazioni anche di antica civiltà, massacrandone i membri e distruggendone la fibra, l’identità, il passato. La Cina di oggi, la Cina dell’aborto coatto, la Cina dove l’instaurazione del comunismo è costata almeno cento milioni di morti, ne è l’ultimo e più triste esempio.

Dopo il 1989 l’impero socialcomunista di casa-madre sovietica è crollato, l’ideologia comunista come tale non affascina più, almeno in Occidente rimane patrimonio di piccoli gruppi emarginati: ma, come i virus, il comunismo si è scisso, metamorfizzato e diffuse in forme diverse. Dell’ateismo comunista condannato da Pio XI è caduta la componente “comunismo” ma è restato vivo e vegeto l’ateismo, l’irreligione, il “progetto” — ma forse in tempi di pensiero debole è eccessivo parlare di progetto — di una vita senza Dio, anzi contro Dio, l’ultimo simulacro e il simulacro ultimo di autorità da abbattere per far posto a una vita auto centrata sull’individuo, sui suoi desideri, sulle sue passioni e velleità: una vita completamente emancipata da Dio e dalla sua legge. Anzi, una vita che irride come antiumano ciò che è religioso e chi religiosamente vuole vivere, da singolo e in forma associata. Il comunismo non costruisce e non può costruire più niente: ma se non c’è più la vernice, è rimasto il solvente.

Queste riflessioni mi affiorano alla mente dopo aver visto il filmato del volgare sacrilegio compiuto sul palco del concerto del Primo Maggio 2013 a Roma in diretta TV su una rete televisiva pubblica, che esige manu militari ogni anno una tassa di proprietà di qualunque apparecchio in grado di ricevere. Nell’occasione un giovane cantante di un complesso — delle decine che si sono esibite sul palco con canzoni ed esibizioni che veicolavano idee e stili di vita di certo non tutti edificanti — si è presentato sul palco con il capo coperto dal cappuccio di una felpa — poi si capirà perché — ostendendo, letteralmente, come un sacerdote che presenta al popolo l’ostia consacrata, una confezione di preservativi e pronunciando parole assai simili a quelle della consacrazione della messa — «Questo è il modello che uso io, che toglie le malattie dal mondo, prendetene e usatene tutti, fate questo, sentite a me» —; dopo di che, si è scoperto il capo, si è inchinato e a ha mostrato una tonsura dei capelli simile a quella di un frate francescano, con palese allusione alla figura di papa Francesco, lasciando intendere che il suo consiglio di fare uso del condom fosse una sorta di messaggio evangelico mediato dalla figura e nello spirito del santo di Assisi.

E tutto questo è avvenuto a Roma, di rimpetto alla basilica di San Giovanni in Laterano, la cattedrale di Roma, la sede del seggio di Pietro, della cattedra del Papa. Una piazza sempre più spesso scandalosamente sequestrata dai sovversivi di ogni genere e stabilmente illustrata dalla vicinanza di un’area ad alta concentrazione di locali per omosessuali.

Pensate solo se il cantante avesse parodiato l'adorazione che i musulmani prestano al Corano o se avesse scimmiottato Mohammad! Probabilmente non avrebbe visto l'alba...

C’è da rimanere sbigottiti del fatto ma ancor più dalla debolezza delle reazioni — almeno a oggi 2 maggio, quando i giornali non escono — che il fatto ha suscitato: lo stesso Corriere della Sera, nella sua versione online, ovviamente, ne accenna, ne pubblica  il filmato, ma sotto il titolo pilatesco Polemica per il condom in diretta; la Repubblica gli dedica, oltre al filmato, solo un ridottissimo box in cui menziona la sola reazione del gruppo Militia Christi; qualcosa di più La Stampa; persino Avvenire minimizza, limitandosi a un breve trafiletto in cui riporta le dichiarazioni, naturalmente di condanna, di Luca Borgomeo, presiden-te dell’associazione di telespettatori cattolici Aiart.

Il Primo Maggio dei lavoratori è divenuta in realtà la festa di ciò che resta delle organizzazioni socialcomuniste di controllo del mondo del lavoro e dei lavoratori delle fabbriche e dei campi, che attraverso questa stanca liturgia musicale cercano di presentarsi come vive e vitali ma in realtà raccolgono solo militanti e funzionari, nonché giovanotti e giovanotte fanatici della musica popolare di avanguardia. E, attraverso il gesto di una delle “Muse” — ma, ahimè, quanto squalificate —cui hanno ritenuto di doversi affidare per fare festa, questi brandelli di utopia socialista rivelano il vero volto dell’ideologia a cui s’ispirano. Un’ideologia la cui unica cosa da dire, la sola forza rimasta è quella di irridere Cristo e il suo vicario, papa Francesco.

Preghiamo Dio che questi rimasugli di un mondo che troppo male ha prodotto nei secoli — forse talora pentendosene ma di certo senza mai scusarsene — finiscano presto del tutto nella pattumiera della storia e il mondo del lavoro torni a lasciarsi illuminare dalla luce di Cristo e dalla dottrina sociale della sua Chiesa, gli unici che possano fare almeno in certa misura il suo vero bene. E questo anche mantenendo e riproponendo  il suo plurisecolare insegnamento morale secondo cui il controllo artificiale delle nascite non può che generare quel calo demografico che è l’autentico dramma dei Paesi occidentali e dell’Italia in particolare e che è, altresì, la radice prima della crisi economica in cui ci troviamo immersi.

E preghiamo altresì che vi sia un questa volta un gesto di riparazione e di riconsacrazione della piazza, magari a opera del clero della Basilica romana più oltraggiata.


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