giovedì 4 aprile 2013


DESTRA E DESTRA LIBERALE: 
PER FAVORE NON CONFONDIAMO



 

Sul Corriere della Sera di oggi Angelo Panebianco lamenta l’eccessiva fragilità che affligge la cultura politica dell’attuale destra italiana. E continua sottolineando come essa non si faccia paladina di una maggior difesa dell’istituto della proprietà privata, già gravata di troppi limiti nella carta costituzionale ed esposta, quindi, all’arbitrio delle maggioranze parlamentari e dei governi.
   E fin qui ci siamo. Una destra troppo “sociale” sarebbe una vera destra? Direi di no…
Ma, ahimè, l’argomentazione del noto — e non di rado eccellente — politologo è viziata da un equivoco di fondo: tutte le carenze che imputa alla destra sono carenze di liberalismo. Per lui la destra si riduce tout court alla destra liberale. La quale si distingue certamente dalla sinistra per molti aspetti, uno dei quali è proprio quello dell’uso sociale della proprietà, spesso, per via legislativa o fiscale, ampliato a dismisura. Ma si distingue e si contrappone anche al conservatorismo che della destra è l’espressione più genuina. Non che la destra liberale e la destra autentica non abbiano punti in comune. Molte delle libertà rivendicate dal liberalismo “non liberal”, non radicale, non “alla Scalfari”, per intenderci, fanno parte anche del patrimonio — o, come si dice oggi, del Dna — del conservatorismo, tuttavia (a) non sono tutte le stesse e (b) non sempre sono intese nello stesso modo nelle due ottiche.
La lotta contro lo Stato-Moloch e la difesa dell’autonomia del privato è certo una battaglia squisitamente conservatrice, però il conservatore non rivendica solo la libertà individuale, ma libertà dell’individuo “complesso”, visto inscindibilmente inserito in corpi di cui naturalmente fa parte, e libertà dei corpi medesimi. In primis della famiglia, nei confronti della quale il liberale non si rende conto di quanto le libertà individuali, se fraintese e dilatate oltre misura — per esempio, l’apertura indiscriminata dei punti-vendita, il gioco d’azzardo, la prostituzione non disciplinata, il divorzio, l’aborto, ecc. — o anche solo equiparate a quelle lecite e irrinunciabili — autodifesa, fiscalità giusta, diritto-dovere di procreare, libertà d’impresa e di religione — possono agire come dei terribili solventi e veleni.
Vorrei — ho l’ardire di — dire a Panebianco: la destra, se è vera destra e non un pateracchio ideologico, è tutto fuor che liberale. Se vi sono punti di contatto fra destra e liberalismo e storicamente è esistito ed esiste una destra liberale; ancora: se è meglio la destra del liberalismo alla sinistra liberale o al socialismo, non è per questo lecito confondere due realtà dissimili e in certa misura antitetiche.
Noi conservatori italiani e, ipso facto, conservatori cattolici, per inciso, non possiamo dimenticare quanto il nostro liberalismo ottocentesco, figlio indiretto della ghigliottina del 1793 e schiavo diretto della visione panstatalistica hegeliana, ha distrutto del capitale di virtù sociali accumulate nella nostra Penisola in secoli e secoli di ordine civile illuminato dal diritto naturale e animato dal cristianesimo.
Non dico che bisogna fare la guerra al liberalismo indiscriminatamente — eventualmente solo a quella sua deriva “giacobina” e borghese che si riflette sulle colonne de la Repubblica —, anzi si deve cercare la massima collaborazione con quelle frange liberali più “illuminate”, cioè più “aggredite dalla realtà” — che hanno capito cioè con l’acqua sporca del bagnetto si sta gettando via o spesso si è stati in procinto di gettare via anche il proverbiale bambino —, più sensibili al richiamo dei princìpi naturali e non ostili pregiudizialmente alla presenza del dato religioso nella sfera pubblica.
Ma, per favore, smettiamo di confondere le cose:  non lo dico specificamente a Panebianco, ma a tutti i numerosi personaggi che, con maggior o minor grazia o lucidità, millantano la medesima falsa equazione destra-liberalismo. Destra è conservazione, in tutta la dinamica possibile — e misconosciuta — del termine. Destra è lotta contro lo Stato onnipotente e per la proprietà privata e per i diritti naturali, ma è anche difesa delle comunità naturali non solo dallo Stato ma anche dagli egoismi privati, peggio se corporati e potenti.
Il primo dei postulati che distingue la destra da altro è proprio il primato della verità sulla libertà e il rispetto, specialmente in tempi in cui il cosmo semanticoper usare una felice espressione del precedente pontefice Benedetto XVI è altamente corrotto e confuso sistematico della verità del linguaggio.




mercoledì 3 aprile 2013


ABORTO
"ALLA CINESE"

Ha fatto il giro del mondo la fotografia del bambino di sette mesi abortito forzatamente in Cina. Quasi tutti gli organi mediatici italiani, a esclusione de il Foglio diretto dal deciso antiabortista Giuliano Ferrara, ne hanno presentato l’immagine — immessa in Internet dal padre — velata, in modo tale che non si riconoscessero le fattezze, per di più quasi simili a quelle di un neonato, di una vittima di un aborto, cioè di un piccolo d’uomo ammazzato e sfigurato dalla sofferenza, gettato su di un tavolo.

Il fatto, anche se non nuovo in assoluto — ricordiamo la fotografia di qualche anno addietro di un neonato nudo gettato in un rigagnolo lungo un marciapiede nell’indifferenza dei passanti? —, risveglia riflessioni assai poco “gaudiose”.

Parto da quest’ultimo dato: la velatura della realtà. Perché chi legge o guarda non dovrebbe vedere con i suoi occhi in che cosa consiste un aborto? Forse per timore che l’immagine sia vista dai piccoli? Certo. O forse — e credo sia la cosa più probabile — perché capire ictu oculi  che l’aborto è uccisione sanguinosa di un essere umano innocente potrebbe mettere in crisi tante filosofie, e teologie, e prassi liberatorie in cerca di una legittimazione legale, anzi di una sempre maggiore estensione dello status di legalità già raggiunto?

Poi, il settimo mese: anche i Paesi più “avanzati” nella liberalizzazione della pratica abortista pongono dei limiti temporali all’uccisione, nella erronea convinzione che dopo una certa data non si tratti più di “grumi di materiale organico” ma di un bambino. In Cina no: è talmente importante che una vita non veda la luce che è lecito uccidere fino al tempo in cui un bambino potrebbe quasi certamente sempre vivere al di fuori del grembo della madre. Sarebbe fra l’altro bello capire se si tratta di vere e proprie leggi oppure di regolamenti sanitari o di polizia, non dimenticando che fior di giuristi italiani stanno da anni collaborando con il governo comunista di Pechino per dare una forma all’apparato legislativo della Repubblica cinese, non curandosi di che cosa disciplinino tali leggi.

Ma gli aspetti tragici e sconvolgenti della vicenda non sono finiti: l’aborto di una creatura umana con tanto di padre e di madre è stato un aborto obbligato. Se la madre non avesse acconsentito, sarebbero scattate sanzioni gravi, cioè una “contravvenzione” di oltre tremila euro che in Cina equivalgono, non so a quanti, ma di certo a molti stipendi. E questo credo sia il punto più gravido di riflessioni e di moniti. In un Paese a regime totalitario come la Cina comunista lo Stato ha il potere di decidere se si deve vivere o meno, chi è padre o madre non ha diritto alcuno sulla prole. Questo smentisce radicalmente, fra l’altro, la tesi che la Cina abbia rinunciato al socialismo: se è vero che forme di proprietà privata dei beni sono state introdotte, quella sui “prodotti” del concepimento letteralmente non esiste. Per poter procreare occorre il permesso dello Stato e l’eventuale figlio non è di pertinenza di chi l’ha messo al mondo —o in cantiere — ma della collettività. Più collettivismo di questo… E pensare che il comunismo si è proposto per secoli come difensore del proletariato, ovvero di coloro che non possedevano nulla al di fuori della propria prole! Il partito dei proletari si appropria anche della prole!

Non dimentichiamo quindi che il fatto che è divenuto noto all’opinione pubblica occidentale non è un fatto isolato, ma solo una delle migliaia e migliaia di casi di aborto coatto in stadio avanzato di gestazione che si registrano. E non dimentichiamo neppure che in Cina esiste una taglia sulle madri al secondo figlio: è prassi normale che chi le denuncia gode di un premio da parte delle autorità.

La Repubblica popolare cinese, abortista e, con l’incentivo della delazione, distruttrice della concordia civile, si rivela dunque nel secondo decennio del terzo millennio cristiano quello che è stata dal suo inizio nel 1949 a oggi: un regime onnipotente e omicida di massa, dove lo Stato ha potere su tutto e il Partito Comunista Cinese, un’associazione nominalmente privata che però gode di potere assoluto sullo Stato,  ha la totale facoltà di decidere il destino degli uomini da ancora prima che nascano.

Mi torna in mente, concludendo, quello che si diceva ai tempi della introduzione della legge 194 del 1978 che ha introdotto la libertà e il finanziamento pubblico dell’aborto in Italia: se permettiamo che abortire, anche sotto ben determinate e gravi condizioni, diventi un diritto, infrangiamo un principio e rompiamo il classico vaso di Pandora. Se smettiamo di dire che l’aborto non è mai lecito, se lo Stato concede alla madre di liberarsi di un figlio concepito, se fra le libertà civili inseriamo anche questo diritto, non solo legittimiamo un comportamento inumano ma ne esponiamo la pratica all’arbitrio. Oggi un governo o un parlamento può ammettere l’aborto sotto limitazioni più o meno pesanti, ma domani può decidere di allargare tali limitazioni o può spingersi fino quasi ad annullarle. O, addirittura — e questo è il caso cinese — se per ipotesi tale governo non è più sottoposto al controllo di istanze più elevate o alla sanzione popolare, se diventa un regime totalitario, una volta trovatasi aperta la strada, potrà trasformare il diritto in obbligo positivo e affidarne la sanzione a uno qualunque degli organi pubblici.

Ecco, la storia conferma il pronostico: entrambe le prassi, quella dilatativa delle condizioni e quella coattiva sono una realtà.

Da noi non esiste il poliziotto con la stella rossa sul berretto che viene a prendere a casa le gestanti “fuorilegge” per portarle in ospedale, né vi sono premi per i delatori. Ma esiste un potere di persuasione sottile, radicalmente ostile alla vita, di cui sono promotrici culture ideologiche e istanze politiche sovranazionali, che crea le “condizioni”, i fattori di condizionamento, perché sempre più spesso la gestante vada da sola “volontariamente” ad abortire in tempi sempre meno precoci.

Che il “caso” cinese valga a monito per chi dalle nostre parti ha ancora qualche limitata possibilità d’influire sulle cattive leggi che esistono e che si vengono formando o modificando: il futuro potrebbe essere non molto dissimile...

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