mercoledì 6 dicembre 2006



Una insolita
"grazia"

Il presidente degl’italiani dà nuove conferme di un dinamismo — non lo chiamo apposta “protagonismo” — che pare andare alquanto sopra le righe. Certo, l’incolore scenario della politica odierna, pieno di nani e ballerine, agevola o rende più visibile l’agire di persone di statura politica — e il nostro è un politico navigato, di lungo corso, anzi non ha fatto mai altro che la politica — rilevante. Quindi Napolitano ha gioco facile nell’occupare la scena e, scivolando fra maglia e maglia della ormai obsoleta trama costituzionale nell’auto-ritagliarsi un ruolo di stimolatore del governo e del parlamento. In particolare, in questo frangente il presidente pare aver “indossato” le vesti di discreto regista del rilancio del tema della legalizzazione dell’eutanasia.
Due sono i casi riportati dalle cronache che mi autorizzano a questa valutazione. Il primo l’ormai famosa lettera sul caso di Piergiorgio Welby, che ha scatenato una campagna sempre più furibonda perché non solo qualcuno sia autorizzato a esaudire le sue richieste e a ucciderlo ma anche che ciò avvenga in virtù di un provvedimento di legge. L’altro la grazia concessa al medico romano che ha ucciso — con una revolverata, non staccandogli la spina — il figlio di 39 anni gravemente handicappato. Una grazia che viene a soli tre anni dal delitto e mentre l’autore, per le sue condizioni fisiche, è oggi in libertà.
Le considerazioni sarebbero molte e sulla materia sulla quale Napolitano interviene, sulla liceità costituzionale dei suoi interventi e, infine, sulla cultura non solo politica che Napolitano esprime significativamente.

Sulla prima, è scontato — ma non per i cinquecento militanti radicali, Sofri compreso, in sciopero della fame — che il caso singolo merita attenzione e pietà, ma la sua soluzione non può venire da un magistrato né da un’assemblea politica, ma da chi lo assiste: familiari e medici in prima linea. Se si appurasse che il caso cade sotto la voce “accanimento terapeutico” — ma chi ne è autorizzato? e oggi manca una definizione universalmente accettata del termine; Welby poi non è in coma irreversibile: è vigile, pensa, fa scrivere, anche se ha dolori enormi —, allora avrebbe senso spegnere le apparecchiature — ma sono meccanismi sproporzionati? — e lasciar morire in pace il malato. Altrimenti la volontà di finire del medesimo non dovrebbe avere alcun peso e considerazione.
Chiederne poi l’uccisione come effetto di una legge in materia, come fanno i radicali, è puro sciacallaggio politico: essendo la legge per sua natura erga omnes, il problema non è Welby, ma introdurre la legalizzazione dell’eutanasia.

Con tutte le conseguenze del caso: investire un organo dello Stato del riconoscimento di questo presunto diritto, anche se fatto in prospettiva inizialmente “liberale”, cioè di auto-determinazione, apre inevitabilmente a scenari in cui lo Stato — chi può controllare lo Stato moderno, anche se questo assume forme democratiche e non è un totalitarismo alla Hitler? — può diventare il vero giudice e padrone della vita.


E poi, ancora, una volta riconosciuto il diritto di auto-determinazione al singolo fino al punto di riconoscergli il diritto all’omicidio-suicidio, perché negargli altri diritti, frutto anch’essi di auto-determinazione? per esempio il diritto a rapporti pedofili? Quanto sta accadendo nella “civile” Olanda parla da sé, anzi grida a gran voce.


La prospettiva è da incubo orwelliano: una completa “dis-società”, in cui tutto è lecito a tutto perché lo garantisce lo Stato con le sue leggi: quindi l’esproprio dal diritto dalle cose e la sua totale riduzione al dettato della legge è totale. Una volta spogliatisi dei diritti umani in nome della loro tutela da parte di un’entità anonima e “totipotente” come lo Stato moderno non li si ricupererà più, ma saremo in balia di chi fa e modifica le leggi, anche quelle che vanno a toccare la sfera individuale o addirittura la biosfera e l’autore di ciò in democrazia può essere chiunque.

Napolitano, persona intelligente e dotato del “senno” che l’età dovrebbe conferirgli, non può non vedere queste tentate violazioni del diritto e del senso comune e i rischi di contraccolpi che esse presentano.
Perché allora si schiera a favore? Perché, soprattutto, dopo le domande di operare insieme rivolte al Papa e al cardinale di Napoli Sepe?
E qui inizierebbe il discorso sulla cultura post-marxista, su quali sono gl’ideali di quelle forze che un tempo vedevano nella lotta classe e nella società comunista perfetta il sogno della loro vita e la ragione di una militanza strenua e totale. Tramontato il materialismo dialettico è rimasta la dialettica nell’argomentare e il materialismo neo-darwinistico e amorale nella visione della vita, e il collante sono ora quelle idee-forza pre-marxiste, da cui l’impegno per il socialismo era nato: quelle della Rivoluzione francese. Una certa nozione di libertà estremizzata al massimo ad dissolvendum, non tanto spazio forse per la fraternità, ma di certo anche un egualitarismo sfrenato “senza limiti e confini” — quelli che danno una morale naturale a base religiosa —, autentico grimaldello per quella ri-plasmazione — solve et coagula — della società e del mondo dalle radici che era l’antico sogno dei movimenti rivoluzionari moderni — e forse della modernità radicale medesima — studiati da Eric Voegelin.
L’antico impegno a favore del proletariato si è oggi metamorfizzato in battaglie contro l’embrione, per il suicidio, a favore dell’aborto chimico e tante altre. E il ruolo pubblico, di Stato e di governo di tanti, troppi ex marxisti come Napolitano rappresenta un moltiplicatore inimmaginabile per la forza di queste idee. Anche il machiavellismo dell’antica militanza sembra essere rimasto nel Dna di questo personale politico: lo dimostra la geniale idea di “annegare” la grazia al medico romano nella simultanea grazia a un poliziotto reo di aver ucciso un delinquente e che ha fatto all'incirca nove anni di galera: che cosa di più gradito al palato conservatore? e di più efficace per contro-bilanciare l’apertura alla soppressione dell’handicappato? E ci sarebbe anche qualcosa da dire riguardo alla contro-firma dell'atto che ha apposto un cattolico come il ministro della Giustizia Mastella...

Ma, grazie a Dio, la fatica che fanno per avanzare pare indicare che il capitale di senso comune e di grazia spirituale accumulato dal popolo italiano sono ancora grandi e rappresentano forse, a Dio piacendo, un ostacolo invalicabile.

martedì 5 dicembre 2006


E tre! Dopo Romano e Panebianco, nei commenti al corteo della Casa delle Libertà di sabato 2 dicembre nei fondi del Corriere non poteva mancare quello del terzo “big”, del terzo “grosso calibro”, Ernesto Galli della Loggia. E il Leitmotiv è il medesimo: ridimensionare lo straordinario successo di popolo e personale segnato da Silvio Berlusconi e dagli altri leader della Casa delle Libertà.

Che cosa dice in sostanza Galli? Tanto popolo e poche élite in piazza sabato: industriali, intellettuali, artisti — sono queste le élite italiane per Galli — erano assenti o impegnate in contemporanea a negoziare rappresentanza dei propri interessi con Massimo D’Alema a Milano. La Casa delle Libertà infatti non è capace di tessere legami stabili con le classi dirigenti del paese, con la parte più “pesante” e “pensante” della società: il centro-sinistra sì. O almeno ci prova. Il centro-destra, invece, a partire dal 1994 non è stato capace di elaborare una cultura politica nuova — non più cattolica né neo-fascista — in grado di mediare fra le esigenze dei ceti di vertice della piramide sociale e la base popolare, nonostante l’ampia presa almeno elettorale su quest’ultima. E poi — tutti i salmi finiscono in "Gloria": quello delle carenze di Forza Italia è ormai una costante delle analisi galliane — Forza Italia non è un partito ma un contenitore di plastica, una “foglia di fico” che copre la personalità straripante del leader unico e maximo.

Che dire? È vero: la leadership di Silvio Berlusconi è più vicina al modello carismatico e populista, poco ideologizzata, più portata a cercare — e in questo la Tv è impagabile: non conosco i dati Auditel ma credo che gl’italiani davanti al video sabato pomeriggio e quindi presenti “in spirito” al comizio fossero un bel po’ — un rapporto diretto con il popolo.


Tuttavia nel 2001 — e qui Galli commette un errore non di valutazione ma di semplice acquisizione dei fatti, come nel caso degli altri due commentatori, per cui l’argomentazione apparentemente fila, ma è poi indebolita da questa carenza iniziale — di trovare un raccordo con gl’interessi di parte delle lobby, Confindustria in testa, Berlusconi è stato capace: il fatto è che questi settori non hanno ideologia pre-concette e scelgono spregiudicatamente su chi puntare. Per il momento il feeling è con D’Alema e con il governo Prodi, il martello delle corporazioni — di quelle della piccola borghesia e del ceto medio lavoratore, però, non di quelle dei potentati economici —, ma potrebbe rapidamente cambiare direzione… dipende… Parlare di impossibilità strutturale di rappresentare altro che fasce dei ceti medi e popolari, un pulviscolo di individui senza fisionomia e senza “peso” relativo pare francamente miope, ingeneroso e anche malizioso.

L’unico punto sollevato da Galli su cui mi pare si possa discutere è quello dei molti limiti che presenta la forma partitica — almeno del partito maggiore — della rappresentanza politica di questa Italia, riguardo al quale la classica argomentazione dell'emergenza, a distanza di oltre dieci anni dal critico 1993-94, quando tutto un elettorato orfano della Dc, del Psi e dei partitini di centro scelse Berlusconi come unica soluzione in grado di fermare la "gioiosa macchina da guerra" guidata da Achille Occhetto, ormai non tiene più. Così come palesi — anche se non gravi, e nemmeno esclusivi e senz'altro passibili di più di una giustificazione — sono i limiti evidenziati da parte della Casa delle Libertà nei cinque anni di governo, non tanto nella capacità di governare il Paese, quanto di realizzare il mandato riformistico ricevuto.

Ma, anche qui, perché Galli disconosce, non citandoli, i processi di rinnovamento in atto al centro e a destra e le spinte verso un partito unitario, che proprio la piazza, nonostante Casini, ha rivelato possibile?
Perché non menziona le migliaia di circoli della libertà che Forza Italia sta creando in tutta Italia? E la possibilità di una federazione dell’intellettualità di centro-destra con il network di Dell’Utri? Perché non cita il fatto che Alleanza Nazionale sta cambiando pelle per la seconda volta? Certo sono tentativi, e non è detto che riescano, tuttavia sono sintomi che il problema evidenziato da Galli — tanto quello di una rappresentanza non limitata a certe fasce e altresì meno episodica nell’indirizzare le ragioni dei ceti intellettuali e “che contano”, come pure l’elaborazione di una cultura politica più all’altezza del momento — è sentito e oggetto di sforzi di soluzione generosi e assai meno doviziosamente alimentati, che non i circoli e le fondazioni della sinistra.

Queste dimenticanze — non è la prima volta — gettano ombre non lievi — sulle cui origini non entro — sulla “scientificità”, ossia sulla neutralità valutativa, del noto politologo, che si ripercuote — ma forse questo Galli lo sa —, vista la sede in cui sono formulate, in maniera non benefica su chi rappresenta il popolo delle libertà e su questo popolo medesimo.

domenica 3 dicembre 2006


L’ineffabile ex ambasciatore Sergio Romano e grande firma del Corriere non perde colpo nel confermare il nomignolo — mai così indovinato — che da tempo si porta appresso: «cerchiobottista» («un colpo al cerchio, un colpo alla botte», come dice il vecchio adagio).
Il suo fondo di oggi, 3 dicembre, sul quotidiano milanese a commento della grande manifestazione romana della Casa delle Libertà contro il governo Prodi, tenutasi ieri, è davvero esemplare a questo proposito.

Esordisce infatti scaraventando sulla testa dell’ex premier Berlusconi tutta una serie di fallimenti, palesemente a questi non imputabili, perché frutto di processi internazionali e trasversali, letteralmente ingovernabili a livello nazionale e cioè: il modesto tasso di crescita economica dell’Italia (in uno scenario di forte recessione internazionale e di guerra «asimmetrica» come quello post 11 settembre 2001); la mancata abolizione degli ordini professionali come carente attuazione della libertà proclamata ai quattro venti (come se abolire le ultime vestigia di auto-governo di corpi sociali fosse qualcosa di libertario); la mancata riduzione della presenza dello Stato nell’economia (come se a creare lo strapotere delle grandi corporazioni industriali e finanziarie, da un lato, e di Epifani & Co., dall’altro, fosse colpa sua, del Cavaliere); infine, di non aver riformato le pensioni e di aver scaricato gli anziani sulle spalle di tanti giovani che lavorano (come se fosse una cosa che si potesse chiudere in cinque anni e nel ginepraio creato dai troppi poteri reali — Berlusconi godeva solo di quello esecutivo, non dimentichiamolo — in mano all’opposizione a livello centrale e locale).

Ma poi, come sempre la marcia indietro, che però è una marcia indietro, come di solito, parziale e un po’ furbetta, che non serve a far uscire il malcapitato dal cumulo di detriti sotto cui lo ha appena seppellito…
Soprattutto quando paragona le incompatibilità strutturali che affliggono le componenti del governo Prodi alle malaccorte rivalità di sfumature identitarie che talvolta, soprattutto nell’imminenza delle elezioni — e non all’inizio della legislatura, caro Romano —, hanno agitato la Casa delle Libertà.
E, ancora, quando accusa l’ex Presidente del Consiglio di aver occupato la legislatura precedente a creare leggi fatte approvare solo per proteggersi dalla magistratura (come se questo non fosse accaduto prima e ancora durante la legislatura di centro-destra, e le leggi non fossero erga omnes, sfruttabili cioè un domani anche dall’allora opposizione e non avesse dimostrato di aver avuto anche intuizioni sbagliate, quando in scorcio di legislatura fece approvare quella riforma elettorale, che ha determinato la vittoria di Prodi).

Ma poi il pendolo risale ancora: la manifestazione è stato un successo e il governo in carica deve tenerne conto… Un governo, fra l’altro, che dà «un pessimo spettacolo» di sé, che «non fa nulla per riformare il paese», ed è destinato a «scontentare» anche i suoi elettori. Ed elogia Berlusconi, questo «attraente “tribuno della plebe”», perché riesce a smarcarsi dal disgusto che gl’italiani mostrano in generale per l’intera classe politica, attraverso una comunicazione magistrale…

Infine, dopo tanti colpi al cerchio, l’ultima martellata alla botte: Berlusconi ha fatto un grande — pro domo sua, naturalmente — intervento, ma non ha mai citato l’Europa e la globalizzazione, che incombono drammaticamente, perché intenzionato solo a «lusingare la folla, […] sfruttare le sue paure e […] alimentare i suoi pregiudizi».
Fermo restando che in un comizio non si fanno analisi ricercate — comunque l’intervento successivo, quello di Gianfranco Fini, è sembrato più articolato e soddisfacente anche da questo punto di vista —, come può Romano non vedere nel centro-destra l’unica chance, non certo per bloccare ma per affrontare e articolare, attutendolo, l’impatto di queste due tremende pressioni? L’alternativa sarebbe Prodi, il grand commis di Bruxelles e dei potentati economici mondiali, cui forse il solo il «banchiere d’affari» D’Alema può tenere colpo? Ci sono cinque anni di fatti che parlano a favore di questa linea di ammortizzazione…

E poi in fatto di omissioni, perché Romano ha ignorato che oltre a Berlusconi ha parlato anche Fini, il quale ha magistralmente incalzato il governo, non a base di slogan e domande retoriche «da tribuno», ma snocciolando fatti e formulando giudizi taglienti come rasoi sul governo di sinistra-centro, presieduto — quousque? — dal professore bolognese? Forse perché crede che Fini non conti un bel nulla rispetto al Cavaliere? Oppure perché è più facile fare le bucce a chi dice cose vere in uno stile senz’altro tendente al populistico, che non a chi argomenta da politico di razza?

Il «gran commentatore» Romano pare in ultima analisi afflitto da una sindrome che fa sì che la mole dell’informazione e l’erudizione che egli possiede in maniera non comune, pesino su di lui fino a scatenare effetti inversamente proporzionali al loro momento e cioè creino in lui una specie di blocco o, quanto meno, una spessa ostruzione a un giudizio davvero equilibrato — che non vuol dire «cerchiobottista» — nei confronti della realtà fattuale…

E in questo si conferma il commentatore «giusto» al posto giusto, ossia quanto meglio esista per reggere la consueta linea cripto-sinistrorsa del board del suo giornale.

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