DELLO STATO
E IDEOLOGIA LIBERALE
Sono
un lettore "obbligato" dei “fondi” — meno dei libri — di Ernesto Galli della
Loggia sul Corriere della Sera, per cui non mi
sono perso il suo articolo — non il primo in tema — che oggi, 11 novembre, il quotidiano
milanese pubblica.
In esso, con dovizia di esemplificazioni, il noto politologo romano denuncia lo sfascio in cui versa il Paese. La crisi generale e diffusa di senso civico che affligge l’Italia e le drammatiche inefficienze della sfera pubblica dipende-rebbero, secondo lui, da uno sfilacciamento dell’identità di ruolo dello Stato, che avrebbe rinunciato a svolgere gran parte delle sue funzioni, sì che al livello generale e specialmente nelle classi popolari e nelle “periferie” della nazione si sarebbe diffuso un senso di abbandono e una domanda di maggior presenza dello Stato.
In esso, con dovizia di esemplificazioni, il noto politologo romano denuncia lo sfascio in cui versa il Paese. La crisi generale e diffusa di senso civico che affligge l’Italia e le drammatiche inefficienze della sfera pubblica dipende-rebbero, secondo lui, da uno sfilacciamento dell’identità di ruolo dello Stato, che avrebbe rinunciato a svolgere gran parte delle sue funzioni, sì che al livello generale e specialmente nelle classi popolari e nelle “periferie” della nazione si sarebbe diffuso un senso di abbandono e una domanda di maggior presenza dello Stato.
Sono
d’accordo sulla diagnosi: il Paese è letteralmente allo sfascio e lo si
percepisce intensamente specialmente al livello delle microstrutture, dei servizi pubblici più elementari, nella
vita della gente comune di tutti i giorni. Ormai vi è tutta una serie di reati
— certamente più spesso, anche se non solo, reati “micro“, ma dall’impatto
diretto sulla vita della gente nelle grandi città — che non è più di fatto né
perseguita, né sanzionata. Uno per tutti — davvero “micro” ma assai urtante, che
mi permetto di aggiungere all’elenco dei mali che Ernesto Galli della Loggia
denuncia —: ormai a Roma — ma penso che sia lo stesso anche altrove —, non solo
i muri sono protervamente e ripetutamente imbrattati con scritte e graffiti assurdi
— ah, i bei tempi de “lo Stato borghese si abbatte, non si cambia”… — fatti con
la vernice spray, ma non vi è palo
della luce, casellario postale esterno, stipite di cancello, centralina dei
telefoni o della luce, chiosco, portone, che non venga di continuo letteralmente
ricoperto da decine di etichette adesive di artigiani, traslochisti, manovali,
corrieri, in piena violazione delle norme sull’affissione abusiva. E l’immagine
di città “impecettata” della Capitale che se ne ricava non è certo delle più eleganti ed edificanti… Possibile
che nessuno controlli le tipografie? E persegua chi propaganda i suoi servizi in
quella discutibile forma? Certo chi vive nel Palazzo forse non se ne accorge, ma chi vive
in quartiere e conserva un minimo di dignità se ne accorge, eccome, e ne soffre…
Non
sono d’accordo invece sulle cause. Il processo di disgregazione che Galli della
Loggia avverte non è solo frutto di una carenza di peso dello Stato. Anzi, lo
Stato, tanto lo Stato centrale, quanto le sue articolazioni territoriali — senza dimenticare il "peso" indiretto di Bruxelles —, in
certe aree della vita della nazione pesa molto più di prima: basti pensare al
fisco, ai controlli sulle transazioni economiche, agli standard educativi, alla produzione legislativa.
Il
problema è che proprio dagli anni Settanta — o dal Sessantotto, culmine
vessillare della Rivoluzione nelle tendenze, che anche Galli della Loggia
assume come terminus a quo —, è nella
società — e non per colpa di quel decentramento
che è stato fatto passare come federalismo — che si allentano il senso
identitario e i vincoli di coesistenza collettiva, sotto il soffio del vento
gelido dell’individualismo e del relativismo, del secolarismo e dell’edonismo, diffusi
da un liberalismo liberal che forse Ernesto
Galli della Loggia non ama, ma che è quello che esiste e agisce ai nostri
giorni. Non è lo Stato che è assente a livello delle microstrutture: è l’autorità,
l’autorità informale — gli anziani verso i giovani, i padri verso i figli, i
preti verso il gregge: quell'autorità che la sociologia tradizionale chiamava “autorità
naturale”, quell’autorità invisibile e diffusa che un tempo bastava far cadere in terra per strada
una cartaccia per sentirla scattare con i suoi rimbrotti... — che è stata erosa sotto la
spinta dell’auto-referenzialità dell'individuo, del venir meno del senso religioso, della
morale “fai da te”, continuamente espro-priata dallo Stato centrale.
E,
ancora, lo Stato, anch’esso influenzato da questo solvente, si è come ritirato,
messo in disarmo, nelle funzioni che per diritto — e dovere — gli competono,
ossia incarnare l’autorità, combattere la criminalità, mantenere l’ordine,
sussidiare le società di ordine inferiore.
Non
dimentichiamo che lo Stato odierno non è lo Stato tout court, lo Stato che si studia nei manuali di diritto
costituzionale e di scienza politica, ma l’ultima versione dello Stato moderno,
cioè del regime — più o meno — misto frutto delle degenerazioni dei vari regimi
politici: il dispotismo (opposto della monarchia), l’oligarchia (opposto di aristocrazia)
e la demagogia (la corruzione della democrazia). Se questo mix ha toccato il suo vertice nel totalitarismo comunista — il Partito dominava lo Stato e lo Stato la società —, anche la "democrazia totalitaria" (Jacob Talmon) moderna, amorale e relativistica, ne è in buona misura un esempio. Quindi, rivendicarne l’empowerment significa auspicare una
ulteriore dilatazione del monstrum burocratico
e impersonale costruito nei secoli a partire dall’assolutismo rinascimentale e sei-settecentesco.
Cioè uno Stato che nel terzo millennio cristiano preferisce concentrarsi sulla promozione autoritaria di pseudo-diritti civili ed è diventato sempre più ipertrofico specialmente nelle
funzioni attraverso cui la sua megastruttura — oltre 3milioni e 400 mila
dipendenti — può autoperpetuarsi e cioè la leva fiscale, i proventi della presenza
pubblica nell’e-conomia e il monopolio dell’educazione nazionale.
Ora,
se si imboccasse il percorso inverso, cioè se lo Stato tornasse forte nelle funzioni
basilari e abbandonasse quelle che si è autoattribuite sempre più arbitrariamente
e arrogantemente nel corso della storia, il suo peso decre-scerebbe e lo sfascio
forse rallenterebbe.
Senza
dimenticare che gran parte dello sfascio diagnosticato è frutto della disgregazione
tenacemente perseguito e più volte denunciato dai vescovi della famiglia
italiana. Certo non è con leggi come il divorzio e il divorzio sprint, né banalizzando il matrimonio,
facendone un “diritto per tutti” — marriage
pour tous —, né perpetuando l’assurdo non intervento dello Stato a sostegno
delle famiglie numerose e bisognose, che si rallenta questa disgregazione. Certo
non è favorendo il clima di ostilità verso i legami stabili e perpetui e contro
la natalità che si rimedia ai mali denunciati. E mi pare che Galli della Loggia,
come tutti i liberali “che si rispettano”, non eccepisca granché né in materia
di divorzio, né in tema di unioni civili, né riguardo ai mancati sussidi
familiari.
Se
lo sfogo del noto politologo è del tutto comprensibile e condivisibile, se la
sua ansia per le sorti declinanti del Paese è del tutto apprezzabile, non si
capisce come la sua analisi non veda letteralmente questo rapporto causa-effetto
fra ideologia progressista, ancorché soft,
e i fenomeni di degrado, né che non si accorga che per rifare una società decente,
non basta uno Stato efficiente — tanto più uno Stato burocratico e, in tesi, areligioso
e amorale come quello moderno —, ma il ricupero del senso comune e della
solidarietà fra concives. Se, per
assurdo, con un colpo di bacchetta magica, si realizzasse uno Stato come quello
che Galli della Loggia auspica — assai simile allo Stato liberale elitario post-unitario,
quindi a uno Stato moderno a uno stadio di sviluppo ancora “semi-infantile” —,
cambierebbe davvero il modo di stare insieme di una moltitudine spappolata che
è l’Italia di oggi, così simile a quella società “di massa”, che Pio XII additò
come modello negativo di popolo già negli anni 1940, o alla società “a coriandoli”
evocata da Giuseppe De Rita?
Il rapporto armonioso fra Stato e società si
ottiene solo ridimensionando e rettificando il primo e rivitalizzando
moralmente e, quindi, responsabilizzando, la seconda e chi ne fa parte. Ma questo
si consegue solo cambiando le mentalità, il modo di pensare e, prima di tutto, riportando
le tendenze, il desiderio di libertà, individuali entro limiti “fisiologici” e
quadri ordinati. Se si vuole un'Italia nuova e diversa, occorre prima eliminarne le storture introdottevi da una malintesa nozione di “progresso”.
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