LIBERISMO E LIBERALISMO NON SONO LA STESSA COSA
Leggo su il Foglio quotidiano una intervista all’economista liberista francese — rara avis! — Pascal Salin. Ottimo e acuto nella sua critica all’ideologia antiliberistica che oggi aleggia da più parti, egli alimenta però purtroppo per l’ennesima volta la confusione fra liberista — che leggo come fautore del libero mercato e della libera iniziativa imprenditoriale — e liberale.
Liberismo
= liberalismo è una equazione che non sta letteralmente in piedi. Primo perché
non tutti i liberisti sono liberali, poi perché non tutti i liberali sono
liberisti.
Primo
caso: il libero mercato, come principio e come valore, contrapposto all’economia
pianificata e diretta dallo Stato o da una oligarchia pubblica, è anche
parte della cultura conservatrice e di quella stricto sensu cattolica.
Entrambi questi ultimi affiancano però all’apprezzamento per la libertà economica — meno per quella individuale che non per quella "corporata", riferita cioè ai corpi sociali intermedi — il rifiuto
del liberismo come idolo assoluto e apprezzano del pari l’intervento della
cosa pubblica ove la libera iniziativa economica crei, cioè ne sia causa
diretta, squilibri e povertà, secondo il principio detto "di sussidia-rietà"
Secondo
caso: è un fatto che i liberali storicamente sono i padri dello Stato moderno nella sua fase
che va da metà dell’Ottocento alla Grande Guerra e, con minore egemonia, oltre.
Lo Stato burocratico moderno, se nasce prima, nell’Ottocento, sotto l’impulso
di governi schiettamente liberali — e non liberal,
intendendo con questo termine i liberali “all’americana”, più simili ai socialdemocratici
e ai giacobini —, assume una configurazione, cioè si arroga poteri e inizia a esercitare
funzioni sociali in forma simile, ma non identica, allo Stato attuale. Lo Stato
liberale, proprio perché deve presidiare funzioni che lo Stato organico non
presidiava e garantire una gamma di diritti o di pseudo-diritti conseguenti al
suo culto per la libertà e per l’uguaglianza (ancorché “ponderata”), il suo
apparato, la sua sfera di intervento nella società non può che dilatarsi.
Certo
lo Stato socialista democratico o, peggio, il totalitarismo della dittatura del
proletariato spinge lo Stato fino a coincidere con la società stessa: lo
Stato è la società e il Partito è lo Stato… Ma il trend di crescita del Government
verso una taglia decisamente extra large (XXL)
inizia allora. Senza sprezzare l’antitotalitarismo dei liberali, non si può non rilevare come il liberismo per loro abbia senso solo all’interno della loro antropologia naturalistica e autoreferenziale e spesso, pur di realizzare appunto il loro credo ideologico, per instaurare quel regno della libertà che esclude dalla sfera pubblica il dato religioso — ma anche, in certi frangenti, per agevolare il successo di dottrine “più avanzate” —, sono stati disposti ad avallare anche forme invasive e dirigistiche di società.
Invece, una economia retta deve essere né liberista, né liberale: dev’essere
libera di correre entro i confini che la natura pone all’attività economica
dell’uomo, spesso quella in concreto primaria, ma non certo la prima in ordine
di valore. Allora: libero mercato sì, quanto più se ne può; intervento dello
Stato: il meno possibile, ove e solo nella misura in cui serve.
Questa
è la grande lezione dell’economia cattolica classica, oggi sparita dagli atenei,
dalle librerie e dal business vissuto,
ma cuore della dottrina sociale della Chiesa.
Credo
che solo applicando anche nell’economia il “tanto… quanto…” del Principio e fondamento degli Esercizi ignaziani l’anima della società
ritroverà il suo equilibrio e la sua salute.
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