Benedetto XVI: un ricordo “a botta calda”
Benedetto XVI ha compiuto il suo transito al Padre. Era della generazione del 1927, l’ultimo anno dei chiamati alla leva prima che l’apocalisse mondiale del 1939-1945 terminasse, lasciando l’Europa e varie parti del mondo un cumulo di rovine.
Joseph Ratzinger nel 1943 ebbe anch’egli la sorte per quasi tre anni — e tre anni di guerra ormai persa per il Reich — di vestire la divisa militare, prima quella grigio-azzurra di addetto alla Flak, l’artiglieria contraerea, che difendeva la sua terra dalle terribili incursioni aeree terroristiche degli Alleati, poi quella della Wehrmacht, sebbene senza mai dover combattere.
Poi, nella Germania post hitleriana, che, sfidando la damnatio totale, iniziava con pazienza e alacrità la ricostruzione e preparava il suo lento ritorno a potenza leader del Vecchio Continente, il suo prorompente cursus di uomo di Chiesa, di teologo e di pastore, una traiettoria senza uguali da umile coadiutore di parrocchia a successore di san Pietro. Un curriculum di studioso inarrivabile — si parla di circa ottomila testi pubblicati, da volumi ad articoli, da pensieri a omelie, su temi religiosi, ma anche politici — di cui il Concilio Vaticano II sarà la rampa di lancio definitiva. Un percorso pastorale simile a uno dei crescendi “rossiniani” da prete a docente, poi perito conciliare, da vescovo ad arcivescovo, da cardinale a prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, infine, a Pontefice, ora al cospetto di Dio.
Cultore tenace e ininterrotto dell’understatement, schivo e nobile nella sua statura intellettuale, «gentile», come lo ha definito più volte Papa Francesco durante il Te Deum di fine-2022, ha attraversato i numerosi ruoli ricoperti con serenità e distacco, con umana — oserei dire “bavarese” — bonomia, ma con un rigore intellettuale unico e un afflato apostolico senza pari. Vissuto a lungo a fianco di quel “gigante della fede” che è stato san Giovanni Paolo II forse ha potuto risentire dell’ombra di questi, ma quante volte questi ha dovuto ricorrere al mite, ma lucido e inflessibile prelato bavarese, così diverso da lui?
Da Papa, Joseph Ratzinger ha regalato al mondo dei testi magisteriali di grande valore, ma soprattutto ha tracciato delle mete, dei sentieri nel dialogo con il mondo e con il “mondo” — specialmente con l’islam —, forse ardui, forse esigenti un coraggio ormai introvabile, ma che poi sono stati senza motivo completamente abbandonati: eppure, se così non fosse stato, forse ora qualche — dico qualche — problema in meno ci sarebbe o, quanto meno, non si soffrirebbe delle tante crisi d’identità che oggi il popolo fedele attraversa. Credo che fra i contributi teologico-pastorali più “epocali” che ci lascia vi sia la lettura o, meglio, la forma in cui ha tradotto la lettura — qualche riga di testo pronunciato durante una udienza di fine-anno — del Concilio Vaticano II, tranciando il pluridecennale groviglio di tesi e di contro-tesi con la lama di una espressione semplice e rigorosa: «“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato». Ma non va dimenticato nemmeno quel preziosissimo passaggio dell’intervista del 1985 con lo scrittore Vittorio Messori, secondo cui «Molti dimenticano che il concetto conciliare opposto a “conservatore” non è “progressista” ma “missionario”». Lo stesso amplissimo e sapiente magistero di san Giovanni Paolo II si è spesso appoggiato alla poderosa “macchina intellettuale” del cardinale di Marktl am Inn, sia direttamente, sia attraverso le conoscenze del suo “prefetto della fede”.
Da intellettuale di razza, la sua mente non si sentiva appagata dalla esegesi del versetto biblico — che pure gli riusciva magistrale — ma spaziava in orizzonti ampi, dalla letteratura alla morale, alla dottrina sociale, alla politica internazionale. Forse la sua vera passione, la sua vocazione autentica era, a lato dello studio, l’insegnamento, che ha praticato per decenni con corsi e lezioni seminariali e accademiche memorabili e che ha con rammarico lasciato quando è stato trasferito a Roma a capo del dicastero della fede.
Dal 2013 viveva, per alcuni anni in compagnia del fratello prelato, Georg, nel ritiro totale dell’eremo vaticano immerso nella preghiera e negli ultimi sforzi di studioso.
Su di lui, vivente, sono stati scritte migliaia di pagine di vario valore, ora la profluvie sarà un’alluvione e non voglio aggiungere inchiostro — o toner — a inchiostro.
A me piace pensarlo nella pace, che pure a lui anche in vita non era estranea, in piedi di fronte al Signore che ha detto «Beati i miti perché erediteranno la terra». Ecco: al mite uomo di Chiesa che ha vissuto le sue straordinarie doti intellettuali non nell’orgoglio ma nell’umiltà, il Signore ha concesso in un certo senso ancora in vita di ereditare la terra, cioè ha concesso di rivestire il ruolo di suo Vicario nell’intero orbe terrestre. Ma questo infinito beneficio, che pure ha avuto il suo doloroso rovescio di medaglia nell’odio patito, nel disprezzo, nella dimenticanza, è nulla rispetto a quell’eredità che Dio gli ha riservato e che ora, passata felicemente la barriera che separa la vita terrena dalla vita eterna, gli viene trasmessa: il Regno celeste di cui è — o sarà a breve — cittadino per l’eternità.
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