L’onorevole Silvio Berlusconi, quando vuole effettuare un affondo contro il Partito Democratico e, nel contempo, suscitare l’entusiasmo dei suoi fedeli, sfodera senza timore la parola “comunisti”. Bersani e i suoi, cattolici democratici compresi, non sarebbero altro per lui che la continuazione, sotto mentite spoglie, del vecchio partito comunista, che, con i suoi errori e le sue colpe, con la sua mentalità settaria e la pratica abituale del mendacio, era un tempo l’arcinemico delle destre. È un illuso, Berlusconi, o uno scaltro manipolatore di coscienze che propala a sua volta menzogne per attizzare un odio anticomunista da “guardie bianche” oppure uno che, in qualche misura e forse solo “a naso”, “ci azzecca”?
Forse, le prime due cose, almeno
in parte, sono vere. Però, nella sua argomentazione così tranchant e apparentemente rozza credo vi sia un fondo di verità.
Al di là della filiazione
storica oggettiva da Partito Comunista Italiano a Partito Democratico della
Sinistra, da Democratici di Sinistra a Partito Democratico — che il Cavaliere
cita spesso —, in questa catena di cambiamenti d’identità qualcosa è rimasto,
un substrato esiste ancora di quello che era il vecchio modo di pensare e di
agire dei comunisti “storici”, qualcosa che sopravvive al di là del ricambio di
personale politico, dei programmi, dei riferimenti ideologici e partitici.
Esiste cioè un fil rouge che lega i
comunisti di Berlinguer — prendendolo come esempio — e i “democratici” di
Bersani.
La difficoltà nel rinvenire
questo filo rosso fra postcomunisti e comunisti non dipende solo, a mio avviso,
dall’abilità con la quale i membri del partito postcomunista si travestono — le
differenze non sono poche — da social-democratici europei, ma da un grosso
equivoco culturale dal quale solo pochi studiosi del comunismo — e poco noti,
al di fuori di determinati ambienti del mondo cattolico: li cito più sotto — hanno
messo in guardia.
E l’equivoco consiste nel credere
che comunismo e socialismo sia due realtà coincidenti, credere cioè che il
collettivismo sociale, la società livellata in senso egualitario, la proprietà
dei beni allo Stato, il socialismo “reale” sia la sostanza, l’essenza del comunismo. Ossia
credere che nel marxismo professato dai comunisti a suo tempo il materialismo
dialettico e il materialismo storico, che sfocia nella società senza classi,
siano due aspetti inscindibili. Eliminato, perché crollato e impresentabile, il
socialismo reale dagli obiettivi degli eredi del comunismo, quindi, non avrebbe
più senso parlare di comunismo.
In realtà non è così. E non nel
senso dei progressisti non marxisti, specialmente cattolici, che negli anni
della grande fascinazione marxista, gli anni 1970, sostenevano — e forse ancora
sostengono —, in Europa e in America Latina, di fare a meno della dialettica e
di avvalersi della sola concezione materialistica della storia come mero strumento
di analisi dei “conflitti di classe”. Bensì in senso esattamente opposto: cioè che
l’“essenza” — uso le virgolette proprio perché il marxismo nega che le cose abbiano
una essenza fissa — autentica del marxismo dei comunisti è proprio la
concezione dialettico-materialistica della realtà, mentre la lettura della
storia come lotta di classe ne è una categoria derivata ma non più — per usare
una categoria anch’essa marxista — di una sovrastruttura, un elemento in fin
dei conti accidentale e, in tesi, caduco.
E qual è l’“essenza” della
dialettica marxista? Come noto, la dialettica è il movimento ininterrotto in
cui qualunque concetto che si pone viene di continuo superato dal suo opposto e
da tale superamento nasce un altro concetto che nuovamente si pone e che sarà a
sua volta superato. Nell’accezione marxista tutta la realtà non è altro che
materia in perpetua evoluzione secondo il ritmo triadico tesi-antitesi-sintesi:
ogni epifenomeno della quale — ogni bolla che si forma dal ribollire perpetuo
del metaforico pentolone — esiste nella misura in cui forze oscure ne
promuovono la nascita momentanea, ma subito dopo la riassorbono.
L’accento va posto proprio su
questo termine “superamento”, concetto espresso meglio dal tedesco o Aufhebung,
cioè superamento verso l’alto (auf),
verso l’ulteriore: la logica marxista non concepisce nulla di stabile, di
definito, di perpetuo. Tutto è divenire e perenne mutamento verso stadi
“superiori”. «La tesi della
razionalità di tutto il reale si risolve quindi secondo tutte le regole del
ragionamento hegeliano nell’altra: tutto ciò che esiste è degno di perire», scrive Friedrich Engels
(1820-1895)[1]. E secondo
il Manifesto comunista del 1848, «vengono
quindi travolti tutti i rapporti consolidati, arrugginiti, con il loro codazzo
di rappresentazioni e opinioni da tempo in onore. E tutti i nuovi rapporti
invecchiano prima di potersi strutturare. Tutto ciò che è istituito, tutto ciò
che sta in piedi evapora, tutto ciò che è sacro viene sconsacrato, e gli uomini
sono finalmente costretti a considerare con sobrietà il loro posto nella vita,
i loro rapporti reciproci»[2]. E tutto
ciò che fa da ostacolo, tutto ciò che è antitesi, ogni realtà che non si presta
a divenire sintesi, a questa dialettica incessante va abbattuto, va dissolto.
«Convenzioni, tradizioni sociali,
fedeltà provinciali, patrie, nazioni, proprietà: in una parola tutto ciò che fissa,
tutto ciò che radica, tutto ciò che è durevole o favorisce la stabilità»[3] deve sparire, scrive . Lo sforzo dialettico
di progresso ha come fine di emancipare sistematicamente l’uomo dalle sue
“alienazioni”. E questo vale sul terreno prediletto da Marx, quello
economico-industriale, ma anche e specialmente sul piano delle credenze, della
religione, delle “sovrastrutture”, meno inclini al cambiamento. «Per realizzare un ideale di azione pura,
occorre […] uno stato di
disponibilità pura, una condizione di sradicamento totale. E perché il
proletariato operaio è essenzialmente una classe di “senza radici”, esso è per
eccellenza la classe rivoluzionaria»[4].
«Per sviluppare
una volontà rivoluzionaria totale, che non voglia conservare niente, che non
mantenga niente di conservatore, che voglia trasformare tutto, creare una
società completamente nuova, ci volevano uomini che non avessero rigorosamente
niente, che fossero strettamente spogli di tutto» (Jean
Daujat (1906-1998), Conoscere il
comunismo, trad. it., il Falco, Milano 1979, p. 19).
È dunque pensabile
un marxismo “senza Marx”, un marxismo dove dell’articolata dottrina del filosofo
di Treviri rimane solo il nucleo centrale: la concezione
dialettico-materialistica del reale. Il comunismo o i comunisti — come più
spesso, con estrema concretezza, per evitare la subdola domanda dialettica “sei
anticomunista? sì, ma contro quale
comunismo sei?”, li chiama la dottrina cattolica —, per quanto numerosi, sono infatti
una «[…] setta. Non
dovete pensare — scrive acutamente
nel 1961, quando s’inaugura la “distensione” fra Usa e Urss e la scena è
dominata da John Kennedy e dal “Papa buono”, un vescovo tradizionalista
brasiliano, postosi poi in rotta con Roma —,
infatti, che il comunismo sia solo un
partito politico. Lo è, certamente, e
le sue reti avvolgono in molti paesi migliaia e perfino milioni di uomini e
donne organizzati politicamente, e che servono da nucleo intorno al quale
gravitano altre migliaia di simpatizzanti e di collaboratori. Ma il comunismo è più di questo; è una setta
filosofica, che tende alla conquista di tutto il mondo al suo modo di pensare,
di volere e di essere. Per giungere a questa conquista i comunisti si
organizzano in partito, ma l’irreggimentazione partitica è solo un mezzo,
uno strumento per raggiungere la meta universale. Ciò che anima l’azione della
setta marxista e le dà energia interna, chiarezza di fini, coesione e coerenza è la sua
ideologia»[5]. Il comunismo non è, dunque, un movimento
per la giustizia sociale, per la pace, per le “pari opportunità”, per
l’uguaglianza dei popoli, come si dipingeva nella sua propaganda. Si tratta
invece di un gruppo di uomini, che professano dottrine di sapore gnostico e che
adorano “il divenire per il divenire” e intendono “liberare” l’uomo da tutto ciò
di naturale e di fermo, stabile, duraturo che ne caratterizza la natura e
l’esistenza e che impedisce l’annegamento dell’individuo nel tutto, il singolo uomo
in una umanità indeterminata.
Ciò posto,
possiamo dire che il movimento comunista “storico”, cioè il socialismo marxista
di stampo sovietico — che prende nome dalle assemblee operaie o soviet del periodo precedente al 1917—,
come tale, non c’è più: forse solo a Cuba il modello collettivistico a fatica
resiste. In altri Paesi tuttora ufficialmente comunisti la visione
dialettico-marxista del gruppo dirigente non si coniuga più con il “socialismo reale”,
ma con una qualche economia di mercato controllata, con una sorta di
capitalismo dirigista e illiberale di cui il Partito, attraverso lo Stato, è il
motore e il regista. L’esempio più clamoroso in tema è quello della Repubblica
Popolare Cinese, dove il marxismo-leninismo rimane l’ideologia del gruppo al
potere, ma l’intera politica economica obbedisce a leggi diverse. L’ideologia
di partito ha abbandonato la sfera economica e si è concentrata su quella
politica, ancorché con discrezione, almeno agli occhi esterni. Nei Paesi dove vigono
istituzioni libere il comunismo come tale si è eclissato, non esiste più o
rimane patrimonio di minoranze contestative marginali. Anche in questo caso la
saldatura fra visione dialettica della realtà e socialismo “reale” è caduta.
Ma possiamo
dire che la dialettica sia sparita? No: la dialettica persiste non più come
dottrina ma come forma mentis
ereditaria.
Se
osserviamo quel poco di dottrinale che si può rinvenire nei programmi e nella
linea politica delle forze politiche postcomuniste si vede nitidamente come il
vecchio tour d’esprit relativistico non
è morto, ma solo la sua estrinsecazione ha subìto — in perfetta coerenza
con la “natura” contraddittoria della dottrina del divenire attraverso il superamento
di conflitti e contraddizioni — una metamorfosi. Al proletariato e, più in
generale, a una dottrina precisa e alternativa dell’economia e della società, si
è infatti sostituito qualcosa di diverso, di meno tangibile, un soggetto, o un
insieme di soggetti, nuovo, che oggi incarna la contraddizione, la sfida
all’ordine vigente, all’essere presente, e che diviene la leva per attuare il progetto
di sradicamento totale.
Non che non
importi più loro delle classi umili o delle sparute tute blu restanti: in
questa prospettiva, però, l’autentico soggetto “debole” e, in tesi, rivoluzionario
del terzo millennio cristiano, non sono più gli operai e neanche le donne, come
ai tempi della prima stagione dei diritti civili. Operai e donne sono vecchie “antitesi”,
da usare all’occorrenza. Oggi l’ostacolo allo “sradicamento totale” non è più
visto, come fino a qualche decennio fa, nelle discriminazioni legali della
donna, del figlio illegittimo, del coniuge del matrimonio fallito, della donna incinta
che non vuole divenire madre.
Oggi il polo
dialettico negativo da porre e da superare per progredire è la persistenza — nelle leggi e nel costume — di differenze
del tutto radicali e per i cristiani da difendere, in quanto “non negoziabili”.
Del confine fra la vita e la morte, fra sesso maschile e sesso femminile, fra
umano e subumano o inumano, fra la realtà oggettiva e la sua “costruzione”
soggettiva.
Qui, su
questo fronte poco visibile, su questo discrimine sottile, intorno a queste
materie dove occorre una preparazione non ordinaria, si combatte ai nostri giorni
la battaglia.
Il nemico di
un postcomunismo, contenitore vuoto di una dottrina positiva, non è il borghese
liberal, che su questi punti non fa
opposizione o di essi non fa una questione di principio. E neppure il cattolico
progressista o distratto. Nemico mortale diventa invece chi al drammatico passaggio
di questo estremo limen si oppone:
chi difende la vita innocente, al suo inizio e al suo termine, contro la morte;
chi sottolinea che la diversità e la complementarità sessuale è in re, nel bios; chi pensa che fra uomo e bestia o vegetale esista una
differenza di essenza, di sostanza, di ordine e di qualità — tutti termini “ahimè”
tomistici, ma quanto appropriati! —; che il reale non è una costruzione arbitraria
del singolo: la ragione non può
Per inciso l’odio
profondo per gli uomini di centrodestra di ieri e di oggi non è tanto o solo la
figura esecrata del Cavaliere di Arcore, ma la consapevolezza che nel
centrodestra, fra una maggioranza che su questi punti non ha idee o forse è
anche a favore, vi sono dei grumi, dei noccioli incomprimibili, dei residui che
possono — non è detto
che debbano — tradursi in altrettanti sassolini che s’incastrino negl’ingranaggi
e blocchino la “gioiosa macchina” che porta al “grande sradicamento”.
È questo,
più che legami programmatici o storici, che apparenta il vecchio sogno di
dissoluzione totale che si ritrova nell’ideologia marxista “profonda” al
disperato “negativismo” e all’esasperata battaglia per “diritti civili” dei
postcomunisti e li fa trovare — loro e i loro sindacati: non dimentico che la Cgil ha presentato
un ricorso a Bruxelles contro il troppo elevato numero di medici obiettori di
coscienza contro le pratiche abortive — sempre in prima fila in tutte le
battaglie contro la vita innocente, la libertà di educazione e la famiglia
naturale.
Ecco questo,
credo, è quanto rimane del comunismo nel postcomunismo: non elementi di
dottrina formali, ma una mentalità diffusa,
impalpabile ma dura come il diamante. Per questo si può affermare con
legittimità che l’antica “setta”, come la chiama il vescovo di cui sopra, non è
morta: qui ha rottamato le cose ormai impresentabili, là ha sostituito il
soggetto sul quale “lavorare” con un altro: ma il giro mentale, la logica
basata della dialettica “amico-nemico”, dove tutto ciò che vuole conservare
qualcosa, anche di minimo, che dia origine a una qualunque differenza, ancorché
benefica, diventa il Nemico da odiare e da abbattere, è rimasta identica.
Forse, gli
attuali postcomunisti nemmeno se ne accorgono, è per loro un riflesso
condizionato, un pre-giudizio, qualcosa che viene prima del giudizio di
ragione, ma è così…
E credo che
finché questa impronta ideologica non scomparirà, quando questa radice antica
non sarà tagliata, quando queste forze non cambieranno davvero identità, pur
nelle diversità di accenti, sarà impossibile costruire nella nostra Italia qualcosa
di politico e di civile adeguato al nuovo tempo e destinato a durare.
Quanto quello
che ho detto sia vero lo vedo confermato dal passato recente, ma ancor più lo
vedremo tutti confermato se e qualora il Partito Democratico governerà: se così
andrà — e non me lo
auguro — le prime cose che faranno Bersani e i suoi non sarà di rimboccarsi
le maniche per cercare di raddrizzare la barca di un Paese che sta affondando. Esattamente
come hanno fatto e fanno nelle amministrazioni locali conquistate, a Roma la loro
prima preoccupazione — dopo aver fatto leggi ad personam per mettere definitivamente fuori gioco Silvio Berlusconi
— sarà di buttarsi sui presunti diritti civili e mettere atto la trita agenda fatta di leggi sui “desideri” che “finalmente”
ci equiparerà ai Paesi “più avanzati”: matrimoni omosessuali, adozione gay, eutanasia, manipolazione degli embrioni,
e tutto quanto segue… Hanno ben poco di altro “da vendere” e in queste materie
il rischio di fallire politicamente non è, in fin dei conti, alto come nelle altre...
[1] Friedrich Engels, Ludovico
Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, in K. Marx e Idem, Opere complete, a cura di Luciano Gruppi,
Editori Riuniti, Roma 1971, p. 1.106).
[2] Karl Marx e F. Engels, Manifesto del Partito Comunista,
1848, trad. it. di Lucio Caracciolo, Silvio Berlusconi Editore-liberilibri, Milano-Macerata
1998, in formato Pdf alla pagina , consultata
il 24-3-2013, p. 14.
[3] Jean Ousset (1914-1994),
Marxisme et Révolution, Club du Livre Civique, Parigi 1973, p. 80.
[4] Ibid., p. 81.
[5] Mons. Antonio de Castro Mayer (1904-1991), Le
insidie della setta comunista, in Cristianità,
anno II, n. 6, luglio-agosto 1974, pp. 1-12 (p. 5).
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