Il problema storico dell'Insorgenza, cioè di quel grandioso ciclo di moti popolari che accompagna e contrasta la dominazione francese e napoleonica in Italia e nei Paesi europei tra la fine del Settecento e i primi decenni del secolo XIX, è tuttora aperto e le ricerche in merito sono tuttora largamente in stato di work-in-progress.
C'è tuttavia chi presume di considerare chiusa la questione sul piano scientifico, ma lo fa non adducendo nuovi fatti bensì anteponendo tesi e stereotipi interpretativi improntati all'ideologia progressista. Questo atteggiamento è quindi portato ineluttabilmente a condannare ogni lettura che muova da presupposti nuovi, diversi - per esempio conservatori -, nonché ogni sforzo di ricerca che parta da ipotesi di lavoro originali e spregiudicate. Di qui i reiterati attacchi che determinati gruppi di studiosi hanno portato e portano contro quella nuova storiografia, nata negli ultimi decenni, la quale offre dell'Insorgenza una visione più ampia, meglio fondata e meno condizionata da premesse ideologiche. In questi ambienti esiste in effetti il timore diffuso che rivalutando - o solo riscoprendo - questa pagina di storia di possa rimettere in discussione il profilo identitario della nostra nazione e, quindi, si possa attentare non tanto agli assetti costituzionali instaurati nel secondo dopoguerra, di loro abbastanza ampi, quanto a quella torsione in senso eversivo del dettato costituzionale attuata dalle forze di sinistra dal 1948 in poi, palesemente contro la volontà popolare. Il pericolo mi pare alquanto remoto e per certo non esiste un complotto contro l'identità "antifascista" condotto da ambienti reazionari legati alla "destra" al potere. Va comunque detto che la lettura del passato è di suo in continua evoluzione e, se le conclusioni più aggiornate e qualificate fanno emergere aspetti non considerati, è altresì giusto che le istituzioni pubbliche tengano conto di tali realtà e non esitino a rimodellarsi di conseguenza. Per esempio, la domanda di "federalismo", che sale da più parti del Paese, ha ragioni storiche profonde, che risalgono alla negazione delle tradizionali autonomie di governo delle comunità italiane attuata dalla neonata monarchia unitaria dopo il 1861. La riscoperta e la denuncia di questa negazione - che già a suo tempo incontrò aspre critiche - da parte di storici contemporanei per lo più fuori dall'"apparato" ha dovuto combattere per decenni contro la tesi opposta secondo cui il centralismo era l'unico modello idoneo al Paese. Ora, assistiamo invece al ristrutturarsi - pur con ampi margini di dubbio sulle modalità - delle istituzioni italiane su base federale o, quanto meno, decentrata. Aprendo una parentesi, questa distinzione non è oziosa ma, anzi, doverosa poiché il federalismo autentico, secondo la lezione profondamente sapiente del filosofo svizzero della politica Gonzague de Reynold, deve nascere dal basso, come libera associazione di corpi sovrani preesistenti, e non come provvedimento legislativo che cade dal vertice sulla base.
In ogni modo, se la vulgata sul federalismo si fosse conservata immutata, oggi il problema della sanatoria dei guasti del centralismo non sarebbe neppure all'ordine del giorno.
Il che vuol dire che attaccarsi tenacemente a visioni oleografiche del passato solo per ragioni ideologiche è non solo sbagliato sotto il profilo "professionale", ma anche nocivo per la comunità nazionale sulla quale il lavoro dello storico si riversa e al cui bene il suo sforzo trova la sua finalizzazione.
In questa prospettiva allego il link a un mio articolo che la rivista Studi cattolici ha publicato nel numero di gennaio 2009, in cui tutte queste tematiche sono sviluppate più in ampio.
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