Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera di oggi (21 marzo 2014) prospetta una Italia spaccata in due fra anti-renziani e filo-renziani, ossia fra riformisti e immobilisti-conservatori, in una dialettica nuova, che avrebbe abbandonato la vecchia contrapposizione destra-sinistra.
In gran parte l’immagine è bella e in buona misura aderente al reale, ma pecca — e non poco — in due punti.
Primo: il columnist del Corriere accredita l’idea che Renzi goda ormai del consenso di metà degl’italiani e forse di più, nonché che abbia fatto suo “il popolo”.
Secondo: che quello di Renzi sia l’unico riformismo possibile.
La prima affermazione pare lampantemente una forma di wishful thinking: dove sono i fatti che sostanziano questa diagnosi? forse nella ennesima replicaa mediatica della figura del “salvatore dell'Italia”, probabilmente più da Berlusconi che dai suoi mali? Ancora: che fine fa l'area anti-sistema, particolarmente corposa dopo il trionfo elettorale di Grillo nelle ultime elezioni? E si tratta di milioni d'italiani che sfuggono alla dialettica “Renzi sì-Renzi no” perché ostili a Renzi, come a qualunque altro leader politico “classico”.
La seconda poi è una palese falsità, che un politologo così accreditato come il professore romano non dovrebbe permettersi di coltivare, né tanto meno, di veicolare.
Premesso che è vero che nelle dichiarazioni del neo-premier si rinviene una forte spinta verso il cambiamento, non va dimenticato che si tratta sempre di cambiamento “targato” PD, dai molti motivi che riecheggiano la politica — peraltro fallimentare — della sinistra comunista, postcomunista e cattolico-democratica degli ultimi decenni, e che rileva, fa suoi, altresì molti dei motivi ribellistici che si collocano nell'area del liberalismo radicale — alla Bonino, per intenderci — come nell’estrema sinistra — alla Scalfarotto, pur deputato PD, e alla Boldrini, sempre per intenderci.
Galli della Loggia pare (voler) ignorare che a destra, in quell’area liberale-moderata con visibili venature conservatrici — nel senso autentico dell'aggettivo — e popolari che nel 2008 ha vinto alla grande le elezioni, esistono spinte riformistiche altrettanto forti e altrettanto “eversive” di uno stato di cose ormai ossificato, che conservano più di uno dei motivi che sostanziano la battaglia dei cattolici per l’educazione, la famiglia naturale e la vita e del classico antistatalismo liberale (e, alla voce “sussidiarietà”, presente altresì da secoli nella dottrina sociale della Chiesa). Un riformismo che ha da sempre ampie e profonde radici popolari, il cui unico difetto — tralasciando l'eterogeneità delle culture politiche che l'animano —, come si è visto nei decenni scorsi, è di non avere sponsor, se non gli elettori, la gente, quegl'italiani che, come si diceva una volta, non hanno ancora “portato il cervello all'ammasso”. Infatti anche se ottenesse nuovamente una maggioranza nei due rami del parlamento e gestisse l’esecutivo, questa forza moderata mancherebbe in pieno del sostegno dei poteri forti — che Galli della Loggia ben conosce e sa sapientemente descrivere —: dalla presidenza della Repubblica — che, da Francesco Cossiga in poi è il vero dominus incontrastato, alla faccia della Costituzione, della politica italiana — alla magistratura egemonizzata dalle correnti della sinistra più radicale; dai sindacati ai mass media — incluse le televisioni di proprietà della famiglia Berlusconi —; dall’intellighenzia all’editoria, dagli establishment dei Paesi esteri alla stessa Unione Europea “dei sorrisini” e alle oligarchie finanziarie globali.
È questo riformismo, che si muove apparentemente al di fuori di ogni operazione “ortopedica e pedagogica” — per rifarsi a una felice aggettivazione di Giovanni Orsina — verso il corpo della nazione e in maggior sintonia con le sue radici storiche e culturali, che con l’operazione Renzi rischia di scomparire, quanto meno sul piano delle rappresentazioni mediatiche di massa.
Di scomparire non più sotto la cappa greve e fissistica dell’ideologia progressista postcomunista, ma sotto lo smalto di un pseudo-riformismo semi-carismatico, che se avrà — e aspettiamo fatti diversi da nuove e più fantasiose tasse — un futuro, farà saltare molti degli equilibri nocivi odierni, ma probabilmente segnerà l’avvio dell’ennesimo tentativo di piegare la nazione a un’altra forma d’ideologia, movimentistica finché si vuole, ma sempre progressistico-radicale, che sostituirà forse il classico corsetto di gesso con altre più moderne ma analoghe strumentazioni ortopediche. E ci regalerà una Italia “moderna”, in linea con “i tempi”, con il matrimonio omosessuale, o simile, e con “finalmente” — come auspica ardentemente un capo dello Stato ormai “alla frutta”, ma sempre coerente con le radici anti-umane e anti-italiane dell'antico bolscevismo — una legge, ovviamente eutanasica, sul “fine vita”; con il cattolicesimo — a dispetto dello scoutismo delle origini del premier e dei sicuri abbracci con il papa — sempre più emarginato; con lo Stato che non ridimensionerà nemmeno di un centimetro la sua area di controllo della società — la prospettata elargizione dei mille euro ai meno ricchi parla da sé —, ma al massimo baratterà una fetta di potere con un’altra; con una deterrenza militare da Quarto Mondo; una subalternità rispetto a Bruxelles che sfiorerà lo strisciamento; con un degrado sociale e morale incontrollabile.
Una Italia che si allontanerà ancora di più dalle sue radici e il cui “ricupero” da parte di chi sa leggere i “segni dei tempi” — quelli veri, non quelli che ci prospettano i media, come accade purtroppo a molti vescovi — sarà ancora più disperato.
Il politologo romano, come sovente gli accade, si presenta come una prima pionieristica esperienza di questo rischio di lasciarsi affascinare — forse è un segno di disperazione, ma nella disperazione chi ha autorevolezza non deve cadere — da un movimentismo che ha contorni confusi ma matrice ben chiara e antica, dall'anteporre il cambiamento come tale ai suoi scopi e contenuti. Persone comelui devono evitare d'incorrere in nuovi e fatali abbagli che vengono insinuantemente proposti non a caso proprio alla migliore intellettualità del Paese.
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