"ALLA CINESE"
Ha fatto il giro del mondo la
fotografia del bambino di sette mesi abortito forzatamente in Cina. Quasi tutti
gli organi mediatici italiani, a esclusione de il Foglio diretto dal deciso antiabortista Giuliano Ferrara, ne hanno
presentato l’immagine — immessa in Internet dal padre — velata, in modo tale
che non si riconoscessero le fattezze, per di più quasi simili a quelle di un neonato, di una vittima di un aborto, cioè di un
piccolo d’uomo ammazzato e sfigurato dalla sofferenza, gettato su di un tavolo.
Il fatto, anche se non nuovo in
assoluto — ricordiamo la fotografia di qualche anno addietro di un neonato nudo gettato
in un rigagnolo lungo un marciapiede nell’indifferenza dei passanti? —, risveglia
riflessioni assai poco “gaudiose”.
Parto da quest’ultimo dato: la
velatura della realtà. Perché chi legge o guarda non dovrebbe vedere con i suoi
occhi in che cosa consiste un aborto? Forse per timore che l’immagine sia vista
dai piccoli? Certo. O forse — e credo sia la cosa più probabile — perché capire
ictu oculi che l’aborto è uccisione sanguinosa di un essere
umano innocente potrebbe mettere in crisi tante filosofie, e teologie, e prassi
liberatorie in cerca di una legittimazione legale, anzi di una sempre maggiore estensione
dello status di legalità già
raggiunto?
Poi, il settimo mese: anche i
Paesi più “avanzati” nella liberalizzazione della pratica abortista pongono dei
limiti temporali all’uccisione, nella erronea convinzione che dopo una certa
data non si tratti più di “grumi di materiale organico” ma di un bambino. In
Cina no: è talmente importante che una vita non veda la luce che è lecito uccidere
fino al tempo in cui un bambino potrebbe quasi certamente sempre vivere al di
fuori del grembo della madre. Sarebbe fra l’altro bello capire se si tratta di vere
e proprie leggi oppure di regolamenti sanitari o di polizia, non dimenticando
che fior di giuristi italiani stanno da anni collaborando con il governo comunista
di Pechino per dare una forma all’apparato legislativo della Repubblica cinese,
non curandosi di che cosa disciplinino tali leggi.
Ma gli aspetti tragici e sconvolgenti
della vicenda non sono finiti: l’aborto di una creatura umana con tanto di
padre e di madre è stato un aborto obbligato. Se la madre non avesse
acconsentito, sarebbero scattate sanzioni gravi, cioè una “contravvenzione” di
oltre tremila euro che in Cina equivalgono, non so a quanti, ma di certo a molti
stipendi. E questo credo sia il punto più gravido di riflessioni e di moniti.
In un Paese a regime totalitario come la Cina comunista lo Stato ha il potere
di decidere se si deve vivere o meno, chi è padre o madre non ha diritto alcuno
sulla prole. Questo smentisce radicalmente, fra l’altro, la tesi che la Cina
abbia rinunciato al socialismo: se è vero che forme di proprietà privata dei
beni sono state introdotte, quella sui “prodotti” del concepimento letteralmente
non esiste. Per poter procreare occorre il permesso dello Stato e l’eventuale
figlio non è di pertinenza di chi l’ha messo al mondo —o in cantiere — ma della
collettività. Più collettivismo di questo… E pensare che il comunismo si è proposto
per secoli come difensore del proletariato, ovvero di coloro che non possedevano
nulla al di fuori della propria prole! Il partito dei proletari si appropria anche
della prole!
Non dimentichiamo quindi che il
fatto che è divenuto noto all’opinione pubblica occidentale non è un fatto isolato,
ma solo una delle migliaia e migliaia di casi di aborto coatto in stadio
avanzato di gestazione che si registrano. E non dimentichiamo neppure che in
Cina esiste una taglia sulle madri al secondo figlio: è prassi normale che chi le
denuncia gode di un premio da parte delle autorità.
La Repubblica popolare cinese,
abortista e, con l’incentivo della delazione, distruttrice della concordia civile,
si rivela dunque nel secondo decennio del terzo millennio cristiano quello che
è stata dal suo inizio nel 1949 a oggi: un regime onnipotente e omicida di
massa, dove lo Stato ha potere su tutto e il Partito Comunista Cinese, un’associazione
nominalmente privata che però gode di potere assoluto sullo Stato, ha la totale facoltà di decidere il destino
degli uomini da ancora prima che nascano.
Mi torna in mente, concludendo,
quello che si diceva ai tempi della introduzione della legge 194 del 1978 che
ha introdotto la libertà e il finanziamento pubblico dell’aborto in Italia: se
permettiamo che abortire, anche sotto ben determinate e gravi condizioni,
diventi un diritto, infrangiamo un principio e rompiamo il classico vaso di
Pandora. Se smettiamo di dire che l’aborto non è mai lecito, se lo Stato concede
alla madre di liberarsi di un figlio concepito, se fra le libertà civili
inseriamo anche questo diritto, non solo legittimiamo un comportamento inumano
ma ne esponiamo la pratica all’arbitrio. Oggi un governo o un parlamento può
ammettere l’aborto sotto limitazioni più o meno pesanti, ma domani può decidere
di allargare tali limitazioni o può spingersi fino quasi ad annullarle. O,
addirittura — e questo è il caso cinese — se per ipotesi tale governo non è più
sottoposto al controllo di istanze più elevate o alla sanzione popolare, se
diventa un regime totalitario, una volta trovatasi aperta la strada, potrà
trasformare il diritto in obbligo positivo e affidarne la sanzione a uno qualunque
degli organi pubblici.
Ecco, la storia conferma il
pronostico: entrambe le prassi, quella dilatativa delle condizioni e quella coattiva
sono una realtà.
Da noi non esiste il poliziotto
con la stella rossa sul berretto che viene a prendere a casa le gestanti “fuorilegge”
per portarle in ospedale, né vi sono premi per i delatori. Ma esiste un potere di
persuasione sottile, radicalmente ostile alla vita, di cui sono promotrici culture
ideologiche e istanze politiche sovranazionali, che crea le “condizioni”, i
fattori di condizionamento, perché sempre più spesso la gestante vada da sola “volontariamente”
ad abortire in tempi sempre meno precoci.
Che il “caso” cinese valga a
monito per chi dalle nostre parti ha ancora qualche limitata possibilità d’influire
sulle cattive leggi che esistono e che si vengono formando o modificando: il
futuro potrebbe essere non molto dissimile...
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