mercoledì 12 novembre 2014



LIBERISMO E   LIBERALISMO NON SONO LA STESSA COSA

   
  

Leggo su il Foglio quotidiano una intervista all’economista liberista francese — rara avis! — Pascal Salin. Ottimo e acuto nella sua critica all’ideologia antiliberistica che oggi aleggia da più parti, egli alimenta però purtroppo per l’ennesima volta la confusione fra liberista — che leggo come fautore del libero mercato e della libera iniziativa imprenditoriale — e liberale.

   Liberismo = liberalismo è una equazione che non sta letteralmente in piedi. Primo perché non tutti i liberisti sono liberali, poi perché non tutti i liberali sono liberisti.

   Primo caso: il libero mercato, come principio e come valore, contrapposto all’economia pianificata e diretta dallo Stato o da una oligarchia pubblica, è anche parte della cultura conservatrice e di quella stricto sensu cattolica.
   Entrambi questi ultimi affiancano però allapprezzamento per la libertà economica meno per quella individuale che non per quella "corporata", riferita cioè ai corpi sociali intermedi il rifiuto del liberismo come idolo assoluto e apprezzano del pari l’intervento della cosa pubblica ove la libera iniziativa economica crei, cioè ne sia causa diretta, squilibri e povertà, secondo il principio detto "di sussidia-rietà"

   Secondo caso: è un fatto che i liberali storicamente sono i padri dello Stato moderno nella sua fase che va da metà dell’Ottocento alla Grande Guerra e, con minore egemonia, oltre. Lo Stato burocratico moderno, se nasce prima, nell’Ottocento, sotto l’impulso di governi schiettamente liberali — e non liberal, intendendo con questo termine i liberali all’americana, più simili ai socialdemocratici e ai giacobini —, assume una configurazione, cioè si arroga poteri e inizia a esercitare funzioni sociali in forma simile, ma non identica, allo Stato attuale. Lo Stato liberale, proprio perché deve presidiare funzioni che lo Stato organico non presidiava e garantire una gamma di diritti o di pseudo-diritti conseguenti al suo culto per la libertà e per l’uguaglianza (ancorché “ponderata”), il suo apparato, la sua sfera di intervento nella società non può che dilatarsi.
   Certo lo Stato socialista democratico o, peggio, il totalitarismo della dittatura del proletariato spinge lo Stato fino a coincidere con la società stessa: lo Stato è la società e il Partito è lo Stato… Ma il trend di crescita del Government verso una taglia decisamente extra large (XXL) inizia allora. Senza sprezzare lantitotalitarismo dei liberali, non si può non rilevare come il liberismo per loro abbia senso solo allinterno della loro antropologia naturalistica e autoreferenziale e spesso, pur di realizzare appunto il loro credo ideologico, per instaurare quel regno della libertà che esclude dalla sfera pubblica il dato religioso ma anche, in certi frangenti, per agevolare il successo di dottrine più avanzate —, sono stati disposti ad avallare anche forme invasive e dirigistiche di società.
  Invece, una economia retta deve essere né liberista, né liberale: dev’essere libera di correre entro i confini che la natura pone all’attività economica dell’uomo, spesso quella in concreto primaria, ma non certo la prima in ordine di valore. Allora: libero mercato sì, quanto più se ne può; intervento dello Stato: il meno possibile, ove e solo nella misura in cui serve.

  Questa è la grande lezione dell’economia cattolica classica, oggi sparita dagli atenei, dalle librerie e dal business vissuto, ma cuore della dottrina sociale della Chiesa.

   Credo che solo applicando anche nell’economia il “tanto… quanto…” del Principio e fondamento degli Esercizi ignaziani l’anima della società ritroverà il suo equilibrio e la sua salute.

martedì 11 novembre 2014

SFASCIO 
DELLO STATO 
E IDEOLOGIA LIBERALE




   Sono un lettore "obbligato" dei “fondi” meno dei libri di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera, per cui non mi sono perso il suo articolo — non il primo in tema — che oggi, 11 novembre, il quotidiano milanese pubblica. 
   In esso, con dovizia di esemplificazioni, il noto politologo romano denuncia lo sfascio in cui versa il Paese. La crisi generale e diffusa di senso civico che affligge l’Italia e le drammatiche inefficienze della sfera pubblica dipende-rebbero, secondo lui, da uno sfilacciamento dell’identità di ruolo dello Stato, che avrebbe rinunciato a svolgere gran parte delle sue funzioni, sì che al livello generale e specialmente nelle classi popolari e nelle “periferie” della nazione si sarebbe diffuso un senso di abbandono e una domanda di maggior presenza dello Stato.
   Sono d’accordo sulla diagnosi: il Paese è letteralmente allo sfascio e lo si percepisce intensamente specialmente al livello delle microstrutture, dei servizi pubblici più elementari, nella vita della gente comune di tutti i giorni. Ormai vi è tutta una serie di reati — certamente più spesso, anche se non solo, reati “micro“, ma dall’impatto diretto sulla vita della gente nelle grandi città — che non è più di fatto né perseguita, né sanzionata. Uno per tutti — davvero “micro” ma assai urtante, che mi permetto di aggiungere all’elenco dei mali che Ernesto Galli della Loggia denuncia —: ormai a Roma — ma penso che sia lo stesso anche altrove —, non solo i muri sono protervamente e ripetutamente imbrattati con scritte e graffiti assurdi — ah, i bei tempi de “lo Stato borghese si abbatte, non si cambia”… — fatti con la vernice spray, ma non vi è palo della luce, casellario postale esterno, stipite di cancello, centralina dei telefoni o della luce, chiosco, portone, che non venga di continuo letteralmente ricoperto da decine di etichette adesive di artigiani, traslochisti, manovali, corrieri, in piena violazione delle norme sull’affissione abusiva. E l’immagine di città impecettata della Capitale che se ne ricava non è certo delle più eleganti ed edificanti… Possibile che nessuno controlli le tipografie? E persegua chi propaganda i suoi servizi in quella discutibile forma? Certo chi vive nel Palazzo forse non se ne accorge, ma chi vive in quartiere e conserva un minimo di dignità se ne accorge, eccome, e ne soffre…

   Non sono d’accordo invece sulle cause. Il processo di disgregazione che Galli della Loggia avverte non è solo frutto di una carenza di peso dello Stato. Anzi, lo Stato, tanto lo Stato centrale, quanto le sue articolazioni territoriali senza dimenticare il "peso" indiretto di Bruxelles , in certe aree della vita della nazione pesa molto più di prima: basti pensare al fisco, ai controlli sulle transazioni economiche, agli standard educativi, alla produzione legislativa.

   Il problema è che proprio dagli anni Settanta — o dal Sessantotto, culmine vessillare della Rivoluzione nelle tendenze, che anche Galli della Loggia assume come terminus a quo —, è nella società — e non per colpa di quel decentramento che è stato fatto passare come federalismo — che si allentano il senso identitario e i vincoli di coesistenza collettiva, sotto il soffio del vento gelido dell’individualismo e del relativismo, del secolarismo e dell’edonismo, diffusi da un liberalismo liberal che forse Ernesto Galli della Loggia non ama, ma che è quello che esiste e agisce ai nostri giorni. Non è lo Stato che è assente a livello delle microstrutture: è l’autorità, l’autorità informale — gli anziani verso i giovani, i padri verso i figli, i preti verso il gregge: quell'autorità che la sociologia tradizionale chiamava “autorità naturale”, quell’autorità invisibile e diffusa che un tempo bastava far cadere in terra per strada una cartaccia per sentirla scattare con i suoi rimbrotti... — che è stata erosa sotto la spinta dell’auto-referenzialità dell'individuo, del venir meno del senso religioso, della morale “fai da te”, continuamente espro-priata dallo Stato centrale.

   E, ancora, lo Stato, anch’esso influenzato da questo solvente, si è come ritirato, messo in disarmo, nelle funzioni che per diritto — e dovere — gli competono, ossia incarnare l’autorità, combattere la criminalità, mantenere l’ordine, sussidiare le società di ordine inferiore.

   Non dimentichiamo che lo Stato odierno non è lo Stato tout court, lo Stato che si studia nei manuali di diritto costituzionale e di scienza politica, ma l’ultima versione dello Stato moderno, cioè del regime — più o meno — misto frutto delle degenerazioni dei vari regimi politici: il dispotismo (opposto della monarchia), l’oligarchia (opposto di aristocrazia) e la demagogia (la corruzione della democrazia). Se questo mix ha toccato il suo vertice nel totalitarismo comunista — il Partito dominava lo Stato e lo Stato la società , anche la "democrazia totalitaria" (Jacob Talmon) moderna, amorale e relativistica, ne è in buona misura un esempio. Quindi, rivendicarne l’empowerment significa auspicare una ulteriore dilatazione del monstrum burocratico e impersonale costruito nei secoli a partire dall’assolutismo rinascimentale e sei-settecentesco. Cioè uno Stato che nel terzo millennio cristiano preferisce concentrarsi sulla promozione autoritaria di pseudo-diritti civili ed è diventato sempre più ipertrofico specialmente nelle funzioni attraverso cui la sua megastruttura — oltre 3milioni e 400 mila dipendenti — può autoperpetuarsi e cioè la leva fiscale, i proventi della presenza pubblica nell’e-conomia e il monopolio dell’educazione nazionale.

   Ora, se si imboccasse il percorso inverso, cioè se lo Stato tornasse forte nelle funzioni basilari e abbandonasse quelle che si è autoattribuite sempre più arbitrariamente e arrogantemente nel corso della storia, il suo peso decre-scerebbe e lo sfascio forse rallenterebbe.

Senza dimenticare che gran parte dello sfascio diagnosticato è frutto della disgregazione tenacemente perseguito e più volte denunciato dai vescovi della famiglia italiana. Certo non è con leggi come il divorzio e il divorzio sprint, né banalizzando il matrimonio, facendone un “diritto per tutti” — marriage pour tous —, né perpetuando l’assurdo non intervento dello Stato a sostegno delle famiglie numerose e bisognose, che si rallenta questa disgregazione. Certo non è favorendo il clima di ostilità verso i legami stabili e perpetui e contro la natalità che si rimedia ai mali denunciati. E mi pare che Galli della Loggia, come tutti i liberali “che si rispettano”, non eccepisca granché né in materia di divorzio, né in tema di unioni civili, né riguardo ai mancati sussidi familiari.

    Se lo sfogo del noto politologo è del tutto comprensibile e condivisibile, se la sua ansia per le sorti declinanti del Paese è del tutto apprezzabile, non si capisce come la sua analisi non veda letteralmente questo rapporto causa-effetto fra ideologia progressista, ancorché soft, e i fenomeni di degrado, né che non si accorga che per rifare una società decente, non basta uno Stato efficiente — tanto più uno Stato burocratico e, in tesi, areligioso e amorale come quello moderno —, ma il ricupero del senso comune e della solidarietà fra concives. Se, per assurdo, con un colpo di bacchetta magica, si realizzasse uno Stato come quello che Galli della Loggia auspica — assai simile allo Stato liberale elitario post-unitario, quindi a uno Stato moderno a uno stadio di sviluppo ancora “semi-infantile” —, cambierebbe davvero il modo di stare insieme di una moltitudine spappolata che è l’Italia di oggi, così simile a quella società “di massa”, che Pio XII additò come modello negativo di popolo già negli anni 1940, o alla società “a coriandoli” evocata da Giuseppe De Rita? 
   Il rapporto armonioso fra Stato e società si ottiene solo ridimensionando e rettificando il primo e rivitalizzando moralmente e, quindi, responsabilizzando, la seconda e chi ne fa parte. Ma questo si consegue solo cambiando le mentalità, il modo di pensare e, prima di tutto, riportando le tendenze, il desiderio di libertà, individuali entro limiti “fisiologici” e quadri ordinati. Se si vuole un'Italia nuova e diversa, occorre prima eliminarne le storture introdottevi da una malintesa nozione di progresso.

lunedì 10 novembre 2014


MA IL MURO DI BERLINO 
E' DAVVERO CROLLATO?
 

  Novembre 2014: si commemora il quarto di secolo dalla “caduta”, dal “crollo”, dall’“abbattimento” del Muro di Berlino. Ma si è trattato davvero di una caduta, di un crollo, di un abbattimento?

  A mio modesto avviso, no. Il Muro non è caduto – chi lo avrebbe fatto cadere? –, non è crollato – quale sisma ne avrebbe minato le fondamenta? – e nemmeno è stato abbattuto – dov’è stato il vento inarrestabile che lo avrebbe travolto? –: il Muro è semplicemente stato rimosso, tolto di mezzo, smantellato da chi lo aveva eretto.

  Già lo segnalava con fine acume, a poco più di un mese dai fatti, il giornalista ed ex iscritto al Partito Comunista Saverio Vertone (1927-2011), che scriveva su il Corriere della Sera: «[…] considerata nei suoi effetti visibili, la spallata che sta cancellando regimi, partiti, costituzioni, sistemi economici e persino interi Stati nell’Europa centro-orientale, sembra un miracolo della volontà popolare. E il Muro di Berlino che cade scoperchiando prigioni e latrine di Stato può ricordare a qualcuno le Mura di Gerico che si afflosciano come cartapesta sotto l’urto sonoro delle trombe di Giosuè. Non è così. La spallata dei popoli è stata data quando i guardiani avevano aperto le gabbie. Lo schianto improvviso dell’impero comunista finisce nella consapevolezza e nello spirito, ma è cominciato nella materia e nell’economia, ed è passato al vaglio razionale della Realpolitik. […] L’erede di Lenin [Gorbaciov] non ha scelto la libertà, ma la sopravvivenza […] [e] cerca adesso di convincere il mondo capitalista a partecipare in extremis al salvataggio di un sistema che per settant’anni si è presentato come un’antitesi mortale al capitalismo».

  Perché il Muro fu rimosso? Perché la frontiera fra impero comunista e mondo libero era stata semplicemente spostata e la Germania Democratica non aveva più senso. Gli Stati europei comunistizzati nel secondo dopoguerra, nel disegno sovietico – così come lo leggeva Giovanni Cantoni nel gennaio del 1990 –, dovevano essere affrancati dal controllo diretto di Mosca per andare a formare una cintura di Stati semi-socialisti, ma ad auspicata alta prosperità economica, che sorreggesse l’agonizzante socialismo reale della casa-madre, l’URSS.

  Non solo: ma l’intero movimento comunista di casa-madre moscovita, già dagli anni della breve segreteria di Jurij Vladimirovič Andropov (1914-1984), capo del KGB, aveva iniziato una profonda ristrutturazione, ovvero attuato una radicale metamorfosi, pienamente coerente con la sua dottrina relativistica e dialettica, e in perfetta armonia con la “natura” – le virgolette sono di obbligo, perché la modernità rivoluzionaria nega la nozione di “natura”, la quale rimanda a quella di creazione e a quella di ordine – proteiforme del processo rivoluzionario, dismettendo il colbacco rosso-stellato dell’epoca della modernità “dura”, simboleggiata dalla CEKA e dall’industria pesante, a una versione post-moderna, duttile e iperrelativistica.

  Certo, non si trattava solo di riacclimatare il vecchio progetto di lotta per la società senza classi in un mondo cambiato. Spinte oggettive a mutare lo status quo e ad accelerare il piano di dismissione della forma statuale della Rivoluzione comunista vi erano, e come! In genere a riguardo si cita il magistero e il carisma dell’ex suddito della repubblica socialista di Polonia papa Giovanni Paolo II (1978-2005), così come si sottolinea la sfida all’impero “del male” lanciata dall’indimenticabile 40° presidente degli Stati Uniti Ronald Wilson Reagan (1911-2004): tutto vero. E, ancora, come causa delle cause s’invoca il fallimento economico del socialismo sovietico e le spese insostenibili per mantenere in sella regimi del tutto artificiali, come la RDT – ma anche come Cuba, come il Nicaragua, come i regimi socialisti insediatisi nei Paesi ex coloniali –, mantenendo efficiente l’odioso Muro, che circondava l’ex capitale germanica – anche i sassi avevano capito che nessuno dall’Ovest era mai fuggito all’Est… – e che costituiva il classico pugno in un occhio per la politica di glasnost e di perestrojka intrapresa dall’ottavo segretario del PCUS, Michail Sergeevič Gorbaciov. Anche questo, verissimo...



  Ma, a mio avviso, tutte queste spinte – tranne forse l’ultima, la più tangibile e potente – non bastano a spiegare la decisione unilaterale di demolire la barriera di cemento e di filo spinato che divideva Berlino e di non reagire quando un anno più tardi la Germania tornava una. La dissidenza, anche se sempre più forte e alimentata dal Papa polacco, non aveva chance di fronte ad apparati repressivi capillari, che contavano un numero sterminato di membri – il massimo era proprio la Repubblica Democratica Tedesca, dove la STASI, il servizio di sicurezza, reclutava, come funzionari o come spie più o meno occasionali, milioni di tedeschi –: lo si era visto nella repressione in Polonia attuata dal generale Wojciech Jaruzelski (1923-2014) pochi anni prima. Reagan stesso era un nemico di certo ben più pericoloso di un Jimmy Carter, ma era chiaro che gli USA non avrebbero mai, né con il presidente “cow boy”, né prima di lui, rimesso in discussione i patti di Jalta e di Potsdam e la suddivisione del mondo in aree di influenza. E anche gli altri leader occidentali non credevano granché nella possibilità di una rimozione del Muro e di una riunificazione tedesca, né, soprattutto, potevano sospettare che esse sarebbero state così rapide e indolori.

  Il Muro fu rimosso perché il comunismo aveva cambiato tattica: non reggendo più la contrapposizione “muro a muro” con l’Occidente, doveva rifluire, uscire dalla politica, abbandonare la gestione dello Stato totalitario, se voleva salvaguardare le enormi risorse accumulate dal Partito nei settant’anni di potere assoluto su una delle nazioni in tesi più ricche del mondo.

Il compianto politologo Pierre Faillant de Villemarest (1922-2008), ex combattente del Maquis e nel secondo dopoguerra membro dei servizi segreti francesi, appoggiandosi a fonti dell’intelligence, ha descritto – credo unico al mondo – la smobilitazione dell’apparato “discreto”, se non clandestino, del comunismo sovietico – a partire dalla esportazione dei fondi dello Stato e del PCUS nelle banche occidentali – e la riconversione dei suoi alti dirigenti in “nuovi oligarchi”, nuovi “magnati” e talora “nuovi mafiosi” russi, in un processo durato fino all’ammainamento della bandiera rossa dalla guglia più alta del Cremlino, alla rinascita dell’aquila bicipite russa, al riassorbimento dell’effimero regime “liberale” di Boris Nikolaevič Eltsin (1931-2007) e alla ricomparsa di un potere politico “forte”, non più “nazionalbolscevico”, ma ora solo “nazionale” e semi-democratico, di cui è, ormai da quindici anni, incarnazione l’ex colonnello del KGB – fra l’altro di stanza proprio a Dresda, nella Germania di Pankow – Vladimir Putin.

  Quindi, suonano male le affermazioni, riecheggiate in questi giorni, secondo cui l’Occidente ha abbattuto il Muro o la “democrazia” ha sconfitto la “dittatura”: il Muro è stato smantellato e la DDR cancellata dai comunisti perché costretti e decisi a rinunciare a gestire un sistema ideologico-politico non più “appetibile” per le masse – interne ed esterne – e compromesso dall’implosione dell’economia socialista “reale”. E, nel contempo, per la necessità di salvare l’investimento, il “capitale”, che, al di là del potere politico, costituiva il “corpo”, il nocciolo duro del potere reale, del Partito – ma anche ai suoi dessous elitari e “iniziatici”, così bene descritti da Vladimir Volkoff (1932-2005) nel suo eccellente romanzo storico Il montaggio –, in vista di una rinascita in altre forme.

  Così pure pare fuori luogo attribuire a genuini sentimenti “democratici” la presunta adesione – se non promozione – alla dottrina della cancellazione del Muro da parte di Gorbaciov, che se ne fece eventualmente sostenitore solo nella prospettiva sopra enunciata o, forse, nel tentativo disperato di “salvare il salvabile” nei rapporti con l’Occidente. Per questo mi è parsa una nota del tutto stonata la sua partecipazione alle celebrazioni dell’anniversario, dove per di più si è dato a convincere gli occidentali a “tifare” per Putin…

  Detto quello che ho detto, se ne può dedurre che si possa escludere il carattere eccezionale, se non miracoloso, della fine del Muro?

  No, anzi, il contrario: la rapidità e l’imprevedibilità del collasso dell’URSS e dei suoi satelliti europei – non dimentichiamo che in Asia il comunismo, anche se apparentemente meno visibile, è tuttora florido e diffuso e che il massacro di Piazza Tienanmen a Pechino cade proprio del 1989 – non si spiega solo con cause umane. Quanti fra gli intellettuali, i servizi segreti, gli analisti di politica estera, nel 1988 avrebbero pronosticato quanto sarebbe avvenuto nel novembre dell’anno dopo?

  Se si fa il bilancio delle forze materiali in campo nei due blocchi e, come accennato, alla ridotta capacità eversiva dei movimenti anticomunisti – dati che gli analisti in genere considerano accuratamente –, probabilmente il tramonto dell’impero “rosso”, certamente di un impero sempre più indebolito, iniziato con la riunificazione delle due Germanie, sarebbe durato ancora a lungo.

  Se il comunismo sovietico è scomparso così repentinamente a partire dalla caduta del Muro alla fine degli anni 1980, non vi è dubbio che qualche fattore invisibile e misterioso ha giocato un ruolo. E, se è vero che  qui però lo storico si deve fermare, per il credente – e per lo storico credente – è fuori di dubbio che questo fattore imponderabile, questo quid discreto, questo agente potente che ha permesso si producesse la somma di circostanze “fortuite”, da molti evocata, che ha causato la fine del Muro, si chiami Provvidenza. Essa così ha voluto, forse in virtù del fatto che da parte della Chiesa cattolica a molto di quello che la Vergine aveva richiesto a Fatima nel 1917 per decretare la fine del comunismo russo – il cui avvento nel mondo aveva nel contempo, ancor prima dell’Ottobre 1917,  pronosticato – era stato ottemperato grazie ai pontefici, al sangue delle migliaia di martiri, alle sofferenze materiali e morali di milioni di uomini e donne, nonché alle preghiere di tanti fedeli.

  Solo chi ha potere sull’inferno, e il comunismo è stato davvero – come detto a Fatima – un inferno in temporalibus per tanti popoli e per la stessa Chiesa, può abbreviarne a sua discrezione la durata… Senza dimenticare che il castigo, per l’intercessione di qualche buono, è cessato, ma non è finito: è solo stato ridotto di peso… E senza dimenticare, che per molti aspetti e in certi frangenti, lo stesso mondo post-moderno, con la sua confusione e la sua dilagante corruzione morale, anche se i regimi comunisti non vi sono più numerosi come una volta, rappresenta di per sé quanto meno una sorta di purgatorio…

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