martedì 26 febbraio 2013




ELEZIONI 2013: UNA LETTURA A CALDO 
(MA NON TROPPO...)


Se si sommano i voti ricevuti da Pdl, Lega e Movimento 5 Stelle si arriva a circa il 55% dell’elettorato, almeno di quello che si è recato alle urne. Il che vuol dire che la maggioranza dell’elettorato è a favore del populismo. Assumendo che tutte e tre le forze siano, al di là delle differenti ideologie di riferimento — il berlusconismo al liberalismo, il leghismo all’autonomismo, il grillismo a che cosa non si sa, forse a un qualunquismo anni 2000 —, in effetti appare come esse siano accomunate da un medesimo aspetto: il populismo. Almeno da un populismo secondo all’accezione alquanto distorta — lo dico senza aprire trattati di scienza politica e senza scomodare il defunto Juan Domingo Perón — che di esso danno le alte istanze europee.  

 Se tecnicamente il populismo è il regime dove il legame fra un leader carismatico e la base popolare non è mediato da strutture complesse, per Bruxelles populiste sono le forze ostili al progetto europeo così come si presenta oggi, cioè ostile alla religione, fondato sul controllo fiscale e promotore dei più dirompenti "diritti" civili.
    Un populismo soft, e inficiato da molti residui della Prima Repubblica, quello del Pdl berlusconiano; un populismo più grintoso e radicale, quello della Lega; e infine il nuovo populismo hard dei grillini. Tre movimenti un partito “di plastica”, un partito-orda e un partito “liquido”... , tre leader carismatici: nel primo domina l’impenitente Cav; nel secondo aleggia ancora la voce roca di Umberto Bossi; nel terzo imperversa il comico ligure dal trascinante eloquio. 

   Dunque, non ha vinto lo schieramento delle tasse e delle unioni gay, ma il detestato populismo. Che senso dare a questa vittoria?

Oltre che al rigetto di una politica conforme al rovinoso dettato europeo, mi piace sottolineare che il risultato elettorale suona a conferma in Italia che quegli assetti della politica, nati nel secondo dopoguerra e corretti nel plebiscito anticomunista e filo-occidentale dell’aprile del 1948, emblematizzati dalla carta costituzionale, ispirano ormai solo una forte minoranza degli elettori del Paese. E il dato è ulteriormente evidente se ai populismi si somma l'astensione, che è stata pari al 25% degli elettori, cioè circa il 7% in più rispetto al 2008.
   Il primo governo Berlusconi è stato il primo esempio di un governo non condizionato dai paradigmi politici postbellici; Forza Italia il primo partito non ideologico ed estraneo al “mazzo” delle forze politiche uscite dalla Resistenza. Paralleamente, Alleanza Nazionale è stato la premessa per la nascita del primo partito di destra conservatrice mai visto in Italia, mentre la Lega Nord il primo fenomeno di partito anch'esso nuovo e fuori dall’arco costituzionale, che contestasse in certa misura le legittimità stessa dell’ordinamento costituzionale nato nel 1948.

   Ora, con la massiccia irruzione sulla scena politica del qualunquismo grillino, l'establishment che si richiama all’eredità della Resistenza e mummifica la Costi-tuzione “più bella del mondo”, come cantano i comici di regime, si ritrova arroccata a difendersi dal "nuovo che avanza": non è un fatto da poco e su di esso ciascuno deve riflettere. 

   Lungi da qualunque prospettiva revanscistica, mi pare che il “sistema”, così come si configura oggi, sia in netto declino, non funzioni più, non mobiliti più la gente, che va altrove, sfiduciata e si accontenta di qualunque proposta, anche della più stramba, purché rappresenti una via di uscita da una condizione insopportabile. Il sistema, è vero, non copre più le esigenze di politica della gente comune. È troppo obsoleto, ingessato, pieno di buchi per poter reggere il mutamento che è in atto nel Paese e intorno al Paese. La crescita del consenso al populismo è, quindi, la spia che una situazione non può protrarsi a lungo. Come si può pensare di affrontare le sfide del secolo con quell'ibrido di tecnocrazia e socialismo che è l'Italia politica di oggi?

   Non a caso il cardinal Caffarra alla vigilia delle elezioni, rivolgendosi ai cattolici della sua diocesi e alludendo al drammatico trend di declino e di morte che stanno assumendo le ideologie moderne nel nostro secolo, diceva — cito a memoria — che non si può più ristrutturare l’edificio: occorre rifare la casa, ben consci di quanto sacrificio e pazienza questo comporti.

Ricostruire una casa è sempre un compito difficile ma dobbiamo svolgerlo, e svolgerlo da soli, altrimenti qualcuno lo farà per noi — lo si è appena visto con il governo Monti —, ma poi non è detto che la casa in cui abiteremo ci piacerà.
   Di sicuro la sconfitta del grand commis Monti e la crescita a livelli impensabili della resistenza, almeno potenziale, al disegno europeo in Italia non farà piacere ai signori di Bruxelles, che solo pochi mesi fa dichiaravano — per bocca dello stesso Monti — di voler convocare un summit internazionale per combattere la refrattarietà dei popoli alla roadmap della politica europea.

   Io auspico che quanto avvenuto da noi non inasprisca le attuali tendenze oligarchico-punitve, ma serva di lezione perché si capisca che le terapie sbagliate non solo non guariscono il paziente ma aggravano il suo male

Se dovessi immaginare un’agenda politica nazionale — quindi non indirizzata a questa o a quella forza politica specifica —, vedrei al primo posto proprio la revisione della legge fondamentale nel senso di riequilibrare i poteri dello Stato; di prendere atto dei nuovi poteri sociali, quei poteri che nel 1948 erano ancora allo stato embrionale; quindi, una drastica diminuzione dei costi dello Stato e della politica, incominciando proprio da un forte regresso dello Stato dalla sfera pubblica, dalla società, dismettendo funzioni esercitate dall’apparato palesemente inutili o meglio esplicabili dal privato. Quindi, la riduzione della pressione fiscale a livelli sopportabili e il disboscamento dell'incredibile groviglio di normative burocratiche e fiscali che soffoca la vita dei singoli e delle imprese. Ancora, l'abbandono di tutte quelle costose e disorientanti ricadute legislative degli “ultimi fuochi” delle ideologie novecentesche — liberali e socialiste — che mirano solo a relativizzare il bene e a imporre erga omnes i presunti diritti di microscopiche minoranze aggressive a danno di quelli veri delle maggioranze. Ma questo sarebbe solo l'inizio…

Il problema principale è che per porre mano a questi interventi occorrerebbe un potere esteso che oggi nessuna forza politica ha: forse solo il Monti del 2011 avrebbe potuto fare qualcosa di decisivo e qualcosa ha fatto ma nella direzione sbagliata... Il paradosso è che, nonostante la prevalenza numerica dei populismi, chi governerà nella legislatura che si apre sarà probabilmente la forza del più radicale “conservatorismo”, quella dove domina la volontà più ferma di mantenere in piedi l’“antico regime” e la più tenacemente fedele alle ossificate ideologie progressiste del Novecento. Una forza in caduta libera come numero di suffragi ma che è riuscita a vincere perché ha saputo sfruttare le debolezze e le divisioni degli avversari.
Così, salvo scaltre cooptazioni e possibili tradimenti-ravvedimenti, la frizione fra la prossima struttura di governo e il sentire della popolazione — la pressione del vapore sul coperchio della pentola in ebollizione — è destinata a crescere.
   Il parlamento che è nato il 26 febbraio 2013 è pieno di volti nuovi — qualcuno lo auspicava alla vigilia, magari con la riserva che fossero volti nuovi con idee vecchie —, anche se molti di loro faticheranno ad articolare l’italiano nei loro interventi in aula. È un parlamento forse più onesto dei precedenti ma ancora più impreparato a legiferare — ci pensate all’ufficio legislativo del Movimento 5 Stelle? —, più, nel bene ma anche nel male, deideologizzato, meno politico. E, ancora, da scompaiono i cattolici espliciti e viene meno pressoché di ogni presenza conservatrice — non di tipo fattuale ma di principio —: domani il massimo di destra concepibile sarà il liberale e il cattolicesimo politico estremo quello aperto alle unioni gay, ma non al “matrimonio”.

Se i populismi sono all'opposizione, se chi ha vinto con i numero non può governare, se un secondo governo tecnico non pare alle viste, se tutto è bloccato, so what?, e allora?, direbbe un anglosassone...
In questo difficile frangente l’unica via praticabile non mi pare quella di un governo del risicato vincitore, con qualche pattuglia di alleati arruolati alla bisogna — ne abbiamo già avuto l’esperienza, con il secondo governo Prodi —, ma, se il buon senso prevarrà, quella di una tregua, di una sospensione della politica antagonistica e di un rimettere in discussione, tutti assieme, almeno un nucleo minimale di regole del gioco per abbassare la pressione nella pentola, per sbloccare il Paese, per ridare voce non strozzata alle istanze sempre più drammatiche che salgono dal basso, per riconquistare spazio alla sana politica. Forse sarebbe anche l’operazione meno sgradita a Bruxelles… Però ci vuole, ripeto, buon senso e, aggiungo, una buona dose di umiltà.


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