martedì 30 dicembre 2014



UN GOVERNO ANTI-AGE?
 


È lungi da me un sentimento qualunquista del tipo “piove, governo ladro” o l’invettiva tipica di un certo cattivo cristianesimo contro il “potere”, qualunque esso sia, perché strutturalmente oppressore.

Sono anzi uno strenuo sostenitore della necessità dell’autorità politica e ritengo che questa debba avere anche un ruolo di regolazione delle libertà sociali, così come sono aduso a valutare le vicende politiche in “campo lungo”, con una profondità non di decenni ma di secoli, sì che in tale prospettiva molto del malumore che insorge davanti a certe operazioni politiche si stempera alquanto. Quello che accade ai nostri giorni infatti è, a mio avviso, l’ultimo atto di un dramma apertosi molto, molto tempo fa e snodatosi attraverso avvenimenti non del tutto piacevoli ce hanno condotto a una condizione in cui il margine di libertà del singolo di fronte a uno Stato moderno sempre più onnipervasivo si è ridotto al lumicino. Sono altresì consapevole che sic stantibus rebus anche una condizione politica dove non c’è più, per motivi strutturali e tattici, l’opposizione di destra e, anzi, vige la concertazione “del Nazareno”, possa non avere alternative concrete. Il che non vuol dire ― per inciso ― che voterei Pd, ma che ha poco senso oggi come oggi fare le barricate, prima di tutto perché facilmente aggirabili e perché manca il Gavroche della situazione, e gli aspiranti a questo ruolo fanno davvero sorridere.

Però, se rifletto un po’ su quanto questo governo di sinistra-centro sta operando nelle pieghe della legislazione, il malumore di cui accennavo torna inesorabilmente a manifestarsi. Sottolineo nelle pieghe, perché quanto di sgradevole per me accade non è pubblicizzato e discusso e poi tradotto in leggi, ma nascosto in qualche misero comma di articoli di leggi e decreti che “cubano” centinaia di pagine, sì che solo l’esperto e di riporto il giornalista ― di suo selettivo ― può accorgersene e renderli noti.

Chi scrive è da un pezzo in età di pensione, ma è ahimè incappato nelle maglie dei decreti emanati in epoca tardo berlusconiana e montiana, per cui, a differenza di molti suoi coetanei, non ha potuto ritirarsi a 60 anni. Ora il governo Renzi, pare per lo scatto di un meccanismo introdotto dalla Fornero, dovrà attendere all’incirca i 68 anni ― salve ulteriori probabili restrizioni ― per potere godere di una pensione, il cui ammontare fra l’altro è difficilmente determinabile, ma facilmente pronosticabile in una entità sempre più ridotta rispetto all’ultimo stipendio goduto. Con in più l’amaro onere di dover contribuire a mantenere non solo i pensionati “stagionati”, ma anche i propri coetanei ritiratisi in tempo.

Secondo regalo: la legge di stabilità 2015, in un sottocomma prevede l’innalzamento della tassazione sui fondi-pensione, ovvero sull’accumulo che viene fatto nel tempo in prospettiva di goderne i frutti al momento del pensionamento di ben nove punti percentuali dall’11% a oltre il 20, ovvero lo Stato si tratterrà un quinto del frutto di quanto legittimamente accumulato. Altre che sceriffo di Nottingham! Qui la taglia ― che cos’è la cessione forzata di un quinto dei proventi se non una taglia? ― viene esatta a freddo e senza possibilità alcuna di rifugiarsi nella foresta da Robin Hood!

Nel frattempo, si badi, in questo scorcio di attività lavorativa coatta, il sottoscritto, dipendente dello Stato, si troverà ad avere una retribuzione ferma a quella del 2010, quindi con un potere di acquisto eroso, quindi in sostanza incorre in una diminuzione della retribuzione.

Tutto ciò ― si badi bene ― avviene senza discussione ― o senza che la discussione arrivi alle orecchie del cittadino, anche del cittadino informato ― e con possibilità di opporvisi pressoché nulle.  

Lo so: può parere un discorso ad personam, ma non riguarda solo il sottoscritto ma migliaia di italiani, statali e non, e quanto ho denunciato è solo una fetta della torta al veleno che ci viene cucinata dal governo per il nuovo anno: aumenterà l’IVA, aumenteranno le accise, è già stato deciso l’aumento dei pedaggi autostradali, l’IMU e le tasse sui rifiuti fluttueranno all’in su a discrezione della miriade di Comuni della Penisola, la luce rincarerà e chi sa quant’altro la “creatività fiscale” del potere ci riserverà nel 2015…

E, ancora, i due provvedimenti “anti-age” che ho citato mi paiono lo specchio di una politica generale ostile all’anziano, che si sposa con altri, forse più gravi, attacchi a chi è in età avanzata. Che solo il Papa, con i suoi reiterati accenni all’importanza dei nonni sembra invece rivalutare positivamente.

Se, oltre a queste “delicatezze”, si pensa che il sottoscritto dovrà incassare ― e si osservi che su queste materie il governo non opera con articoletti di mega-leggi ma direttamente con disegni di legge approvati a tamburo battente in Parlamento attraverso continue richieste di fiducia ― le unioni civili, il divorzio “breve”, la discriminazione delle famiglie ― quelle vere… ―, gli attacchi alla libertà di parola, la sempre più concreta prospettiva di una legalizzazione dell’eutanasia, la fecondazione eterologa, la scomparsa del cognome paterno nei figli, la manipolazione eugenetica degli embrioni umani, la droga libera, la diffusione capillare nei canali educativi dell’ideologia del gender, allora la rabbia e la voglia di scendere in piazza per protestare contro il governo Renzi tornano a montare prepotentemente.

mercoledì 24 dicembre 2014




ANCHE AI “LAICI” NATALE PORTA CONSIGLIO...




   La riflessione che oggi Ernesto Galli Della Loggia propone al lettore del Corriere verte su un tema assai dibattuto, ovvero la differenza che esiste fra cultura — che non vuol coincide con istruzione, ma con giudizi di principio e di valore — delle élite e cultura delle “masse”. Lo spunto è il differente atteggiamento dei due soggetti che le cronache riportano intorno alla questione del presepe: il popolo lo vuole, le classi dirigenti — in senso lato — no. E Galli Della Loggia formula alcune considerazioni che non possono che trovare il plauso anche da parte di chi spesso e volentieri lo critica. Il presepe, egli sostiene, è forse gradito ormai a una minoranza, ma è un emblema, ancorché residuale, di una eredità storico-culturale che non può prescindere dalla religione, anzi dal cristianesimo, di cui l’Occidente non può liberarsi, se non al prezzo di perdere la propria identità di continente e, nei singoli Stati che la compongono, di nazione.

   Giustissimo.

   Mi pare però necessario aggiungere a margine che Ernesto Galli Della Loggia nell’argomentare forse non si è accorto — lui che dirige una prestigiosa collana dedicata all’identità nazionale presso uno dei più diffusi editori italiani, il Mulino di Bologna — di aver toccato una corda nevralgica della questione identitaria del nostro Paese e, di riflesso, uno nodi dei più complessi e foriero di conseguenze della sua storia moderna: la questione dell’Insorgenza. Né, proseguendo il discorso, di avere sfiorato il sottofondo cui la questione dell’identità nazionale e l’Insorgenza e, ancora, il Risorgimento rimandano, cioè quella della cultura della modernità.

   Infatti, la secolarizzazione e poi la scristianizzazione delle élite e il loro conflitto con un sentimento nazionale intriso di cristianesimo tridentino sono alla radice della genesi dell’Italia contemporanea, nonché tratti fortemente marcanti — e, a mio avviso, autentici handicap — di una identità del Paese costruita su filosofemi ottocenteschi estranei e ostili alla grande tradizione intellettuale classico-cattolica dell’Italia — che ha avuto il suo culmine in Giambattista Vico, purché non letto con le lenti dell’idealismo —, ma anche a un ethos popolare anch’esso pervaso fin nelle intime fibre da senso comune e dottrina cattolica.

In questo conflitto di culture fra élite e popolo — le “masse”, che Pio XII assimila alla “moltitudine amorfa”,  nasceranno più tardi, dopo il primo conflitto mondiale — che accompagna indissolubilmente l’inverarsi della modernità — l’età della cristianità, ovvero il cosiddetto Medioevo, non conosce una rottura di questo genere —, nella reazione al disegno d’imporre un diverso ethos alla nazione da parte di quello che è stato chiamato il “partito italiano”, “illuminato” ed “esclusivo”, che va dai “giacobini settecenteschi” al Partito d’Azione — e suoi sottoprodotti — novecentesco, trovano la spiegazione la contro-rivoluzione popolare del periodo napoleonico e l’Antirisorgimento ottocentesco: pagine di storia tanto importanti, quanto trascurate dal mainstream storiografico.
   Se la reazione popolare alla Rivoluzione francese e poi al Risorgimento — che è la versione italiana dell’Ottantanove transalpino — è ormai spenta, se molto del patrimonio della cultura del popolo italiano, nelle campagne e nelle città, si è ormai disperso dissolto dal secolarismo e dal Sessantotto — forse l’ultimo bagliore è l’insorgenza “elettorale” anticomunista del 1948 e forse l’ultimissimo sprazzo il consenso espresso ai governi di centrodestra, nonostante le poderose e “gioiose macchine da guerra” messe in campo dalle sinistre postcomuniste, negli anni Novanta del secolo scorso —, qualche barlume di quella tradizione negata ancora permea il sentire di molti italiani o, comunque, è ancora parte integrante del nostro deposito cultural e del nostro senso identitario.

   Fa piacere che un intellettuale di prestigio — e assai influente — riscopra l’esistenza di una frattura fra cultura delle minoranze dirigenti — i «pochi felici», gli “happy few”, cui accenna Galli della Loggia — e cultura del popolo. Però l’analisi dovrebbe proseguire e riconoscere che l’Italia “legale” nasce da una frattura secolare che si sviluppa attraverso il Settecento delle logge e dei “lumi” e l’Ottocento liberale e poi socialista e giunge mutatis mutandis — nonostante sforzi da ernia dell’“Italia legale” per “nazionalizzare” e “de-integralizzare” le masse — fino a noi. Una frattura che si segnala già nella “rivoluzione culturale” di larga parte dell’Umanesimo postmedievale, cioè nel momento stesso in cui nasce quella modernità che vuole — quando non lo nega e lo combatte — Dio in cielo e l’uomo del tutto autosufficiente e sovrano sulla terra. Una modernità a cui il riferimento, per chi oggi voglia fare cultura e influire sull’opinione pubblica, è obbligato, sebbene fuorviante in sede teorica e in sede morale. E Galli Della Loggia, nonostante i suoi non infrequenti  soprassalti di buon senso, a questo tipo di cultura è tutt’altro che estraneo, per dire il meno…

   L’abolizione del presepe è l’ultimo anello di una lunghissima catena di negazioni — operante purtroppo in altri àmbiti assai delicati, come la vita e la famiglia — della presenza dell’orma religiosa — in senso lato — nella sfera pubblica, l’ultimo distillato di un rifiuto che non è nato ieri, bensì secoli fa.

   Denunciare la libertà di religione come divieto è coraggioso, rivendicare la liceità della pratica di allestire il presepe in pubblico è meritorio, riconoscere che esso è parte del DNA degli italiani e delle altre nazioni storicamente cristiane del Vecchio Continente è necessario: ma occorre andare oltre e capire che è l’intera frattura e non solo la sua ultimissima e più radicale manifestazione che va sanata e che occorre quindi “ripulire” il senso identitario da tutte le scorie, da tutte le negazioni che secoli di cattiva modernità vi hanno fatto sedimentare sopra.


mercoledì 12 novembre 2014



LIBERISMO E   LIBERALISMO NON SONO LA STESSA COSA

   
  

Leggo su il Foglio quotidiano una intervista all’economista liberista francese — rara avis! — Pascal Salin. Ottimo e acuto nella sua critica all’ideologia antiliberistica che oggi aleggia da più parti, egli alimenta però purtroppo per l’ennesima volta la confusione fra liberista — che leggo come fautore del libero mercato e della libera iniziativa imprenditoriale — e liberale.

   Liberismo = liberalismo è una equazione che non sta letteralmente in piedi. Primo perché non tutti i liberisti sono liberali, poi perché non tutti i liberali sono liberisti.

   Primo caso: il libero mercato, come principio e come valore, contrapposto all’economia pianificata e diretta dallo Stato o da una oligarchia pubblica, è anche parte della cultura conservatrice e di quella stricto sensu cattolica.
   Entrambi questi ultimi affiancano però allapprezzamento per la libertà economica meno per quella individuale che non per quella "corporata", riferita cioè ai corpi sociali intermedi il rifiuto del liberismo come idolo assoluto e apprezzano del pari l’intervento della cosa pubblica ove la libera iniziativa economica crei, cioè ne sia causa diretta, squilibri e povertà, secondo il principio detto "di sussidia-rietà"

   Secondo caso: è un fatto che i liberali storicamente sono i padri dello Stato moderno nella sua fase che va da metà dell’Ottocento alla Grande Guerra e, con minore egemonia, oltre. Lo Stato burocratico moderno, se nasce prima, nell’Ottocento, sotto l’impulso di governi schiettamente liberali — e non liberal, intendendo con questo termine i liberali all’americana, più simili ai socialdemocratici e ai giacobini —, assume una configurazione, cioè si arroga poteri e inizia a esercitare funzioni sociali in forma simile, ma non identica, allo Stato attuale. Lo Stato liberale, proprio perché deve presidiare funzioni che lo Stato organico non presidiava e garantire una gamma di diritti o di pseudo-diritti conseguenti al suo culto per la libertà e per l’uguaglianza (ancorché “ponderata”), il suo apparato, la sua sfera di intervento nella società non può che dilatarsi.
   Certo lo Stato socialista democratico o, peggio, il totalitarismo della dittatura del proletariato spinge lo Stato fino a coincidere con la società stessa: lo Stato è la società e il Partito è lo Stato… Ma il trend di crescita del Government verso una taglia decisamente extra large (XXL) inizia allora. Senza sprezzare lantitotalitarismo dei liberali, non si può non rilevare come il liberismo per loro abbia senso solo allinterno della loro antropologia naturalistica e autoreferenziale e spesso, pur di realizzare appunto il loro credo ideologico, per instaurare quel regno della libertà che esclude dalla sfera pubblica il dato religioso ma anche, in certi frangenti, per agevolare il successo di dottrine più avanzate —, sono stati disposti ad avallare anche forme invasive e dirigistiche di società.
  Invece, una economia retta deve essere né liberista, né liberale: dev’essere libera di correre entro i confini che la natura pone all’attività economica dell’uomo, spesso quella in concreto primaria, ma non certo la prima in ordine di valore. Allora: libero mercato sì, quanto più se ne può; intervento dello Stato: il meno possibile, ove e solo nella misura in cui serve.

  Questa è la grande lezione dell’economia cattolica classica, oggi sparita dagli atenei, dalle librerie e dal business vissuto, ma cuore della dottrina sociale della Chiesa.

   Credo che solo applicando anche nell’economia il “tanto… quanto…” del Principio e fondamento degli Esercizi ignaziani l’anima della società ritroverà il suo equilibrio e la sua salute.

martedì 11 novembre 2014

SFASCIO 
DELLO STATO 
E IDEOLOGIA LIBERALE




   Sono un lettore "obbligato" dei “fondi” meno dei libri di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera, per cui non mi sono perso il suo articolo — non il primo in tema — che oggi, 11 novembre, il quotidiano milanese pubblica. 
   In esso, con dovizia di esemplificazioni, il noto politologo romano denuncia lo sfascio in cui versa il Paese. La crisi generale e diffusa di senso civico che affligge l’Italia e le drammatiche inefficienze della sfera pubblica dipende-rebbero, secondo lui, da uno sfilacciamento dell’identità di ruolo dello Stato, che avrebbe rinunciato a svolgere gran parte delle sue funzioni, sì che al livello generale e specialmente nelle classi popolari e nelle “periferie” della nazione si sarebbe diffuso un senso di abbandono e una domanda di maggior presenza dello Stato.
   Sono d’accordo sulla diagnosi: il Paese è letteralmente allo sfascio e lo si percepisce intensamente specialmente al livello delle microstrutture, dei servizi pubblici più elementari, nella vita della gente comune di tutti i giorni. Ormai vi è tutta una serie di reati — certamente più spesso, anche se non solo, reati “micro“, ma dall’impatto diretto sulla vita della gente nelle grandi città — che non è più di fatto né perseguita, né sanzionata. Uno per tutti — davvero “micro” ma assai urtante, che mi permetto di aggiungere all’elenco dei mali che Ernesto Galli della Loggia denuncia —: ormai a Roma — ma penso che sia lo stesso anche altrove —, non solo i muri sono protervamente e ripetutamente imbrattati con scritte e graffiti assurdi — ah, i bei tempi de “lo Stato borghese si abbatte, non si cambia”… — fatti con la vernice spray, ma non vi è palo della luce, casellario postale esterno, stipite di cancello, centralina dei telefoni o della luce, chiosco, portone, che non venga di continuo letteralmente ricoperto da decine di etichette adesive di artigiani, traslochisti, manovali, corrieri, in piena violazione delle norme sull’affissione abusiva. E l’immagine di città impecettata della Capitale che se ne ricava non è certo delle più eleganti ed edificanti… Possibile che nessuno controlli le tipografie? E persegua chi propaganda i suoi servizi in quella discutibile forma? Certo chi vive nel Palazzo forse non se ne accorge, ma chi vive in quartiere e conserva un minimo di dignità se ne accorge, eccome, e ne soffre…

   Non sono d’accordo invece sulle cause. Il processo di disgregazione che Galli della Loggia avverte non è solo frutto di una carenza di peso dello Stato. Anzi, lo Stato, tanto lo Stato centrale, quanto le sue articolazioni territoriali senza dimenticare il "peso" indiretto di Bruxelles , in certe aree della vita della nazione pesa molto più di prima: basti pensare al fisco, ai controlli sulle transazioni economiche, agli standard educativi, alla produzione legislativa.

   Il problema è che proprio dagli anni Settanta — o dal Sessantotto, culmine vessillare della Rivoluzione nelle tendenze, che anche Galli della Loggia assume come terminus a quo —, è nella società — e non per colpa di quel decentramento che è stato fatto passare come federalismo — che si allentano il senso identitario e i vincoli di coesistenza collettiva, sotto il soffio del vento gelido dell’individualismo e del relativismo, del secolarismo e dell’edonismo, diffusi da un liberalismo liberal che forse Ernesto Galli della Loggia non ama, ma che è quello che esiste e agisce ai nostri giorni. Non è lo Stato che è assente a livello delle microstrutture: è l’autorità, l’autorità informale — gli anziani verso i giovani, i padri verso i figli, i preti verso il gregge: quell'autorità che la sociologia tradizionale chiamava “autorità naturale”, quell’autorità invisibile e diffusa che un tempo bastava far cadere in terra per strada una cartaccia per sentirla scattare con i suoi rimbrotti... — che è stata erosa sotto la spinta dell’auto-referenzialità dell'individuo, del venir meno del senso religioso, della morale “fai da te”, continuamente espro-priata dallo Stato centrale.

   E, ancora, lo Stato, anch’esso influenzato da questo solvente, si è come ritirato, messo in disarmo, nelle funzioni che per diritto — e dovere — gli competono, ossia incarnare l’autorità, combattere la criminalità, mantenere l’ordine, sussidiare le società di ordine inferiore.

   Non dimentichiamo che lo Stato odierno non è lo Stato tout court, lo Stato che si studia nei manuali di diritto costituzionale e di scienza politica, ma l’ultima versione dello Stato moderno, cioè del regime — più o meno — misto frutto delle degenerazioni dei vari regimi politici: il dispotismo (opposto della monarchia), l’oligarchia (opposto di aristocrazia) e la demagogia (la corruzione della democrazia). Se questo mix ha toccato il suo vertice nel totalitarismo comunista — il Partito dominava lo Stato e lo Stato la società , anche la "democrazia totalitaria" (Jacob Talmon) moderna, amorale e relativistica, ne è in buona misura un esempio. Quindi, rivendicarne l’empowerment significa auspicare una ulteriore dilatazione del monstrum burocratico e impersonale costruito nei secoli a partire dall’assolutismo rinascimentale e sei-settecentesco. Cioè uno Stato che nel terzo millennio cristiano preferisce concentrarsi sulla promozione autoritaria di pseudo-diritti civili ed è diventato sempre più ipertrofico specialmente nelle funzioni attraverso cui la sua megastruttura — oltre 3milioni e 400 mila dipendenti — può autoperpetuarsi e cioè la leva fiscale, i proventi della presenza pubblica nell’e-conomia e il monopolio dell’educazione nazionale.

   Ora, se si imboccasse il percorso inverso, cioè se lo Stato tornasse forte nelle funzioni basilari e abbandonasse quelle che si è autoattribuite sempre più arbitrariamente e arrogantemente nel corso della storia, il suo peso decre-scerebbe e lo sfascio forse rallenterebbe.

Senza dimenticare che gran parte dello sfascio diagnosticato è frutto della disgregazione tenacemente perseguito e più volte denunciato dai vescovi della famiglia italiana. Certo non è con leggi come il divorzio e il divorzio sprint, né banalizzando il matrimonio, facendone un “diritto per tutti” — marriage pour tous —, né perpetuando l’assurdo non intervento dello Stato a sostegno delle famiglie numerose e bisognose, che si rallenta questa disgregazione. Certo non è favorendo il clima di ostilità verso i legami stabili e perpetui e contro la natalità che si rimedia ai mali denunciati. E mi pare che Galli della Loggia, come tutti i liberali “che si rispettano”, non eccepisca granché né in materia di divorzio, né in tema di unioni civili, né riguardo ai mancati sussidi familiari.

    Se lo sfogo del noto politologo è del tutto comprensibile e condivisibile, se la sua ansia per le sorti declinanti del Paese è del tutto apprezzabile, non si capisce come la sua analisi non veda letteralmente questo rapporto causa-effetto fra ideologia progressista, ancorché soft, e i fenomeni di degrado, né che non si accorga che per rifare una società decente, non basta uno Stato efficiente — tanto più uno Stato burocratico e, in tesi, areligioso e amorale come quello moderno —, ma il ricupero del senso comune e della solidarietà fra concives. Se, per assurdo, con un colpo di bacchetta magica, si realizzasse uno Stato come quello che Galli della Loggia auspica — assai simile allo Stato liberale elitario post-unitario, quindi a uno Stato moderno a uno stadio di sviluppo ancora “semi-infantile” —, cambierebbe davvero il modo di stare insieme di una moltitudine spappolata che è l’Italia di oggi, così simile a quella società “di massa”, che Pio XII additò come modello negativo di popolo già negli anni 1940, o alla società “a coriandoli” evocata da Giuseppe De Rita? 
   Il rapporto armonioso fra Stato e società si ottiene solo ridimensionando e rettificando il primo e rivitalizzando moralmente e, quindi, responsabilizzando, la seconda e chi ne fa parte. Ma questo si consegue solo cambiando le mentalità, il modo di pensare e, prima di tutto, riportando le tendenze, il desiderio di libertà, individuali entro limiti “fisiologici” e quadri ordinati. Se si vuole un'Italia nuova e diversa, occorre prima eliminarne le storture introdottevi da una malintesa nozione di progresso.

Archivio blog