Per usare una metafora volutamente sgradevole, ho la sensazione che periodicamente, ogni anno, venga scoperchiato un tombino e gli olezzi della fogna sottostante invadano l’etere comune, ammorbandolo per settimane. Ma non si tratta di manutenzione della rete fognaria, cosa del tutto dignitosa e necessaria, che giustifica in qualche modo l’atto, obbligatorio, di tapparsi il naso.
Alludo invece, come si sarà capito, al festival della canzone italiana che si tiene ogni anno, dal 1951, a Sanremo, in provincia di Imperia, nota località balneare della Riviera Ligure di Ponente.
Nato come rassegna di canzoni popolari nuove, per alimentare il circuito commerciale dei singoli pezzi e la radiodiffusione di musica leggera per decenni è stato fedele alle sue finalità e dominato da un clima di signorilità: i vestiti dei cantanti e della platea, lo sfarzo dell’ambiente, la misura e l’effettiva promozione del bel canto — anche se i testi non hanno mai brillato per elevatezza — tutto contribuiva a dare prestigio e giusta audience alla rassegna canora.
Ma da qualche anno in qua, qualcosa, e di sostanziale, è cambiato: al clima descritto è subentrato un clima di volgarità e di politicizzazione che hanno sfigurato l’aspetto e il senso del festival. Con il pretesto di presentare nuove canzoni, si succedono sulla passerella, e una passerella che ha di fronte sì una platea prossima ma anche una platea remota che conta milioni di visionatori e di ascoltatori che va ben oltre le nostre frontiere, personaggi strampalati, sgangherati, abbigliati — o disabbigliati — nelle fogge più incredibili, mascherati come in un anticipo di Carnevale, che intonano pezzi musicali di qualità via via più scadente e lanciano con frequenza crescente messaggi a sfondo culturale e politico irricevibili tanto per i contenuti esternati quanto per la caratura dei loro portavoce.
Questo, essendo nota la secolare consuetudine degli italiani alle stranezze e agli eccessi dei giorni che precedono la Quaresima, nonché alla tradizione circense che onora l’Italia, non desterebbe troppo clamore. Il problema è che da alcuni anni coloro che si esibiscono sul palcoscenico del teatro Ariston sotto l’occhio delle telecamere si fanno propagandisti ogni forma di trasgressione, ostentando una volgarità via via più sgradevole e provocatoria. Naturalmente le tiritere di chi calca le tavole dell’Ariston non sono mai rivolte, che so, contro chi ha scatenato una guerra a freddo non lontano dai nostri confini, né contro, che so ancora, contro chi accompagna cittadini italiani a farsi ammazzare in Svizzera o ammazza i bambini nel ventre della madre, né contro le loro agende tetre e deliranti dei summit di Davos. No, no, i bersagli sono sempre gli stessi: la Chiesa, la presunta discriminazione degli omosessuali e dei travestiti, i “migranti”, il “fascismo” — uso le virgolette perché sotto questa voce non cadono più Mussolini o Almirante, ma tutto ciò che si oppone al “politicamente corretto”.
Perché ciò accada, perché la televisione di Stato dedichi lungo una settimana, in prima serata e con una durata di ore, a spettacoli del genere — con una invariabilità allucinante, in un mondo dove tutto cambia un giorno per l’altro — rappresenta un mistero: passano i governi, crollano i muri, si sentono venti di guerra, ma nella televisione statale — la cui esistenza ogni cittadino che non voglia usare le lampade a petrolio deve pagare, anche i vescovi, anche i preti, anche chi non è d’accordo — Sanremo rimane rituale, inattaccabile, inossidabile, quasi simbolo stesso della perennità.
E si tratta ogni anno, ormai, di una settimana di contro-educazione di massa: sì, perché i figuri che si avvicendano sotto i riflettori del circo sanremese saranno visti anche dall’attempata “casalinga” ma non sarà quest’ultima a prenderli a modello, bensì i giovani, migliaia di giovani, nostri figli e nostri nipoti, ai quali ciò che viene proposta — visto il prestigio con cui viene veicolato — parrà la norma, il modello da imitare, il giusto modo di vivere. E, come si sa, le imitazioni sono ahimè anche peggio dell’originale…
Certo non sarà l’unica occasione in cui ciò avverrà, ma pare che qui si voglia concentrare il tiro, scagliare un missile ad ampio raggio e di grande potenza, con effetti devastanti elevati e immediati.
Se il perché ciò avvenga è, come dicevo, misterioso, meno misterioso è però qual è l’humus di esibizioni così deplorevoli, quali sono le sue loro meno immediate. È un discorso lungo, ma se ne può tracciare quanto meno il filo conduttore.
In primis, la trasgressione nasce da un retroterra dove la decostruzione di ogni asserzione che abbia la minima pretesa di significare qualcosa o, peggio, valoriale è ormai un dogma di fede. Per cui non esiste alcun limite e la creatività artistica non può non tradursi e non ripetersi — mi si passi l’ossìmoro che si pone fra “creare” e “ripetere” — in conati di decostruzione morale in forma pseudo-estetica. Se il vero non esiste, non esiste neppure il bello: ciò che importa è presentare ritratti osceni e vuoti, deliri senza senso, simulare ribellioni senza oggetto, difendere fantasmi del passato, fare l’apologia di amori fatti esclusivamente da sesso, meglio se contro natura.
Eppure tutto ciò piace, sempre più attrae, appare ogni giorno di più come il “normale”, il recente, quello che è alla moda: il moderno, in una parola. E il moderno, si sa, “vince”: da secoli a tutti i livelli è il criterio prevalente quando non l’unico criterio per giudicare il reale.
Che lo Stato proponga questa settimana della diseducazione al popolo è scandaloso, ma non sorprende, perché è uno scandalo che si affianca ad altri scandali — basti pensare all’aborto procurato — che lo Stato recepisce e di cui si fa tutore quando non autore. La presenza del presidente della Repubblica — insieme al buffone di corte in carica — all’ultima kermesse è stata come il “bollino blu” sulle banane, il marchio di qualità che lo Stato italiano ha ritenuto di porre su una autentica galleria degli orrori pagata dai cittadini, come su altre.
Ma non si tratta solo dello Stato: che manifestazioni degenerate come l’attuale festival nascano e piacciano è il prodotto di una crisi antropologica, a sua volta esito di un processo pluridecennale di de-moralizzazione specialmente delle generazioni giovani dovuta in gran parte all’abdicazione delle agenzie formative che dovrebbero occuparsi dei singoli e, indirettamente, agire sul tessuto della nazione: la famiglia, la scuola, i mass media, la Chiesa.
Nella famiglia la gerarchia è tramontata e la figura del padre, quando c’è, è ridotta a un simulacro, sì che i figli crescono senza riferimenti “forti” e disorientati; nella scuola di Stato — e in quella “libera”, di riflesso — si è spalancata la porta a ogni ideologia destrutturante, dal marxismo fino alle assurdità della gender fluidity; i social e i mass media, dalle fiction alla musica popolare, sono il canale privilegiato con cui l’ideologia relativistica e nichilistica della post-modernità e i messaggi dei “poteri forti” arrivano alle masse. E non si può omettere di citare, dolorosamente, la Chiesa, in cui la de-costruzione della catechesi si è spinta a limiti impensabili: non si insegna più solo bolso sentimentalismo para-religioso, ma sub specie boni si trasmettono idee e modelli non di rado aberranti e nocivi.
Concludendo, chi organizza parade come Sanremo, sempre più simili alle sguaiate e blasfeme parade dell’“orgoglio gay” che funestano le nostre città ogni estate, ha delle grosse responsabilità morali, ma le condivide un po’ con tutti coloro che formano e tutelano — male — la qualità della fibra morale del popolo che vive entro i confini della Repubblica Italiana.
Che Dio illumini chi “ci governa e guida” — come si pregava negli oremus delle messe qualche lustro fa — perché questo periodico e autentico oltraggio al pudore — non solo quello nel senso del sesso — abbia finalmente termine.
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