Da una parte le sue lucide analisi dispensano, infatti, quasi quotidiane pillole di saggezza e di severità nonché frequenti rampogne sulla decadenza politica del paese. Dall’altra, invece, l’autorevole commentatore politico non si fa scrupolo di bacchettare il Papa e di ammannire una sonora reprimenda ai cattolici in materia di diritto all’obiezione di coscienza per i farmacisti che vogliano sottrarsi all’obbligo (per ora potenziale) di vendere prodotti abortivi chimici.
Romano, nella rubrica di lettere di cui è titolare sul Corriere della Sera (3 novembre 2007), si premura di precisare che chi svolge una “funzione pubblica” non può non obbedire alle leggi dello Stato e, se non lo vuol fare, è meglio per lui cambiare attività, nella fattispecie trasformarsi da farmacista in un volgare “negoziante”.
Tralascio la replica sui singoli punti – che opinione ha della professionalità e della deontologia dei farmacisti, Romano? come concepisce la funzione pubblica, come un ministero o un esercito, oppure come il libero esercizio di funzioni a vantaggio della collettività che chiunque può svolgere e in molti casi, non messi in discussione, di fatto svolge? Come si sposa questa concezione vetero-statalista con il fallimento mondiale dell’equazione pubblico = Stato? – e mi limito a due domande, più o meno “retoriche”.
Se si afferma da più parti che un soldato hitleriano aveva il dovere di disobbedire a un ordine di sterminio, perché invece si nega al farmacista – che per di più non è un soldato e non vuole affatto sopprimere bensì permettere che nasca una vita –, il diritto di dire di no, almeno per quanto lo concerne – cioè dispensare sostanze che curano e non veleni –, a una quasi certa (Norlevo) o inevitabile (Ru 486) soppressione di vita umana innocente?
E se, in virtù di una legge dello Stato – può capitare, ed è capitato –, un giornalista come Romano fosse obbligato a scrivere articoli di apologia di fascismo e questi, fondandosi sulla sua libertà di coscienza, rifiutasse di farlo, ci sarebbe qualcosa da eccepire? Credo proprio di no. E se qualcuno gli facesse osservare che, se non vuole obbedire a una legge dello Stato, può fare, invece che il giornalista, il copista, lo scriba, il dattilografo, cosa che nella maggioranza dei casi equivale in realtà alla disoccupazione?
Questa defaillance del noto scrittore è tuttavia rivelatrice di un altro aspetto sconcertante per i più. Di quale sia cioè la mentalità, la “cultura”, di un certo ambiente, politico e pre-politico, che si potrebbe definire “conservatore nazionale” o liberal-conservatore. Si tratta di una cultura che in Italia è abbondata nei due secoli passati, dal liberalismo “di destra” – alla Crispi – a un certo nazionalismo novecentesco. Una posizione sostanzialemente agnostica in religione, relativista in morale e laicista “moderata” nella politica ecclesiastica, che all’esterno ostenta una faccia conservatrice e che pone l’interesse nazionale come prima cosa, quindi lato sensu autoritaria. Mentre poi, ad intra, professa o anche solo dà diritto di cittadinanza alle teorie più “liberali-libertine” di volta in volta possibili, proprio in nome di quella statolatria attraverso cui esprime un culto della nazione così forte da rendere relative anche le opzioni religiose e morali. Solo che due secoli fa era in gioco magari la libertà di fare i propri comodi in campo sessuale, oggi, invece, nel degrado etico generale, è in gioco di decidere della vita o della morte dell’essere più debole che possa esistere.
Se si vuole dunque difendere la vita, la famiglia e l’educazione – le basi non negoziabili di ogni convivenza civile – bisogna diffidare di queste posizioni falsamente conservatrici e francamente falsamente autorevoli, che – magari per ragioni “superiori” o apparentemente “nobili”, ma più spesso logora reiterazione di luoghi comuni vetero-laicisti –, con serenità oggi danno un colpo al cerchio (la politica attuale) e domani magari, con la stessa serenità, alla botte (il concepito o il matrimonio naturale o la scuola libera).
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