“Diritto di morire con dignità”: è uno slogan che si sente ripetere ormai da ogni pulpito mediatico. Chi riferisce fatti e circostanze concrete li rubrica ormai, in maniera apparentemente neutra, sotto questa voce. Ma vi è anche chi – spesso importanti ed esperti giuristi –, la usa intenzionalmente per descrivere con termini “a effetto” un aspetto dell’ideologia etico-giuridica progressista, imperniata sui diritti, veri o presunti, dell’uomo, per indicare il “diritto” che ciascuno avrebbe di porre fine ai propri giorni senza attendere la morte naturale.
Tuttavia, un’analisi anche superficiale dell’espressione induce a porsi non pochi interrogativi riguardo allo scenario normativo, già esistente oppure in fieri, che essa configura.
Morire è un diritto? E poi perché solo morire “con dignità”?
Se si riflette, per ciascun individuo autocosciente morire è certamente una facoltà. Ognuno di noi sotto certe condizioni può optare per porre fine alla propria esistenza e può altresì riuscirvi praticamente senza fallo: quanti sono i casi di tentato suicidio reiterati fino a quello “buono”... Uccidersi – come pure uccidere – o lasciarsi morire è oggetto della nostra libertà. E la gamma degli strumenti a disposizione è direttamente proporzionale alla fantasia dell’uomo…
Ma morire è anche un diritto? E, ancor prima, che cos’è un diritto?
Secondo una classica definizione giuridica la giustizia, ciò che è conforme al Recht dei germani e allo ius dei latini, cioè al diritto, “est suum cuique tribuere”, dare a ciascuno il suo. Il diritto è dunque qualcosa che ciascuno possiede come schiettamente “sua”, che gli compete, che gli è dovuta. E in virtù di che cosa? Del fatto che è fatti come siamo fatti, per la sua “natura” e per la sua essenza umane. Quindi, per il fatto di essere creatura razionale e morale, ovvero che non obbedisce a una legge – che comunque lo precede – meccanicamente o fatalmente, ma per la propria libera volontà.
Il darsi la morte è dunque qualcosa di nostro, che ci appartiene, qualcosa che inerisce alla nostra natura di essere ragionevole e morale? Tecnicamente sì. Ma lo è anche sotto il profilo del “dover essere”, di ciò che ci compete sempre e ovunque? Allora, senza alcuna esitazione, no.
Il vivere non è frutto di una nostra volontà deliberata: ci si trova “vivi” quando, a un certo punto della nostra crescita, si avverte non più solo istintualmente che siamo cosa diversa da un sasso o da un animaletto – un insetto, un uccellino, una lucertola – che non si muove più…
Così pure il momento della fine “naturale” della vita e il modo in cui usciremo da questo mondo ci sono ignoti. Ora, il non conoscere né l’inizio né la fine di un processo in cui pur siamo coinvolti in radice ci dice ragionevolmente che tale processo non è nella nostra disponibilità e che, come non possiamo attivarlo ad nutum, così non possiamo interromperlo deliberatamente.
Dunque, né uccidersi né lasciarsi morire è del tutto possibile ma non è mai un diritto.
Non essendo un diritto, l’azione di attuare la propria morte o di aiutare una terza persona a infliggersela, uccidendola positivamente oppure lasciandola morire di stenti o di fame o di sete, è sempre un’azione illecita, quindi in tesi sempre e ovunque illegale.
È elementare osservarlo – e queste brevi note sono solo riflessioni di un soggetto che non né giusperito, né filosofo –, per cui lascia davvero sgomenti e produce un’acuta amarezza vedere ordinamenti civili lasciare tranquillamente esistere e operare organizzazioni, come la nota e trista “Exit”. A riguardo, forse non è del tutto noto che le iniziative a favore dell'eutanasia e del suicidio in proprio o assistito sono promosse da un poderoso network internazionale, The World Federation of Right to Die Organizations, fondata nel 1980, che raggruppa ben 38 associazioni di 23 Paesi e la cui mission è “difendere o proteggere il diritto di auto-determinazione dell’individuo alla fine della vita” – ovvero la cui ragione sociale è il suicidio organizzato e a pagamento – e il cui motto è “Difendere la scelta di una morte dignitosa”. Se non si tiene conto di questa trama di fondo, che agisce per lo più discretamente, non si capisce come “casi” apparentemente spontanei, come il tentativo di porre fine ai giorni di una disabile grave come Eluana Englaro non solo possano sorgere ma vengano condotti avanti fino alle estreme conseguenze con una volontà ferrea e refrattaria di ogni considerazione razionale ed emotiva.
Si tratta di un atteggiamento apparentemente filantropico, ma che trasuda una rivolta in nome dell'autoreferenzialità che difficilmente si spiega, se non rievocando quell’odio per la vita e, attraverso di esso, per il Creatore, che ha caratterizzato correnti dell’antico dualismo gnostico... Ed è curioso – ma fino a un certo punto – osservare come queste posizioni siano quasi sempre accompagnate da una intransigente opposizione alla pena di morte. Si trova cioè giusto conferire a un singolo o a terzi privati il diritto di uccidere una persona – non solo quando è ancora in utero, ma adulta perché ammalata oppure semplicemente stufa di vivere –, più spesso una persona debole e innocente, mentre si nega di principio all’autorità legittima, sotto ben precise condizioni, il diritto-dovere di punire anche con la morte per liberare definitivamente la società da soggetti altamente nocivi, in genere adulti e responsabili, condannati in ultima istanza per gravissimi delitti. Ed è ancor più curioso, al limite, vedere che nella medesima prospettiva si estende talora questa opposizione allo stesso ius belli, al diritto-dovere cioè che ha uno Stato di fare la guerra per difendere la comunità cha ha la missione di organizzare.
Come ultima osservazione, se, paradossalmente, il diritto a morire prima della morte naturale esistesse, perché lo si ammette da taluni – ovviamente esiste chi difende il diritto al suicidio, autonomo o assistito, tout court – solo purché ciò avvenga “per” dignità e “con” dignità?
Perché invece non quando viene attuato con modalità “indegne”, nel fine e nel modo? E che cosa vuol dire “degno” in questo contesto? Degno è ciò che si confà al nostro status, alla nostra condizione obiettiva. Il termine copre una gamma vastissima di proprietà umane, degno può essere ciò che inerisce alla nostra umanità oppure semplicemente alla nostra condizione sociale o alla nostra classe di età, e così via… Per cui, come si può stabilire e chi può stabilire quando qualcosa – nella fattispecie il morire prematuro e volontario –, sia un modo di lasciare questo mondo “degno”? Qual è il criterio?
La forma della morte? Cioè, chi si butta dal settimo piano oppure si getta sotto un treno in corsa si uccide in maniera “indegna”, mentre chi si taglia le vene o si fa praticare un’iniezione letale, no? Il “degno” sta dunque nell’evitare le brutture che la fase terminale di una malattia c’infligge? Evitare il dolore, la sporcizia, l’umiliazione del non poter più disporre del proprio corpo e delle sue funzioni anche più elementari?
Oppure il fine? Ma oggi c’è chi vorrebbe morire perché è diventato brutto, oppure per una delusione amorosa o per debiti o perché è morto il cagnolino… Non è una battuta: la condizione moderna, con la solitudine e l’indifferenza che induce, non di rado porta personalità psicologicamente fragili o più spesso “infragilite” a trovare ragioni per morire in cose di una secondarietà assoluta, a fronte di accadimenti che avrebbero incontrato l’indifferenza o forse sollevato l’ilarità di un uomo o di una donna del nostro ben più difficile passato…
Tutti questi interrogativi mi pare minino in radice la sensatezza dell’espressione segnalata in esordio e rafforzino invece la nozione di esistenza come datum, come cosa che ci viene consegnata da altri, o, quanto meno, di una realtà nostra ma totalmente indisponibile a noi stessi e a terzi. Un datum che, se lo si legge alla luce di categorie che non sono meramente naturali – le quali sono comunque più che sufficienti per normare i comportamenti dell’uomo in società e delle società nei riguardi del singolo –, diventa donum e opportunità unica e preziosa non solo per affrontare la propria fine naturale, ma anche per varcare “con dignità” – questa volta sì il termine ha senso – la soglia della morte e addentrarsi nella “vita vera” dell’anima che non ha fine.
19-1-2009
Tuttavia, un’analisi anche superficiale dell’espressione induce a porsi non pochi interrogativi riguardo allo scenario normativo, già esistente oppure in fieri, che essa configura.
Morire è un diritto? E poi perché solo morire “con dignità”?
Se si riflette, per ciascun individuo autocosciente morire è certamente una facoltà. Ognuno di noi sotto certe condizioni può optare per porre fine alla propria esistenza e può altresì riuscirvi praticamente senza fallo: quanti sono i casi di tentato suicidio reiterati fino a quello “buono”... Uccidersi – come pure uccidere – o lasciarsi morire è oggetto della nostra libertà. E la gamma degli strumenti a disposizione è direttamente proporzionale alla fantasia dell’uomo…
Ma morire è anche un diritto? E, ancor prima, che cos’è un diritto?
Secondo una classica definizione giuridica la giustizia, ciò che è conforme al Recht dei germani e allo ius dei latini, cioè al diritto, “est suum cuique tribuere”, dare a ciascuno il suo. Il diritto è dunque qualcosa che ciascuno possiede come schiettamente “sua”, che gli compete, che gli è dovuta. E in virtù di che cosa? Del fatto che è fatti come siamo fatti, per la sua “natura” e per la sua essenza umane. Quindi, per il fatto di essere creatura razionale e morale, ovvero che non obbedisce a una legge – che comunque lo precede – meccanicamente o fatalmente, ma per la propria libera volontà.
Il darsi la morte è dunque qualcosa di nostro, che ci appartiene, qualcosa che inerisce alla nostra natura di essere ragionevole e morale? Tecnicamente sì. Ma lo è anche sotto il profilo del “dover essere”, di ciò che ci compete sempre e ovunque? Allora, senza alcuna esitazione, no.
Il vivere non è frutto di una nostra volontà deliberata: ci si trova “vivi” quando, a un certo punto della nostra crescita, si avverte non più solo istintualmente che siamo cosa diversa da un sasso o da un animaletto – un insetto, un uccellino, una lucertola – che non si muove più…
Così pure il momento della fine “naturale” della vita e il modo in cui usciremo da questo mondo ci sono ignoti. Ora, il non conoscere né l’inizio né la fine di un processo in cui pur siamo coinvolti in radice ci dice ragionevolmente che tale processo non è nella nostra disponibilità e che, come non possiamo attivarlo ad nutum, così non possiamo interromperlo deliberatamente.
Dunque, né uccidersi né lasciarsi morire è del tutto possibile ma non è mai un diritto.
Non essendo un diritto, l’azione di attuare la propria morte o di aiutare una terza persona a infliggersela, uccidendola positivamente oppure lasciandola morire di stenti o di fame o di sete, è sempre un’azione illecita, quindi in tesi sempre e ovunque illegale.
È elementare osservarlo – e queste brevi note sono solo riflessioni di un soggetto che non né giusperito, né filosofo –, per cui lascia davvero sgomenti e produce un’acuta amarezza vedere ordinamenti civili lasciare tranquillamente esistere e operare organizzazioni, come la nota e trista “Exit”. A riguardo, forse non è del tutto noto che le iniziative a favore dell'eutanasia e del suicidio in proprio o assistito sono promosse da un poderoso network internazionale, The World Federation of Right to Die Organizations, fondata nel 1980, che raggruppa ben 38 associazioni di 23 Paesi e la cui mission è “difendere o proteggere il diritto di auto-determinazione dell’individuo alla fine della vita” – ovvero la cui ragione sociale è il suicidio organizzato e a pagamento – e il cui motto è “Difendere la scelta di una morte dignitosa”. Se non si tiene conto di questa trama di fondo, che agisce per lo più discretamente, non si capisce come “casi” apparentemente spontanei, come il tentativo di porre fine ai giorni di una disabile grave come Eluana Englaro non solo possano sorgere ma vengano condotti avanti fino alle estreme conseguenze con una volontà ferrea e refrattaria di ogni considerazione razionale ed emotiva.
Si tratta di un atteggiamento apparentemente filantropico, ma che trasuda una rivolta in nome dell'autoreferenzialità che difficilmente si spiega, se non rievocando quell’odio per la vita e, attraverso di esso, per il Creatore, che ha caratterizzato correnti dell’antico dualismo gnostico... Ed è curioso – ma fino a un certo punto – osservare come queste posizioni siano quasi sempre accompagnate da una intransigente opposizione alla pena di morte. Si trova cioè giusto conferire a un singolo o a terzi privati il diritto di uccidere una persona – non solo quando è ancora in utero, ma adulta perché ammalata oppure semplicemente stufa di vivere –, più spesso una persona debole e innocente, mentre si nega di principio all’autorità legittima, sotto ben precise condizioni, il diritto-dovere di punire anche con la morte per liberare definitivamente la società da soggetti altamente nocivi, in genere adulti e responsabili, condannati in ultima istanza per gravissimi delitti. Ed è ancor più curioso, al limite, vedere che nella medesima prospettiva si estende talora questa opposizione allo stesso ius belli, al diritto-dovere cioè che ha uno Stato di fare la guerra per difendere la comunità cha ha la missione di organizzare.
Come ultima osservazione, se, paradossalmente, il diritto a morire prima della morte naturale esistesse, perché lo si ammette da taluni – ovviamente esiste chi difende il diritto al suicidio, autonomo o assistito, tout court – solo purché ciò avvenga “per” dignità e “con” dignità?
Perché invece non quando viene attuato con modalità “indegne”, nel fine e nel modo? E che cosa vuol dire “degno” in questo contesto? Degno è ciò che si confà al nostro status, alla nostra condizione obiettiva. Il termine copre una gamma vastissima di proprietà umane, degno può essere ciò che inerisce alla nostra umanità oppure semplicemente alla nostra condizione sociale o alla nostra classe di età, e così via… Per cui, come si può stabilire e chi può stabilire quando qualcosa – nella fattispecie il morire prematuro e volontario –, sia un modo di lasciare questo mondo “degno”? Qual è il criterio?
La forma della morte? Cioè, chi si butta dal settimo piano oppure si getta sotto un treno in corsa si uccide in maniera “indegna”, mentre chi si taglia le vene o si fa praticare un’iniezione letale, no? Il “degno” sta dunque nell’evitare le brutture che la fase terminale di una malattia c’infligge? Evitare il dolore, la sporcizia, l’umiliazione del non poter più disporre del proprio corpo e delle sue funzioni anche più elementari?
Oppure il fine? Ma oggi c’è chi vorrebbe morire perché è diventato brutto, oppure per una delusione amorosa o per debiti o perché è morto il cagnolino… Non è una battuta: la condizione moderna, con la solitudine e l’indifferenza che induce, non di rado porta personalità psicologicamente fragili o più spesso “infragilite” a trovare ragioni per morire in cose di una secondarietà assoluta, a fronte di accadimenti che avrebbero incontrato l’indifferenza o forse sollevato l’ilarità di un uomo o di una donna del nostro ben più difficile passato…
Tutti questi interrogativi mi pare minino in radice la sensatezza dell’espressione segnalata in esordio e rafforzino invece la nozione di esistenza come datum, come cosa che ci viene consegnata da altri, o, quanto meno, di una realtà nostra ma totalmente indisponibile a noi stessi e a terzi. Un datum che, se lo si legge alla luce di categorie che non sono meramente naturali – le quali sono comunque più che sufficienti per normare i comportamenti dell’uomo in società e delle società nei riguardi del singolo –, diventa donum e opportunità unica e preziosa non solo per affrontare la propria fine naturale, ma anche per varcare “con dignità” – questa volta sì il termine ha senso – la soglia della morte e addentrarsi nella “vita vera” dell’anima che non ha fine.
19-1-2009
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