giovedì 14 dicembre 2006

L'on. Barbara Pollastrini
I Pacs... inquietano


L’infuocato dibattito sui Patti Civili di Solidarietà, i cosiddetti Pacs, sta per sfociare in un disegno di legge in fase di avanzata gestazione a cura della ministra per le Pari Opportunità on. Barbara Pollastrini dei Ds e di cui pare sia testa pensante il giurista Stefano Ceccanti, straordinario di Diritto Costituzionale all’Università di Roma Sapienza, già presidente della Federazione Universitaria Cattolica Italiana e ora capo dell’Ufficio Legislativo della medesima “ministra” —come, coerentemente, la Pollastrini ha inteso denominarsi.

Fermo restando che il rilievo e l’urgenza di un tale provvedimento paiono molto più frutto di pressioni di lobby organizzate che non di genuine e drammatiche esigenze sociali e che queste lobby si riducano alla lobby omosessualista, per la quale il riconoscimento legale di forme di convivenza è solo l’anticamera per il pieno diritto al matrimonio, la cosa non sembra presentare il fianco a rilievi di carattere morale. Esistono situazioni particolari in cui, per svariate ragioni, prime fra tutte quelle la solitudine, soprattutto fra gli anziani, e la povertà, ad alcuni si rende necessario di convivere sotto lo stesso tetto e tali situazioni possono aver bisogno di un sostegno da parte della pubblica autorità.


Quello che è dubbio è in primis che per coprire queste realtà occorra una legge ad hoc, ma in secundis, ed è la cosa a mio avviso più importante, che si sono forse mal esplorate le conseguenze di lungo periodo dell’introduzione di patti civili non più privati, ma muniti di un riconoscimento pubblico.

Tentare di regolamentare quindi di dare un assetto stabile e duraturo a determinate forme di unione per definizione transeunti e provvisorie pare alquanto contraddittorio, meno nel caso di unioni a fini economici o fra congiunti, ma senz’altro di più quando queste unione implichino o si fondino su affetto o esercizio della sessualità. In questo secondo caso, la scelta dell’unione di fatto e non del matrimonio civile o religioso-civile ha senso solo e proprio perché risolvibile a piacere, senza alcuna interessenza o interferenza dell’autorità. Dunque regolamentare l’effimero pare un non sense e un onere gratuito, la cui invocazione pare rientrare in quella logica della società ludica, dove ha cittadinanza ogni desiderio patologico o fisiologico che sia, verso cui ci siamo abbondantemente avviati. Soprattutto nel caso nelle coppie omosessuali, dove il libertinaggio o l’occasionalità dei rapporti assume forme parossistiche e dove la rottura di rapporti affettivi con intento di stabilità è strutturalmente assai alta.

Ma oltre a ciò il Pacs crea una modalità istituzionale alternativa rispetto al regime che privilegia l’unione di tipo matrimoniale. Già questa istituzione è stata fortemente indebolita dall’introduzione, nel 1970, del divorzio, che ha reso possibile sciogliere il legame matrimoniale e con modalità sempre più accelerate grazie alle leggi approvate negli anni successivi. Fino al punto che si tende sempre più a considerare il matrimonio come una forma di convivenza temporanea, pur sempre a revoca, ma comunque almeno in tesi di lunga durata e non poco impegnativa per i coniugi. Tuttavia, nonostante questa carenza di fondo ora presente il matrimonio monogamico ed eterosessuale è comunque per la legge italiana l’istituto unico per le unioni fra persone con finalità di generazione.
Ora, ammettere forme alternative non è, come anche alcuni ben orientati ammettono, una cosa destinata a non incidere sull’istituto principale e “normale” ma ha delle conseguenze che, ripeto, forse non sono sufficientemente chiare. In primo luogo nella formazione del consenso il matrimonio perde di peso: è una forma destinata a tramontare in questo clima morale, soprattutto giovanile — e le unioni a sfondo affettivo di norma hanno i giovani come protagonisti —, che rifugge sempre più dall’impegno e dallo stabilimento di rapporti di lungo periodo e in tesi definitivi, a vita. Per chi non vuole impegnarsi non c’è più la libertà senza rete, senza i privilegi che la legge conferisce la matrimonio ma un’altra forma anche se minore di sostegno, revocabile a piacimento. E questo non è davvero reso più pericoloso se dei Pacs fruiranno le coppie omosessuali, che sono tuttora una infima minoranza, ma proprio se diventerà una forma “assistita” all’interno della quale verranno formate famiglie nelle quali verranno al mondo dei figli. Che cosa accadrà del “prodotto” di queste unioni effimere, anche se assistite? Patti che possono essere stretti e sciolti e poi riformati in un numero che oggi non è dato di sapere… In assenza di vincoli al numero dei rapporti e alla loro risoluzione e, quindi, allo sfascio delle famiglie “di fatto” assistite crescerà il numero di figli senza padre o senza madre e si moltiplicherà la convivenza di figli con genitori (quanti?) che non solo i loro, con conseguenze intuibili e drammaticamente documentate dalle cronache. Il divorzio già ora genera in maniera allarmante questi effetti. Ma che cosa accadrà quando ci saranno centinaia di unioni dove il divorzio è nelle premesse stesse? E i costi sociali di questa “assistenza”, quelli previ per assistere e quelli ex post, quando occorrerà intervenire nel disordine sociale che si creerà?

Quello che il “laboratorio” dell’elegantissima e affascinante ex sessantottina — e ora moglie di un ricco banchiere —, nonché mia concittadina, ministra diessina, già illustratasi per la feroce opposizione sua e del suo partito alla legge 40 sulla fecondazione assistita, sta confezionando insieme con il cattolico ex fucino Ceccanti, più che una sanatoria di fronte a “casi pietosi”, pare l’ennesima legge volta a dare riconoscimento — e fondi pubblici — all’ennesima espressione della teoria dei bisogni e dei desideri — nei suoi riflessi sulla vita nascente, sull’amore, sulla morte — che è diventata l’ultimo fronte sul quale, abbandonata la lotta di classe e il “proletariato in lotta”, la cultura post-marxista e le sue piattaforme politiche odierne — e il “soldato Barbara”, dal look alto-borghese e perennemente fasciata nelle sue uniformi “firmate”, che ne fa parte, si schiera coerentemente — si sono attestate.

Certo, sulla questione Pacs, come ricordano in molti — fra gli ultimi proprio sul Corriere di oggi 14 dicembre 2006 il cardinale di Bologna, Carlo Caffarra —, occorre tenere un atteggiamento pragmatico e non ideologico: ma, se questo atteggiamento deve essere fatto proprio di tutti coloro che se ne occupano, ciò compete in primo luogo a chi dispone oggi di mezzi, quelli legislativi, per creare o impedire ulteriori mali. Se costoro — soprattutto chi è o dovrebbe essere estraneo alla cultura post-marxista come Ceccanti — rifletteranno su che cosa comporterà per molti la soddisfazione alle presunte esigenze di pochi — anzi, di pochissimi — forse sarà possibile davvero sanare in concreto le situazioni realmente dolenti che interpellano tutti.
Vita da cani
in Cina?

Il Corriere della Sera di oggi 14 dicembre 2006 riporta che in Cina è stata abolita la legge che prescriveva l’«abbattimento selettivo» di alcune specie di cani per limitarne il numero. La causa sarebbe stata l’estesa protesta popolare promossa da alcuni gruppi «animalisti», una protesta naturalmente non pubblica ma fatta filtrare all’interno delle stanze del potere attraverso i consueti canali informali. Come si sa in Cina non esiste espressione pubblica della volontà della società in quanto sono assenti forme politiche democratiche.

Resta invece in pieno vigore il divieto per le famiglie cinesi di mettere al mondo più di un figlio, divieto attenuato nelle campagne dal permesso di un secondo nato qualora il primogenito sia di sesso femminile. Esiste ormai tutta una letteratura che racconta quali siano le conseguenze di questa proibizione: aborto coatto, infanticidio, perdita del lavoro, violenze, ricatti, corruzione. Solo i «nuovi ricchi» delle grandi metropoli cinesi sono in grado di aggirarlo, anzi fanno di questo escamotage una sorta di status symbol, perché sono i soli in grado di pagare le multe elevatissime previste in caso d’infrazione e gli unici a poter assicurare comunque un futuro economico al «nato in soprannumero», il quale, altrimenti, sarebbe un cittadino di serie B.

Dunque il regime comunista cinese antepone al diritto alla vita dell’uomo quello di un animale. E torna ancora spontanea la domanda a chi così si è di recente espresso, il nostro ministro degli Esteri: ma un paese come la Cina che ha questa visione dei diritti umani è un paese «normale»?

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