domenica 12 novembre 2006



Regalità di Cristo e Sacro Impero

Ultima domenica dell’anno liturgico ambrosiano: festa di Cristo Re.

Gesù Cristo regna dalla croce: il suo titolo di acquisto di questo scomodo trono è la sofferenza, la sofferenza infinita di un uomo, che è anche Dio: «regnavit a ligno Deus», canta l’inno quaresimale Vexilla regis, gli stendardi del re.
La condizione di massima debolezza umana — umiliato peggio di una bestia inchiodandolo su un rozzo palo traverso — si coniuga con il più grande risultato ottenibile: la riconciliazione di tutta l’umanità, presente e futura, con il Creatore.


Gesù si annulla sulla croce, la sua divinità lungo tutta la passione scompare, tutti lo abbandonano, quando spira invoca il Padre che non avverte più presente.

Passano solo poche ore, però, e Gesù risorge: la potenza infinita che è in lui, intrinseca alla sua natura divina, esplode. Cristo schiaccia la morte che lo ha avuto in suo possesso solo per trentasei ore e riappare alla luce del mondo in tutta la sua maestà e gloria.

La sua regalità è quindi intrisa di dolore e di onnipotenza, di abbrutimento e di splendore, di annichilamento e di esaltazione.

E in che cosa consiste il suo regno, non in assoluto — la vita trinitaria —, ma per noi sue creature?

Gesù dovunque passava su questa terra portava luce, amore, gioia: e anche verità, giustizia, pace. «Pertransivit benefaciendo sanando omnes oppressos a diabolo quoniam Deus erat cum illo», dicono gli Atti degli Apostoli (10, 38).

Il regno di Cristo, morto, risorto e che siede alla destra del Padre, è storicamente cominciato su questa terra, con la vita stessa del Verbo Incarnato fra gli uomini della Palestina, nel popolo di Abramo e di Mosè. Ed è continuato, nel suo strato temporale, nella comunità dei suoi seguaci, che egli convoca: la “ecclesia”, la Chiesa. Per sua opera il regno di Dio si è irraggiato nello spazio e nel tempo e si è propagato agli uomini, ai singoli quanto alle strutture. Prima ai singoli, poi alle strutture e, in certi casi come la conversione dei re, prima nelle strutture e poi nei popoli e nei singoli.

Lentamente, secondo le stesse modalità del Redentore, cioè attraverso la croce e diffondendo lo splendore della verità che è Cristo risorto, il mondo — tanto il colto e scettico mondo greco-romano, quanto i popoli giovani e ignari, i barbari — si è piegato al soffio di questo vento.
È così nata una famiglia di nazioni e di popoli che hanno assunto Cristo come loro centro e come carattere distintivo: la cristianità.

Nel suo seno la regalità di Cristo ha cercato di attuarsi vincendo le resistenze del peccato originale: sono nate istituzioni per propagare la dottrina di Cristo, per attuare la giustizia e per ottenere la pace. Per quanto possibile nei vari frangenti concreti e nei limiti della natura decaduta.

Ma vi è un culmine in quest’ambito cui la cristianità occidentale arriva nel secolo IX: il sacro impero, che si ricollega in spirito a quello universale di Roma.

Che cos’è stato il Sacrum imperium cristiano? Un luogo di oppressione? Una sfilata di bandiere e di costumi rutilanti? Un insieme di ritualità vuote?

No. Solo l’istanza suprema, seconda solo alla Chiesa di Cristo, che gli uomini convertiti vollero darsi e in cui si attuavano le tre dimensioni evocate. La verità: l’Impero si autodefinisce sacro, fa sua tutta la dottrina che la Chiesa insegna e ne tutela la propagazione, in tesi fino ai confini dell’universo. La giustizia: l’essenza dell’impero è di fungere da istanza arbitrale suprema, che opera al di sopra dei re e dei grandi della terra, che dirime in forma incruenta i conflitti. La pace: «opus iustitiae pax», ricordava Pio XII, che ne fece la divisa del suo pontificato. «Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono», insegnerà Giovanni Paolo II — nel suo messaggio per la Giornata della Pace del 2002 —, e infine «Nella verità, la pace», gli farà eco Benedetto XVI nella stessa occasione quest’anno 2006.

Dunque l’impero è il prodotto dello sforzo dell’uomo medievale di riconoscere e di attuare la regalità di Cristo su questa terra in maniera non generica, ma tangibile, creando cioè — molto medievalmente peraltro — un organismo, una struttura universale, che consenta, per quanto è possibile in questa valle di lacrime, realizzare la pace di Cristo nella verità e nella giustizia.

Se l’Occidente è quello che è, lo è grazie anche a questa struttura che è allo stesso tempo prodotto del suo ethos, e fattore plasmatore di questo ethos medesimo. Ringraziamo la Provvidenza che ha voluto creare e conservare questo grande istituto — anche se sempre più offuscato e indebolito — ai cristiani fino all’inizio del secolo XIX. E commiseriamo il nostro tempo in cui si cerca di costruire simulacri invertiti di questa suprema e benefica istanza. Per ridare una forma tangibile e universale alla regalità del Signore Gesù i tempi sono lunghi: è stato relativamente facile distruggere, lungo e arduo sarà ricostruire. Ci vorrà prima la instaurazione del trono di Cristo nei cuori, attraverso l’accettazione del sacrificio e nel riempimento di grazia divina per mezzo della preghiera e dei sacramenti: e di qui una nuova “esondazione” della regalità individuale fino a impregnare l’intera sfera temporale.

Si conclude l’anno liturgico e grazie a Dio se ne apre un altro: presto sarà Avvento e presto la memoria della nascita del Re. Una nascita povera e splendente: di nuovo tornano le due dimensioni dell’umanità divina del Signore, che si ripresenteranno più oltre nella Croce quaresimale e nella Risurrezione pasquale.

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