lunedì 13 febbraio 2023

 

RASSEGNA CANORA O GALLERIA DEGLI ORRORI?

 

 

Per usare una metafora volutamente sgradevole, ho la sensazione che periodicamente, ogni anno, venga scoperchiato un tombino e gli olezzi della fogna sottostante invadano l’etere comune, ammorbandolo per settimane. Ma non si tratta di manutenzione della rete fognaria, cosa del tutto dignitosa e necessaria, che giustifica in qualche modo l’atto, obbligatorio, di tapparsi il naso.

Alludo invece, come si sarà capito, al festival della canzone italiana che si tiene ogni anno, dal 1951, a Sanremo, in provincia di Imperia, nota località balneare della Riviera Ligure di Ponente.

Nato come rassegna di canzoni popolari nuove, per alimentare il circuito commerciale dei singoli pezzi e la radiodiffusione di musica leggera per decenni è stato fedele alle sue finalità e dominato da un clima di signorilità: i vestiti dei cantanti e della platea, lo sfarzo dell’ambiente, la misura e l’effettiva promozione del bel canto — anche se i testi non hanno mai brillato per elevatezza — tutto contribuiva a dare prestigio e giusta audience alla rassegna canora.

Ma da qualche anno in qua, qualcosa, e di sostanziale, è cambiato: al clima descritto è subentrato un clima di volgarità e di politicizzazione che hanno sfigurato l’aspetto e il senso del festival. Con il pretesto di presentare nuove canzoni, si succedono sulla passerella, e una passerella che ha di fronte sì una platea prossima ma anche una platea remota che conta milioni di visionatori e di ascoltatori che va ben oltre le nostre frontiere, personaggi strampalati, sgangherati, abbigliati — o disabbigliati — nelle fogge più incredibili, mascherati come in un anticipo di Carnevale, che intonano pezzi musicali di qualità via via più scadente e lanciano con frequenza crescente messaggi a sfondo culturale e politico irricevibili tanto per i contenuti esternati quanto per la caratura dei loro portavoce.

Questo, essendo nota la secolare consuetudine degli italiani alle stranezze e agli eccessi dei giorni che precedono la Quaresima, nonché alla tradizione circense che onora l’Italia, non desterebbe troppo clamore. Il problema è che da alcuni anni coloro che si esibiscono sul palcoscenico del teatro Ariston sotto l’occhio delle telecamere si fanno propagandisti ogni forma di trasgressione, ostentando una volgarità via via più sgradevole e provocatoria. Naturalmente le tiritere di chi calca le tavole dell’Ariston non sono mai rivolte, che so, contro chi ha scatenato una guerra a freddo non lontano dai nostri confini, né contro, che so ancora, contro chi accompagna cittadini italiani a farsi ammazzare in Svizzera o ammazza i bambini nel ventre della madre, né contro le loro agende tetre e deliranti dei summit di Davos. No, no, i bersagli sono sempre gli stessi: la Chiesa, la presunta discriminazione degli omosessuali e dei travestiti, i “migranti”, il “fascismo” — uso le virgolette perché sotto questa voce non cadono più Mussolini o Almirante, ma tutto ciò che si oppone al “politicamente corretto”.

Perché ciò accada, perché la televisione di Stato dedichi lungo una settimana, in prima serata e con  una durata di ore, a spettacoli del genere — con una invariabilità allucinante, in un mondo dove tutto cambia un giorno per l’altro — rappresenta un mistero: passano i governi, crollano i muri, si sentono venti di guerra, ma nella televisione statale — la cui esistenza ogni cittadino che non voglia usare le lampade a petrolio deve pagare, anche i vescovi, anche i preti, anche chi non è d’accordo — Sanremo rimane rituale, inattaccabile, inossidabile, quasi simbolo stesso della perennità.

E si tratta ogni anno, ormai, di una settimana di contro-educazione di massa: sì, perché i figuri che si avvicendano sotto i riflettori del circo sanremese saranno visti anche dall’attempata “casalinga” ma non sarà quest’ultima a prenderli a modello, bensì i giovani, migliaia di giovani, nostri figli e nostri nipoti, ai quali ciò che viene proposta — visto il prestigio con cui viene veicolato — parrà la norma, il modello da imitare, il giusto modo di vivere. E, come si sa, le imitazioni sono ahimè anche peggio del­l’originale…

Certo non sarà l’unica occasione in cui ciò avverrà, ma pare che qui si voglia concentrare il tiro, scagliare un missile ad ampio raggio e di grande potenza, con effetti devastanti elevati e immediati.

Se il perché ciò avvenga è, come dicevo, misterioso, meno misterioso è però qual è l’humus di esibizioni così deplorevoli, quali sono le sue loro meno immediate. È un discorso lungo, ma se ne può tracciare quanto meno il filo conduttore.

In primis, la trasgressione nasce da un retroterra dove la decostruzione di ogni asserzione che abbia la minima pretesa di significare qualcosa o, peggio, valoriale è ormai un dogma di fede. Per cui non esiste alcun limite e la creatività artistica non può non tradursi e non ripetersi — mi si passi l’ossìmoro che si pone ­fra “creare” e “ripetere” — in conati di decostruzione morale in forma pseudo-estetica. Se il vero non esiste, non esiste neppure il bello: ciò che importa è presentare ritratti osceni e vuoti, deliri senza senso, simulare ribellioni senza oggetto, difendere fantasmi del passato, fare l’apologia di amori fatti esclusivamente da sesso, meglio se contro natura.

Eppure tutto ciò piace, sempre più attrae, appare ogni giorno di più come il “normale”, il recente, quello che è alla moda: il moderno, in una parola. E il moderno, si sa, “vince”: da secoli a tutti i livelli è il criterio prevalente quando non l’unico criterio per giudicare il reale.

Che lo Stato proponga questa settimana della diseducazione al popolo è scandaloso, ma non sorprende, perché è uno scandalo che si affianca ad altri scandali — basti pensare all’aborto procurato — che lo Stato recepisce e di cui si fa tutore quando non autore. La presenza del presidente della Repubblica — insieme al buffone di corte in carica — all’ultima kermesse è stata come il “bollino blu” sulle banane, il marchio di qualità che lo Stato italiano ha ritenuto di porre su una autentica galleria degli orrori pagata dai cittadini, come su altre.

Ma non si tratta solo dello Stato: che manifestazioni degenerate come l’attuale festival nascano e piacciano è il prodotto di una crisi antropologica, a sua volta esito di un processo pluridecennale di de-moralizzazione specialmente delle generazioni giovani dovuta in gran parte all’abdicazione delle agenzie formative che dovrebbero occuparsi dei singoli e, indirettamente, agire sul tessuto della nazione: la famiglia, la scuola, i mass media, la Chiesa.

Nella famiglia la gerarchia è tramontata e la figura del padre, quando c’è, è ridotta a un simulacro, sì che i figli crescono senza riferimenti “forti” e disorientati; nella scuola di Stato — e in quella “libera”, di riflesso — si è spalancata la porta a ogni ideologia destrutturante, dal marxismo fino alle assurdità della gender fluidity; i social e i mass media, dalle fiction alla musica popolare, sono il canale privilegiato con cui l’ideologia relativistica e nichilistica della post-modernità e i messaggi dei “poteri forti” arrivano alle masse. E non si può omettere di citare, dolorosamente, la Chiesa, in cui la de-costruzione della catechesi si è spinta a limiti impensabili: non si insegna più solo bolso sentimentalismo para-religioso, ma sub specie boni si trasmettono idee e modelli non di rado aberranti e nocivi.

Concludendo, chi organizza parade come Sanremo, sempre più simili alle sguaiate e blasfeme parade dell’“orgoglio gay” che funestano le nostre città ogni estate, ha delle grosse responsabilità morali, ma le condivide un po’ con tutti coloro che formano e tutelano — male — la qualità della fibra morale del popolo che vive entro i confini della Repubblica Italiana.

Che Dio illumini chi “ci governa e guida” — come si pregava negli oremus delle messe qualche lustro fa — perché questo periodico e autentico oltraggio al pudore — non solo quello nel senso del sesso — abbia finalmente termine.

 

domenica 29 gennaio 2023

 

A VOLTE RITORNANO...

 


Strano questo ritorno alla ribalta del settantenne Gianfranco Fini, ex “delfino” di Giorgio Almirante, ex fondatore di Alleanza Nazionale, ex presidente della Camera dei Deputati, ex promotore di Futuro e Libertà, ex, infine, speranza — per il suo passato militante, per la sua autorevole leadership e per le sue idee corrette nelle questioni bioetiche — della destra politica italiana in età berlusconiana.

Strano per due motivi: la sconfitta fattuale e grave della sua prospettiva di trasformare la destra in un partito radicale-nazionale, con agenda bioetica opposta a quella cattolica cosa che, salvo mea culpa pubblici, dovrebbe indurlo a tacere per sempre; quindi, il momento in cui la rentrée avviene, ovvero dopo che la filiazione maggiore del suo ex partito torna al governo in posizione di supremazia e dà segni — per ora solo segnali deboli — di riprendere in qualche misura il percorso di Alleanza Nazionale, cioè di voler passare da una prospettiva nazionale tout court a una prospettiva conservatrice-nazionale.

L’endorsement, non eclatante ma preciso e diffuso, dato dalle cronache — tuttora “strozzate” dall’egemonia della sinistra — alla sua sortita in pubblico di Napoli pare eloquente. Mentre vi sono notizie di ricompattamento della “destra sociale” di Gianni Alemanno in prospettiva critica dell’attuale leadership, la ricomposizione di una “sinistra” nazionale intorno a Fini potrebbe essere letta come il tentativo interno di equilibrare possibili derive “reazionarie” di FdI e/o, ad extra, come una manovra — alquanto goffa in verità ­ — di portare la guerra, nell’incapacità della sinistra in crisi di combatterla in maniera frontale, entro il campo nemico, di “dialettizzare” cioè le “anime” della destra e di creare ulteriori ostacoli intestini al governo di Giorgia Meloni, dopo gl’impulsi narcisistico-senili di Silvio Berlusconi — altro sconfitto storico — e il protagonismo incauto di Matteo Salvini e di qualche altro personaggio che ha morso il freno negli anni di astinenza da governo.

Che Fini sia stato introdotto a suo tempo nel “salotto buono” della politica — forse a quelli di Davos serve oggi qualche commis che si dia da fare nella instabile area di destra — e che mosse opache non gli siano aliene sono fatti ormai storici: speriamo che gli anni di silenzio lo abbiano cambiato...

Le cronache dei prossimi mesi ci diranno se si tratta di una ipotesi maliziosa come auspico — oppure di un pronostico corretto.

 

sabato 28 gennaio 2023

 


Cinquant’anni fa la fine del Vietnam libero


Gennaio 1973: gli Stati Uniti e la “coalition of the willing”, la coalizione dei “volonterosi” da loro raccolta — la prima: poi ci sarà quella al tempo dell’Iraq —, stipulano un accordo di pace con il Vietnam del Nord comunista con cui la superpotenza nordamericana esce dal conflitto che dal 1954, dopo la sconfitta della Francia e l’indipendenza della maggiore colonia indocinese, contrappone lo Stato del Nord all’o-mologo del Sud.

Dopo il 1954 la frontiera fra i due blocchi passerà anche lungo il 17° parallelo che separerà i due Vietnam. Come da copione, il Nord diventa una repubblica popolare, mentre il Sud si dà istituzioni repubblicane e liberal-democratiche con un regime presidenziale fortemente condizionato dalle grandi famiglie del Paese, come i Diem o gli Nguyen.

Il regime del nord, forte dell’esperienza militare maturata nella guerra con i francesi, dispone di un esercito agguerrito e sostenuto logisticamente dalla Cina e dall’URSS, il Sud solo dei reparti che avevano combattuto a fianco dei francesi contro i partigiani comunisti vietnamiti, il Vietminh, negli anni del dopoguerra.

Sin dall’indomani dell’indipendenza, il Nord inizia, nel 1955, una offensiva contro il Sud per tentare di unificare il Paese e per imporre anche al Sud un regime comunista. Lo sforzo bellico è sostenuto dall’esercito regolare di Hanoi affiancato, secondo lo schema della guerra rivoluzionaria a copertura indipendentistica — un primo esempio era stata la sinergia fra garibaldinismo ed esercito sardo a partire dal 1848 —, da milizie partigiane, i Vietcong, comandate dal medesimo Stato Maggiore che combattevano prive di uniforme ed erano quindi facilmente confondibili con i civili. Oltre alla guerriglia le formazioni partigiane scatenavano una vera guerra terroristica contro le autorità civili e militari del Sud, compiendo talora rappresaglie su comunità e villaggi renitenti a unirsi alla “lotta di liberazione”. Le forze militari di Saigon — la capitale del Sud —, pur determinate a combattere per la libertà del proprio Paese, si riveleranno dopo pochi anni insufficienti a sostenere lo scontro, sì che, nell’ottica del “contenimento” che dominava la politica estera statunitense nell’età della “distensione” post-staliniana, gli Stati Uniti, già negli anni kennediani, decisero di intervenire sul campo prima addestrando e armando con armi pesanti l’esercito sudvietnamita, poi inviando, in cooperazione con qualche Stato alleato, un corpo di spedizione formato dalle varie armi. Nella totale assenza sulla scena dell’organismo internazionale deputato a prevenire i conflitti, l’ONU di New York, la guerra, così, da intestina si farà teatro di scontro fra i due blocchi, con Cina e URSS che rafforzeranno il sostegno diplomatico e militare al Nord e Stati Uniti direttamente impegnati in prima linea. La guerra in quel difficile teatro operativo dove non esisteva un fronte e dove il nemico poteva colpire facilmente alle spalle e dove la Francia, per questo, aveva subìto una dura ed emblematica sconfitta — nella battaglia di Dien Bien Phu nel Nord, durata mesi — nel 1954, crescerà sempre più di entità e di barbarie e l’impegno americano subirà una continua escalation che durante la presidenza di Lyndon Baines Johnson (1908-1973) arriverà a precettare e a inviare in Indocina centinaia di migliaia di uomini — si conteranno fino a oltre 543mila combattenti — e a creare gigantesche catene logistiche transoceaniche. Il conflitto sul campo conoscerà momenti di favore e di sconfitta per entrambi i contendenti ma nei primi anni 1970 lo sforzo bellico americano, sia via terra, sia con pesanti bombardamenti sui sentieri attraverso cui, passando per il Laos e la Cambogia, arrivavano i rifornimenti alle truppe del Nord nel Sud e la crescita di potenziale offensivo dell’esercito del Vietnam libero, sempre più esperto e valoroso in battaglia e arrivato a contare quasi tre milioni di combattenti, inizierà lentamente a prevalere. Purtroppo, la situazione interna degli Stati Uniti indeboliva tale sforzo: le centinaia di manifestazioni pseudo-pacifiste organizzate dalle sinistre liberal e dai collettivi studenteschi — non di rado innervati dai servizi sovietici — diedero come frutto una generale avversione dell’opinione pubblica, stanca e sobillata, contro il conflitto a diecimila chilometri da casa. Se la vittoria poteva sembrare possibile, il calcolo delle vittime, che arrivava a oltre cinquantamila giovani americani caduti dall’inizio delle ostilità era una realtà. Questa ondata pacifista influiva altresì pesantemente nella lotta per la presidenza allora rivestita da Richard Milhous Nixon (1913-1994), che pure nel 1974 dovrà dimettersi, travolto dallo scandalo del Watergate. Queste ragioni oltre al costo esponenzial-mente crescente della guerra e del sostegno al regime — peraltro non immacolato mo-ral-mente — del generale Nguyen Van Thieu (1923-2001) indurrà gli Stati Uniti a cercare un accordo, stipulato a Parigi nel gennaio del 1973, cui il Nord e le potenze comuniste accondiscenderanno del tutto volentieri, essendo in difficoltà. L’esercito sudvietnamita rimarrà così da solo sul campo e, con il sostegno bellico statunitense sempre più ridotto fino ad azzerarsi nel 1975, continuerà a combattere con valore e con crescente disperazione indifesa della patria per altri due anni. Tuttavia, il supporto statunitense si ridurrà e si rarefarà, così che i nordvietnamiti, dalle loro roccaforti ora non più sottoposte ai bombardamenti dei B-52 e godendo di aiuti sempre più massicci da Cina e URSS, a poco a poco riconquisteranno terreno e nella primavera del 1975, violando gli accordi parigini, scateneranno una forte offensiva, sconfiggendo un esercito ormai sull’orlo del collasso. All’arrivo dei carri armati del Nord a Saigon, il 30 aprile, l’esercito di Van Thieu, pur ancora potente, abbandonerà la partita ormai senza uscita e — salvo qualche piccolo nucleo che si darà alla guerriglia nelle aree montane e nelle jungle — si scioglierà come neve al sole. I militari, in primis il Presidente della Repubblica, e i funzionari civili cercheranno di riparare all’estero: chi non ci riuscirà finirà giustiziato dai tribunali militari oppure inviato nelle decine di campi di “rieducazione” politica comunisti, dove sarà sottoposto a torture e violenze — le vittime sono state calcolate in circa 165mila uomini e donne —, oppure dovrà esulare — ben due milioni di vietnamiti — via mare, dando vita a quel triste fenomeno dei boat people, la gente delle barche, che riempirà di orrore — i morti si calcolano fra i 30mila e gli oltre 200mila — le cronache internazionali per anni. Dopo il crollo sudvietnamita eserciti comunisti invaderanno anche la Cambogia e il Laos.

L’accordo del 1973 sancirà il passaggio dell’intera ex Indocina francese, Vietnam — annesso al nord, more sardo — nel 1976, Laos e Cambogia, esclusa la Thailandia, al comunismo e al blocco cino-sovietico, dopo una guerra costata al Vietnam del Sud 266mila morti e un milione e 170mila feriti; agli Stati Uniti 58mila morti e 303mila feriti; agli alleati circa 7mila morti e oltre 14mila feriti e al Nord oltre un milione e 100mila morti e un imprecisato numero di feriti.

Sono passati cinquant’anni da quel gennaio, ma nella mia generazione è rimasto e rimarrà sempre vivo, sino alla fine, il ricordo, oltre che del dramma del mite popolo asiatico, di quella memorabile umiliante sconfitta della super-potenza a stelle e strisce, che aveva illuso fino ad allora — ma l’Ungheria nel 1956 era stata un segnale di allarme non poco squillante — di voler davvero dare il sangue dei suoi giovani figli per la libertà dei popoli. Solo un giornalista e scrittore italiano — uno dei tanti passati di là, come la embedded Oriana Fallaci (1929-2006), come Tiziano Terzani (1938-2004), come Goffredo Parise (1929-1986), ma uno dei più emarginati di allora —, Piero Buscaroli (1930-2016), reduce da un lungo tour in Vietnam e Giappone per il Borghese nel 1966, ricordo che già allora, quando la guerra non era ancora all’acme, scriveva: “i soldati americani combattono per l’impero senza saperlo”. Ed era la pura verità: l’amore per la libertà dei popoli era di sicuro nel DNA dell’Unione e un movente presente alla mente dei politici di Washington, ma era un motivo che cedeva il passo dinanzi alle esigenze di politica interna e agli umori di un elettorato che rieleggeva i vertici dell’impero ogni quattro anni. Gli imperi, ahimè, possono conoscere anche riperi-metrazioni svantaggiose per sopravvivere e continuare a imperare e la tragedia del piccolo Vietnam libero lo dimostrerà a iosa.

Non faccio queste amare constatazioni per accusare gli Stati Uniti — il suo Presidente Federale, i suoi parlamentari — di cinismo, anzi sono grato all’America per avere consentito al mio Paese, allora in prima linea nell’area di frizione fra i blocchi e con i carri armati con la stella rossa pericolosamente vicini alla Val Padana, di non conoscere le “delizie” del socialismo reale e di rinascere in buona misura libero dopo una guerra persa malamente. Tuttavia, voglio evidenziare i rischi di appaltare spensieratamente il proprio futuro — comprensibilmente forse nel caso dei malcapitati vietnamiti aggrediti dal comunismo ma non in altri — a un alleato potente sì, ma che può decidere di punto in bianco di passare ad altro dossier.

In Italia per decenni si è barattato la sicurezza strategica con la pacifica accettazione di una “colonizzazione” culturale e di una inondazione di costumi esotici che perdura ancora oggi: basta fare zapping sui canali televisivi e sui siti in streaming e contare il numero di piéces di ogni tipo di matrice e fattura americana per accorgersene. Ma non solo in quel campo. Certo, l’alternativa era che i nostri bambini giocassero con i modellini dei T-34 invece che con i soldatini degli indiani e dei cow-boy e ci è andata bene. Tuttavia, l’imposizione di un modello culturale alieno ha di fatto causato quell’appannamento o oblio dell’identità italiana che oggi raggiunge il culmine specialmente fra i giovani: vedere qualche rapper in azione è sufficiente per capirlo.

L’abbandono dell’Ungheria e del Vietnam al comunismo e quello più recente dell’Afgha-nistan al barbaro fondamentalismo islamista — in questi due ultimi casi dopo avere lasciato migliaia di morti sul terreno — deve insegnare ai Paesi liberi come il nostro che il meccanismo che ho descritto può essere comodo e praticabile ma non a oltranza: la fiducia nell’ONU già allora, dopo le decine di massacri africani al tempo della decolonizzazione avvenuti sotto gli occhi dei Caschi Blu (in realtà: Azzurri), era assai minata — trent’anni dopo a Srebrenica, in Bosnia, crollerà del tutto —, ma la defezione statunitense, la decisione di non combattere sino alla vittoria un conflitto che era possibile vincere, l’abbandono di un popolo alla tirannide omicida comunista sono tuttora uno shock per molti e dissipano parecchi equivoci sull’altruismo dei “buoni”. L’Italia oggi è un piccolo Stato marginale e può fare ben poco in uno scenario globale dove si addensano nubi sempre più cupe, però riflettere su quanto avvenuto cinquant’anni fa e ripensare il proprio futuro in maniera meno passiva e meno fiduciosa può fare solo bene.

 

 

 

Archivio blog