giovedì 5 aprile 2007


Crisi della famiglia: dove sono le sue radici storiche?

Famiglia cristiana, il diffusissimo rotocalco della congregazione paolina, in un dossier sul tema della famiglia (pubblicato sul numero 13 del 1° aprile 2007), presenta un conciso ma efficace resumé di quello che l’autorità pubblica, al di là delle ripetute dichiarazioni di intenti e perfino della istituzione di un ministero per la famiglia, non ha fatto e non fa per aiutare la famiglia italiana. Si tratta di un elenco puntiglioso di normative attuali che si traducono in altrettante sperequazioni dirette o indirette verso l’istituto familiare. Autore dell’elenco — redatto in forma di decalogo e nel contesto di un manifesto-appello — è il Comitato per la Famiglia (sede organizzativa: viale Libia 174, 00199 Roma, tel. 06.86.38.63.92, comitatofamiglia@tiscali.it), un organismo nato in seno alla confederazione italiana dei consultori familiari di ispirazione cristiana.
Ecco in sintesi i dieci punti: [1.] «LE TRATTENUTE IRPEF. L’attuale sistema di tassazione non prevede l’esistenza della famiglia. Un single che guadagna 40.000 euro l’anno viene tassato allo stesso modo di un capofamiglia con 2, 4, 6 o 8 figli. […] Le cosiddette detrazioni per familiari a carico non fanno che restituire una minuscola parte di quello che viene tolto pagando le tasse. [2.] GLI ASSEGNI FAMILIARI. Gli assegni rientrano in una logica “assistenzialista”. Questo può essere considerato un paradosso del sistema, se pensiamo che sono le famiglie numerose quelle che più portano benefici allo Stato, non solo perché immettono nuova manodopera giovane e lo fanno allevandola a loro spese, ma anche perché questi figli, coi loro consumi, contribuiscono sia a far girare l’economia sia a rimpinguare le casse dello Stato, pagando il 20 per cento di Iva su ogni prodotto acquistato. [3.] L’ICI. L’imposta sulla casa è pagata in base al valore catastale, che è tanto più alto quanto maggiore è il numero dei metri quadri o dei vani. Al legislatore non interessa che il numero dei vani in molti casi salga col numero dei figli. […]. [4.] LA LUCE. Il consumo di elettricità viene addebitato per fasce progressive di consumo, che avrebbero lo scopo di penalizzare i più sciuponi: più consumi, più i kilowatt sono salati. Ma allo Stato non interessa se il maggior consumo di kilowatt derivi per caso da un maggior numero di componenti nel nucleo. […] [5.] IL GAS. Ultimamente il costo del gas al metro cubo è salito più del 20-30 per cento. Lo Stato applica inoltre un’imposta Iva doppia rispetto a quella della luce: il 20 per cento. Ma in realtà si paga di più a causa di una speciale “imposta di consumo”, che in seconda fascia aumenta del 318 per cento. Le più penalizzate sono, come risulta evidente, le famiglie. [6.] L’ACQUA POTABILE. La tariffa sociale a metro cubo dell’acqua, applicata sulle bollette delle famiglie, costa il 25 per cento in più rispetto a quella per le attività zootecniche. […] [7.] L’ASSISTENZA SANITARIA. Anche nel caso dei ticket sulle prestazioni sanitarie, sempre più cari, l’eventuale esenzione non è concessa in base al reddito pro-capite, ma per l’età o il reddito complessivo. […] [8.] I FARMACI GENERICI. Nei farmaci generici, che costano molto meno, non sono compresi farmaci a uso pediatrico. [9.] IL BOLLO AUTO. Più un’auto è di grossa cilindrata, e più aumenta il costo del bollo, ma lo Stato non valuta la possibilità che spesso, dietro l’acquisto di una vettura a 7 o 9 posti, si cela per una famiglia numerosa una necessità imprescindibile, e non un simbolo di status. […] [10.] L’ISEE. Un numero sempre crescente di agevolazioni (borse di studio, contributi libri di testo, rette scolastiche) fa riferimento all’Isee, l’indice di ricchezza di una famiglia, in cui rientra anche il reddito della prima casa (che inevitabilmente sale col numero di metri quadri da offrire ai figli), ma la più palese ingiustizia è che, nei calcoli, ogni figlio è conteggiato pari a 0,35, piuttosto che pari a 1».
Si tratta, a mio avviso, di squilibri gravi, che vanificano qualunque discorso pubblico sulla famiglia finché non saranno rimossi.

Ma, se si riflette, ci si accorge che l’origine di queste disuguaglianze non è accidentale, ma strutturale. Va cioè al di là delle politiche dei vari governi che si sono succeduti alla guida del Paese dall’Unità in poi — ad esclusione del regime fascista, che qualcosa fece, pur se in nome di principi anch’essi ideologici, per la famiglia — e persino, sotto il profilo “tecnico”, degli ordinamenti stessi. Lo si evince, per esempio, dal fatto che, anche nella scorsa legislatura, con un governo di centro-destra non poco sensibile al richiamo della famiglia, anche per la presenza di una forte componente cattolica nel suo elettorato, ciò che è stato possibile fare per alleviare le condizioni della famiglia non è consistito nel rimuovere le disuguaglianze sopra descritte, ma solo nell’introdurre provvedimenti ad hoc, non permanenti — si pensi al «buono-scuola» —, prontamente rimossi dal governo di centro-sinistra oggi al potere.
Questa constatazione ovviamente non va discarico i governi delle loro responsabilità, né vuole ignorare i problemi sociali che influiscono sulla condizione dell’istituto familiare oggi — il pauroso calo demografico, la frattura generazionale, il lavoro materno obbligato, la facile solvibilità dei legami matrimoniali, la legalizzazione dell’aborto —, ma fa intendere che in ultima analisi si tratta di un problema di idee, di cultura, ovvero di visione del mondo e delle finalità dell’uomo che risale assai indietro nel tempo.

Che cosa è considerato, almeno da due secoli, prioritario rispetto alla famiglia o ad altre realtà umane collettive negli ordinamenti delle società occidentali? Null’altro se non l’individuo.
Da tutti e dieci i punti del dossier traspare chiaramente che gli attuali ordinamenti — qui come altrove — sminuiscono — se non ignorano del tutto — la dimensione delle relazioni di cui l’individuo è centro, sia perché egli le stabilisce — o le trova stabilite — per rispondere a esigenze di natura — la conservazione in vita, la propagazione della specie, l’educazione alla vita in comune —, sia perché le istituisce liberamente. Non danno, in altre parole, rilievo al ruolo — per usare un termine sociologico — che l’individuo riveste, negando diritti — contro il principio di sussidiarietà, pur presente nella Carta costituzionale italiana —, non solo politici, ma anche economici, a quelli che nella società sono i «corpi», tutte quelle realtà cioè che si situano sul percorso ideale nella piramide sociale che va dal cittadino allo Stato: in primo luogo alla famiglia, incluse le sue ramificazioni parentali, poi alle associazioni professionali o lavorative, ancora alle realtà educative.
La ricerca del perché di questo atteggiamento del legislatore — ormai divenuto una sorta di «canone», che non viene più rimesso in discussione se non da qualche isolato giurista — rimanda a una indagine sulla cultura della modernità o, meglio, su quella declinazione di essa che assolutizza — facendone quindi un’ideologia — quel portato, in sé positivo, della cultura della modernità occidentale che si esprime in una maggiore attenzione alla sfera dei diritti individuali.
Nei regimi precedenti alla Rivoluzione francese i diritti dei corpi erano riconosciuti sia in esplicito, nelle carte e nei patti sociali, sia, in forma non espressa, nel diritto consuetudinario, in quanto in genere i corpi erano più antichi delle nuove forme di sovranità che l’età moderna inaugura. Con il 1789, invece, i corpi sociali perdono d’imperio ogni rilevanza di natura pubblicistica. Anche se la ricupereranno eventualmente in seguito, ma solo in parte, come istituti di carattere privatistico, soggetti al riconoscimento dello Stato —, gli ordinamenti di tutti gli Stati europei o di matrice europea — chi prima, chi dopo, ma pressoché tutti dopo il 1870-1880, soprattutto nella misura in cui il Code Napoléon si diffonde durante e dopo il ventennio cesareo e ispira gli ordinamenti degli Stati nazionali liberali —, si imperniano sull’in­di­vi­duo e non più sui corpi. E ciò che resta del riconoscimento della sfera in cui i diritti individuali si inevitabilmente proietterebbero, appunto la sfera relazionale, si assottiglia sempre più col passare del tempo e con l’avvento di regimi radicali. La legislazione stessa degli Stati socialisti si manterrà sostanzialmente su questa falsariga, anzi amplierà la gamma delle libertà individuali riconosciute, anche se poi, nella realtà, l’individuo socialista sarà sempre più simile a un burattino nelle mani di corpi intermedi artificiali promananti dal Partito, attuando il totalitarismo allo stato puro.
La penalizzazione della famiglia — e degli altri corpi — risale quindi a molto lontano, a questa opzione che rende totalitario ed escludente un principio in sé buono.
Come mai, potremmo chiederci per completezza di argomentazione, queste disparità si rivelano solo oggi così acute? Che cosa in passato le ha fatte avvertire di meno? Il discorso sarebbe lungo. Un abbozzo di risposta potrebbe essere: il passaggio da una condizione sociale A a una condizione sociale B, nella concretezza dei rapporti coinvolti, non avviene in pochi anni ma richiede tempi lunghi. Un’immagine utile per capire quanto è accaduta potrebbe essere quella della progressiva erosione della carne e dell’apparire graduale dell’osso: fuori di metafora, solo nel tempo le virtualità eversive insite negli ordinamenti liberali si sarebbero palesate come tali. Per esempio, la famiglia ha «tenuto» finché il matrimonio non fu concepito solo come la conclusione di una storia d’amore di due individui ma come la creazione di un caposaldo della società, quindi da preparare con cura anche nei suoi aspetti materiali. Oppure finché esistettero le proverbiali «vecchie zie: quella delle zie non è una boutade ma un tema d’indagine storica e sociologica non privo d’interesse. Per capire quanta importanza le scelte «sacrificali», soprattutto femminili — con il nubilato volontario —, ma anche maschili — con la gestione oculata delle scelte successorie —, abbiano avuto nella sopravvivenza della struttura famigliare. Poi, a mano a mano che la famiglia si è appiattita sulle sue forme mononucleari, e si è quindi indebolita come soggetto sociale nei confronti dello Stato è affiorato in tutto il suo peso appunto il «peso» della struttura pubblica sulla famiglia.

Ciò detto — visto cioè che la crisi attuale risale a una certa cultura, che esiste da secoli e che impronta gli ordinamenti — occorre evitare la tentazione di pensare che la collocazione del problema in prospettiva storica renda la condizione in cui versa la famiglia meno drammatica, come se fosse un dato di natura, contro il quale non ha senso combattere. Anzi, occorre vigilare per evitare che la situazione — come ampiamente possibile — peggiori e incalzare questo e ogni governo perché nondia ascolto alle istanze pseudo-libertarie e ultra-ugualitarie, ostili alla famiglia, di alcune sue componenti e si muova invece a vantaggio della più importante cellula dell'ordine sociale.
La considerazione che faccio serve solo a far capire che non si può andare alla radice del problema senza un processo di ripensamento dei presupposti «filosofici» stessi della famiglia e della società nel suo complesso, che è poi quello che chiede — in maniera non astratta, ma propositiva —, da decenni se non da secoli, la dottrina sociale cristiana e la filosofia sociale conservatrice.
È realizzabile un cambiamento di percorso, una rettifica, l’abbandono di un’opzione preconcetta e abusiva di un buon principio? Credo di sì, anche se si tratterà certo un processo assai lungo.
In fin dei conti la rinascita e l’affermazione dei corpi sociali nel cosiddetto Medioevo è stata propiziata da un evento colossale e traumatico come lo sgretolamento della struttura imperiale romana e il vuoto che questo crollo ha creato. Lasciata libera, bongré malgré, dalle sovrastrutture createsi storicamente, la società in Occidente è rinata — con tutti i drammi che un ambiente diventato «selvatico» e l’inte­gra­zione di soggetti nuovi imponevano — ricalcando le linee che scaturiscono dall’antropolo­gia umana, dal diritto naturale e dalla consuetudine. Senza augurarmelo, solo in presenza di traumi tali da generare un vuoto comparabile o analogo alla caduta dell’impero di Roma, la società europea potrà tornare a ripercorrere le linee sorgive della sua condizione istituzionale. Altrimenti — fatta sempre salva l'azione della Provvidenza divina — dipenderà dalla capacità delle agenzie di elaborazione della cultura alternativa a quella progressista e individualista egemone di penetrare nell’opinione pubblica e di cambiare il senso comune fino al ripristino di ordinamenti che diano lo spazio dovuto non solo all’individuo ma anche ai corpi sociali.

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