martedì 3 marzo 2009


Jeffrey T. Kuhner

Conservatori allo sbando

[The Washington Times, 1° marzo 2009]


Il conservatorismo è in seria difficoltà. Ma non ditelo ai soldati di fanteria, che hanno appena finito di partecipare alla Conservative Political Action Conference (Cpac): non comprenderebbero infatti qual è, oggi, la portata della loro sconfitta politica, economica, culturale e ideologica.
La Cpac è la massima assise annuale degli attivisti conservatori. Molti di essi vengono dalla Middle America: intelligenti, gentili e scoppiettanti di entusiasmo, sono l’esatto contrario dello smidollato establishment conservatore di Washington. Essi credono che i principi battano la forza. Ma, malgrado tutta la loro energia e il loro fervore, i conservatori vivono nel mondo della fantasia.
Guidati da Newt Gingrich e da Rush Limbaugh, molti a destra reclamano il ripristino dell’agenda reaganiana: tagli alle tasse, meno Stato, valori famigliari e vittoria nella guerra al terrore. Questi sono gli slogan che per i conservatori sarebbero in grado di catapultare nuovamente i repubblicani verso l’egemonia politica.
Ma la coalizione reaganiana, un tempo vittoriosa, è adesso allo sbando. I maschi bianchi e i cristiani evangelici rappresentano una percentuale dell’elettorato in continua diminuzione. I blue-collar [la classe operaia (ndt)] etnici – i cosiddetti “democratici reaganiani” – hanno abbandonato il partito, in quanto possono anche essere culturalmente conservatori, ma amano altresì i programmi sociali e sono scettici sul libero mercato. Le donne e alcuni repubblicani indipendenti sono largamente contrari alla guerra in Iraq e, in numero sempre più forte, anche all’incremento delle truppe americane in Afghanistan.
In aggiunta, l’immigrazione di massa, specialmente quella latino-americana, ha trasformato il panorama politico. Gl’ispanici superano ora in numero gli afro-americani, sono il secondo gruppo razziale dopo i bianchi e votano massicciamente democratico. Nel corso delle elezioni del 2008 il 67% di essi ha votato per Barack Obama, anche se il sen. John McCain si è battuto per una riforma globale dell’immigrazione e ha coltivato per anni il loro voto.
La disastrosa politica delle frontiere aperte si è tradotta non solo nell’accresciuta influenza di lavoratori a basso salario e a bassa professionalità, di criminali e di trafficanti di droga, ma anche nella creazione di un potente elettorato etnico e di sinistra, che vuole politiche governative più attive. E questo ha fatto scivolare la società americana verso il centro-sinistra.
Ma non conta solo il fatto che i conservatori stanno diventando una fetta sempre più sottile dell’elettorato. La destra ha perso la battaglia più importante di tutte: la battaglia delle idee. I liberal controllano quasi tutte le istituzioni di potere in campo culturale: le università, Hollywood, le arti, i media, la televisione e la scuola pubblica.
Fin dagli anni 1960, la sinistra radicale ha cercato di trasformare l’America con una “lunga marcia attraverso le istituzioni” e ci è riuscita. In effetti, i liberal pacifisti hanno semplicemente seguito il progetto disegnato dal leninista italiano Antonio Gramsci, il quale sosteneva la teoria dell’“e­ge­mo­nia culturale”. Gramsci era in favore di un socialismo per gradi, sottolineando che la mossa-chiave per conseguire il potere politico non era impadronirsi dei mezzi di produzione, ma nell’im­pos­sessarsi degli organi culturali che dirigevano la società. In tal modo la sinistra avrebbe potuto senza ostacoli plasmare l’opinione pubblica e indottrinare la gioventù. Gramsci pronosticò che, una volta che la sinistra avesse ottenuto l’egemonia culturale, lo Stato sarebbe caduto nelle sue mani come un frutto maturo.
La vittoria elettorale del Presidente Obama rappresenta il culmine della marcia al potere della sinistra. Obama ha sfruttato abilmente molteplici vantaggi contingenti: un avversario debole, l’adu­la­zio­ne da parte dei media, la crisi finanziaria e un Partito Repubblicano demoralizzato e spaccato. Ma il lavoro culturale di base è stato portato avanti per decenni.
Obama è un uomo di sinistra, anti-capitalista, anti-familiare e anti-americano. Ma qui sta quello che la maggior parte dei conservatori non capisce, cioè che ampie fasce dell’elettorato americano se ne infischiano. Le percentuali di consenso per Obama rimangono intorno all’80%. Il recente piano d’incentivi da 787 miliardi di dollari ha avuto un largo sostegno da parte del pubblico, anche se rappresenta il più drastico intervento governativo nell’economia attuato in tempo di pace.
I sondaggi mostrano che i votanti sono disponibili a una spesa ancora più ampia e ad aumenti mirati di tasse: purché funzionino (cosa che non sarà). Il conservatorismo dello Stato limitato è out: il liberalismo dello Stato sociale è in.
I conservatori devono svegliarsi di fronte a questo fatto fondamentale, cioè che il Paese è cambiato dai tempi di Ronald Reagan: non siamo più una nazione di centro-destra. Anche se questo non significa che la destra – come stanno chiedendo alcuni neoconservatori, come David Frum e David Brooks – debba rinunciare ai suoi principi: vuol dire solo che i conservatori devono affrontare in profondità la loro incresciosa situazione. Oggi siamo una minoranza in regresso e se non invertiremo il declino economico e culturale dell’America, i nostri numeri continueranno a calare.
Molti conservatori sono convinti che il fatto che i democratici abbiano stravinto costerà loro il controllo del Congresso e forse anche la casa Bianca nel 2012. La politica di Obama è la ricetta per il disastro: crescita economica anemica, tasso di disoccupazione stabilmente alto, debito pubblico rovinoso, disastro all’estero e declino della nazione.
Ma anche negli anni 1930 andò così. Il New Deal non riuscì a porre termine alla Grande Depressione. La politica di pacificazione inaugurata da Franklin Roosevelt imbaldanzì la Germania nazionalsocialista e il Giappone imperiale, aprendo la strada alla Seconda Guerra Mondiale.
Ma, nonostante questo pessimo risultato, Roosevelt riuscì a ottenere tre vittorie elettorali consecutive. Obama e i democratici al Congresso possono restare al potere anche con un’economia fallimentare e una sconfitta in Medio Oriente: non vi sono certezze in politica.
Anche se i repubblicani riusciranno a tornare al potere nel 2010 o nel 2012, cavalcando un’ondata di rigetto dei votanti per l’incompetenza dei democratici, questo non risolverà il problema sottostante: il trend demografico è contro i conservatori.
Per vincere, il Great Old Party (Gop) dovrà obbligatoriamente divenire più simile ai democratici; l’appello di George W. Bush per un “conservatorismo compassionevole”, con la sua insistenza su una maggior spesa per l’istruzione, la copertura pubblica delle spese mediche degli anziani e la sanatoria dell’immigrazione illegale è stato un esempio di erosione dell’identità repubblicana.
Per questo, se la destra vuole davvero cercare di accedere al potere nazionale, deve abbandonare la sua strategia solo politica, che è la strada verso la sconfitta, il declino e alla fine, l’oblio. Deve invece affrontare la sinistra sul fronte della cultura e cercare di riprendere le istituzioni-chiave dove i conservatori si sono arresi, spesso senza combattere. I liberal sono stati troppo a lungo all’offen­siva, fissando loro i termini del dibattito. I conservatori devono smettere di giocare in difesa: devono invece essere dinamici, fieri e coraggiosi, dando vita a una rivoluzione di lungo respiro.
I conservatori non hanno perso in una sola notte, né vinceranno in una sola notte. La strada vero il potere non sta a Washington, ma a New York e a Los Angeles e ovunque, nel mezzo. È la cultura, stupido.


Jeffrey T. Kuhner è columnist de The Washington Times e presidente dell’Edmund Burke Institute, un istituto di politica di Washington.

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