mercoledì 24 dicembre 2014




ANCHE AI “LAICI” NATALE PORTA CONSIGLIO...




   La riflessione che oggi Ernesto Galli Della Loggia propone al lettore del Corriere verte su un tema assai dibattuto, ovvero la differenza che esiste fra cultura — che non vuol coincide con istruzione, ma con giudizi di principio e di valore — delle élite e cultura delle “masse”. Lo spunto è il differente atteggiamento dei due soggetti che le cronache riportano intorno alla questione del presepe: il popolo lo vuole, le classi dirigenti — in senso lato — no. E Galli Della Loggia formula alcune considerazioni che non possono che trovare il plauso anche da parte di chi spesso e volentieri lo critica. Il presepe, egli sostiene, è forse gradito ormai a una minoranza, ma è un emblema, ancorché residuale, di una eredità storico-culturale che non può prescindere dalla religione, anzi dal cristianesimo, di cui l’Occidente non può liberarsi, se non al prezzo di perdere la propria identità di continente e, nei singoli Stati che la compongono, di nazione.

   Giustissimo.

   Mi pare però necessario aggiungere a margine che Ernesto Galli Della Loggia nell’argomentare forse non si è accorto — lui che dirige una prestigiosa collana dedicata all’identità nazionale presso uno dei più diffusi editori italiani, il Mulino di Bologna — di aver toccato una corda nevralgica della questione identitaria del nostro Paese e, di riflesso, uno nodi dei più complessi e foriero di conseguenze della sua storia moderna: la questione dell’Insorgenza. Né, proseguendo il discorso, di avere sfiorato il sottofondo cui la questione dell’identità nazionale e l’Insorgenza e, ancora, il Risorgimento rimandano, cioè quella della cultura della modernità.

   Infatti, la secolarizzazione e poi la scristianizzazione delle élite e il loro conflitto con un sentimento nazionale intriso di cristianesimo tridentino sono alla radice della genesi dell’Italia contemporanea, nonché tratti fortemente marcanti — e, a mio avviso, autentici handicap — di una identità del Paese costruita su filosofemi ottocenteschi estranei e ostili alla grande tradizione intellettuale classico-cattolica dell’Italia — che ha avuto il suo culmine in Giambattista Vico, purché non letto con le lenti dell’idealismo —, ma anche a un ethos popolare anch’esso pervaso fin nelle intime fibre da senso comune e dottrina cattolica.

In questo conflitto di culture fra élite e popolo — le “masse”, che Pio XII assimila alla “moltitudine amorfa”,  nasceranno più tardi, dopo il primo conflitto mondiale — che accompagna indissolubilmente l’inverarsi della modernità — l’età della cristianità, ovvero il cosiddetto Medioevo, non conosce una rottura di questo genere —, nella reazione al disegno d’imporre un diverso ethos alla nazione da parte di quello che è stato chiamato il “partito italiano”, “illuminato” ed “esclusivo”, che va dai “giacobini settecenteschi” al Partito d’Azione — e suoi sottoprodotti — novecentesco, trovano la spiegazione la contro-rivoluzione popolare del periodo napoleonico e l’Antirisorgimento ottocentesco: pagine di storia tanto importanti, quanto trascurate dal mainstream storiografico.
   Se la reazione popolare alla Rivoluzione francese e poi al Risorgimento — che è la versione italiana dell’Ottantanove transalpino — è ormai spenta, se molto del patrimonio della cultura del popolo italiano, nelle campagne e nelle città, si è ormai disperso dissolto dal secolarismo e dal Sessantotto — forse l’ultimo bagliore è l’insorgenza “elettorale” anticomunista del 1948 e forse l’ultimissimo sprazzo il consenso espresso ai governi di centrodestra, nonostante le poderose e “gioiose macchine da guerra” messe in campo dalle sinistre postcomuniste, negli anni Novanta del secolo scorso —, qualche barlume di quella tradizione negata ancora permea il sentire di molti italiani o, comunque, è ancora parte integrante del nostro deposito cultural e del nostro senso identitario.

   Fa piacere che un intellettuale di prestigio — e assai influente — riscopra l’esistenza di una frattura fra cultura delle minoranze dirigenti — i «pochi felici», gli “happy few”, cui accenna Galli della Loggia — e cultura del popolo. Però l’analisi dovrebbe proseguire e riconoscere che l’Italia “legale” nasce da una frattura secolare che si sviluppa attraverso il Settecento delle logge e dei “lumi” e l’Ottocento liberale e poi socialista e giunge mutatis mutandis — nonostante sforzi da ernia dell’“Italia legale” per “nazionalizzare” e “de-integralizzare” le masse — fino a noi. Una frattura che si segnala già nella “rivoluzione culturale” di larga parte dell’Umanesimo postmedievale, cioè nel momento stesso in cui nasce quella modernità che vuole — quando non lo nega e lo combatte — Dio in cielo e l’uomo del tutto autosufficiente e sovrano sulla terra. Una modernità a cui il riferimento, per chi oggi voglia fare cultura e influire sull’opinione pubblica, è obbligato, sebbene fuorviante in sede teorica e in sede morale. E Galli Della Loggia, nonostante i suoi non infrequenti  soprassalti di buon senso, a questo tipo di cultura è tutt’altro che estraneo, per dire il meno…

   L’abolizione del presepe è l’ultimo anello di una lunghissima catena di negazioni — operante purtroppo in altri àmbiti assai delicati, come la vita e la famiglia — della presenza dell’orma religiosa — in senso lato — nella sfera pubblica, l’ultimo distillato di un rifiuto che non è nato ieri, bensì secoli fa.

   Denunciare la libertà di religione come divieto è coraggioso, rivendicare la liceità della pratica di allestire il presepe in pubblico è meritorio, riconoscere che esso è parte del DNA degli italiani e delle altre nazioni storicamente cristiane del Vecchio Continente è necessario: ma occorre andare oltre e capire che è l’intera frattura e non solo la sua ultimissima e più radicale manifestazione che va sanata e che occorre quindi “ripulire” il senso identitario da tutte le scorie, da tutte le negazioni che secoli di cattiva modernità vi hanno fatto sedimentare sopra.


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