martedì 28 aprile 2009


Il 25 Aprile a una svolta?

Alcune delle celebrazioni – forse le più importanti – della Liberazione di questo 2009 hanno avuto toni indiscutibilmente nuovi.
Come scrivevo alla vigilia, da parte della Presidenza del Consiglio si annunciavano segnali, che hanno trovato conferma nel bel discorso che Silvio Berlusconi ha tenuto a Onna, la cittadina in provincia de L’Aquila che ha subito il maggiore danno dal terremoto delle scorse settimane.
Ma anche gl’interventi dell’ex dirigente comunista e attuale Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano hanno avuto accenti inusitati. Mentre, al contrario, le piazze in cui il 25 Aprile tradizionalmente rivive con maggior calore hanno confermato anch’esse le previsioni, adottando cioè – forse con un po’ meno di fiamma – il solito lo stile radicale e para-rivoluzionario.
Segni nuovi, dunque, forse pochi ma apprezzabili. Soprattutto è piaciuta la decisione del Presidente del Consiglio – e anche quella, per esempio, del Presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni – di partecipare dopo i non pochi forfait degli anni scorsi alle celebrazioni. E anche la scelta di Onna, con cui Silvio Berlusconi da un lato a scelto – forse emblematicamente – la vicinanza al popolo vero – fra l’altro vittima nel 1944 di una sanguinosa rappresaglia tedesca – e più sfortunato e, dall’altro, si è svincolato elegantemente dall’invito, tanto paternalistico quanto inconsistente, formulatogli dal segretario nazionale del Pd di intervenire alla cerimonia milanese, tradizionalmente la vetrina più vistosa, ma anche la più accesa per i suoi toni anti-governativi.
Di sicuro Berlusconi non è secondo a nessuno nel fiutare i tempi propizi, le opportunità e i rischi che una situazione concreta offre ha capito che l’antagonista ha le ali spuntate e che il Paese è stanco – le è sempre stato allergico, ma oggi non ne può più – di ideologia. Ha anche compreso che finalmente, almeno sotto certe condizioni, si poteva cominciare a imprimere qualche correzione all’immagine oleografica inerzialmente riproposta dal potere culturale e dalle forze di sinistra, ma sempre più erosa sul piano scientifico, come dimostrano i molti libri a grande diffusione di Giampaolo Pansa e le ricerche degli studiosi della Resistenza sempre più foriere di nuovi dati e di diverse prospettive interpretative. E che si poteva cominciare a ridurre nel 25 aprile la sua valenza e carica rivoluzionarie e a sottrargli quel carattere improprio e partigiano impressogli, peraltro, da un partito, quello comunista, che non c’è più e sul cui peso organizzativo vivono ancora illegittimamente di rendita i suoi stanchi epigoni.
Così il Presidente del Consiglio si è, come in altre occasioni, buttato: il suo discorso a Onna può essere considerato una svolta – si badi bene: una piccola svolta, anche se reale –, una non lieve “sostituzione di paradigma” nella lettura ufficiale dell’evento.
Che cosa ha detto Berlusconi? Il primo passaggio, «[…] ricordare gli orrori dei totalitarismi», in cui pone sullo stesso piano fascismo, nazionalsocialismo e comunismo, non è da considerare così scontato, anche a livello scientifico, ed è meritorio averlo incluso in un discorso pubblico così delicato. Quindi l’accenno al doveroso riconoscimento del sacrificio dei giovani soldati alleati di molti Paesi che hanno sconfitto l’esercito germanico. «Senza di loro – “osa” affermare il premier a soli tre giorni dalle dichiarazioni di Napolitano sul peso «determinante» della resistenza partigiana –, il sacrifico dei nostri partigiani avrebbe rischiato di essere vano». Non mi soffermo sul richiamo al dovere di pietà per i caduti della “parte sbagliata” perché è ormai rituale un po’ ovunque: mi piace sottolineare invece il passaggio del discorso secondo cui «una nazione libera […] non ha bisogno di miti. Come per il Risorgimento, occorre ricordare anche le pagine oscure della guerra civile, anche quelle nelle quali chi combatteva dalla parte giusta ha commesso degli errori, si è assunto delle colpe». Ecco, qui, oltre alla frecciatina sull’abuso della mitologia resistenziale, una chiara novità che apre una discussione sulle ombre non solo della Resistenza – «[…] un esercizio di verità, […] un esercizio di onestà» –, ma anche su quelle del Risorgimento, cosa davvero tanto importante, quanto probabilmente “scandalosa” per molti e diversi palati. Sappiamo bene quanto attento sia Berlusconi nel piazzare i suoi “affondo”: se lo ha fatto, evidentemente si è sentito di poterlo fare, di poter cioè opporre molta e buona letteratura storica all’avversario.
Anche la successiva menzione fra i co-protagonisti, a fianco dei partigiani, dell’Esercito del Sud, della Brigata Ebraica dell’Ottava Armata britannica, del brigadiere eroico Salvo D’Acquisto, dei soldati italiani deportati in Germania, dei semplici cittadini che rischiarono la vita per compiere piccoli gesti di appoggio alla lotta di liberazione o per salvare vite di concittadini di religione ebraica pare un elemento non irrilevante, perché mina alla radice il monopolio che i partigiani rossi hanno sempre imposto sulla Resistenza. E non ultimo – udite, udite – il Presidente ha voluto ricordare il ruolo speciale che ebbero gli ecclesiastici e i religiosi nel sacrificarsi per salvare vite umane.
Gli accenni alla Costituzione del 1948 sono chiari e deferenti – su di essa si «[…] fonda la nostra libertà» –, ma non la beatificano né la mummificano. Atto grandemente saggio e benefico, soprattutto perché in esso rifulse – insolitamente – uno spirito unitivo piuttosto che divisivo fra le varie forze politiche, la Carta è stata comunque un frutto dei tempi e di tempi di grandi tensioni e, dunque, il frutto di un compromesso, senz’altro lodevole, anzi il migliore possibile allora. Tuttavia, ha dei limiti: non solo perché il patto di compromesso era avvenuto tra forze politiche – per esempio i “cattolici democratici” erano una minoranza all’interno del mondo cattolico anche se, proprio perché unici legittimati in quanto riconosciuti sicuramente antifascisti, monopolizzavano la rappresentanza in sede costituente – che non riflettevano il sentire della totalità della popolazione, ma anche perché allora «fu […] mancato l’obiettivo di creare una coscienza morale “comune” della nazione, un obiettivo forse prematuro per quei tempi, tanto che il valore prevalente fu per tutti l’antifascismo, ma non per tutti l’antitotalitarismo. Fu il portato della storia, un compromesso utile a scongiurare che la Guerra Fredda che divideva verticalmente l’Italia non sfociasse in una guerra civile dagli esiti imprevedibili». Un grande momento unitario, che però «oggi, 64 anni dopo il 25 aprile 1945 e a vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino» ci deve spingere a «[…] costruire finalmente un sentimento nazionale unitario».
Chiara la critica: lo strabismo delle forze di governo del dopoguerra, che hanno visto il pericolo di una rinascita del fascismo senza avvedersi – o volersi avvedere – della enorme insidia del comunismo internazionale, nonché l’indicazione della necessità di sanare uno squilibrio che oggi non ha più senso, soprattutto dopo il “fatale” 1989.
Di qui l’appello finale a trasformare la festa della Liberazione in festa della libertà, includendovi tutto ciò che ha avuto, ha e che potrà avere un ruolo positivo in questa prospettiva. Cioè facendo riferimento a un valore fondante – non l’unico possibile, ma senz’altro vero – che va al di là della politica e si salda direttamente al sentire del popolo. La premessa è naturalmente privare la ricorrenza del «[…] carattere di contrapposizione che la cultura rivoluzionaria le ha dato, e che ancora “divide” piuttosto che “unire”». Bisogna dunque tornare a una festa del popolo, di tutto il popolo, rispettandone, nel retto spirito del 25 aprile, la volontà, quella volontà che ha imposto all’Italia, la forma repubblicana, che ha mandato – mi permetto di aggiungere – all’Assemblea Costituente una maggioranza di rappresentanti dei partiti moderati, e che, infine, il 18 aprile 1948 – Berlusconi pare essere l’unico personaggio politico di peso a ricordarsi della vittoria anticomunista di quel lontano aprile e ad apprezzarla – ha sancito plebiscitariamente una celta di campo decisiva e irrevocabile: «con la vittoria di De Gasperi, il popolo italiano si riconobbe nella tradizione cristiana e liberale della sua storia».
Questi mi sembrano i passaggi più significativi di quella piccola svolta che mi sono sentito di rilevare e di descrivere. Certo, vi sarebbero anche punti meritevoli di critica, come, per esempio, l’insistenza sulla libertà come valore supremo e non relativo – il primo valore, in politica, è il bene comune e non è sempre detto che esso coincida con la libertà e con la pace –, nonché l’accomunare cristianesimo e ideologia liberale, cose in realtà non poco eterogenee: ma, si sa, il nostro premier è un liberale e un liberista, anche se per fortuna non un liberale ideologico, alla Piero Gobetti, per intenderci.
Così pure riservare l’intento di difendere l’“onore della patria” e la “fedeltà a un giuramento” ai soli combattenti antifascisti: in realtà quelli della “parte sbagliata” – uso l’espressione senza ironia – ebbero solo un’altra, ma non meno degna – soprattutto con il “senno di allora” –, nozione e del primo e della seconda. Un sentimento spesso ancora più forte, se vogliamo: nell’autunno del 1943 infatti era difficile non intuire quali sarebbero state le sorti della guerra, come pure non vedere il pericolo che si profilava dietro le armate anglo-americane, cioè il trionfo del comunismo sovietico – un trionfo che nel 1945 fu reale e di straordinaria portata –, che impose per non meno di cinquanta-settant’anni la tragedia del socialismo reale a nobili ed antichi Paesi d’Europa.
Comunque, il discorso del premier non pare un’esternazione di circostanza, ma un documento importante, un netto segnale di un clima in via di cambiamento.
Non che il percorso che Berlusconi sbozza sia facile. I coaguli divisivi e ideologici sono meno densi di ieri ma ancora tenacissimi e, quindi, sono poche, a mio avviso, le speranze che la classe politica possa a breve dare segni di mutamento. Certo, è una classe politica dagli ampi limiti, ma senz’altro di positivo c’è che è meno ideologizzata della precedente e chissà… Ancora, l’appello unitario di Silvio Berlusconi pare “incontrare” a livello popolare: abilità del “messaggio”, stanchezza della gente per i troppi luoghi comuni, desiderio di una guida “forte” e di cose concrete sono tutti fattori favorevoli a che non venga vanificato.
Aspettiamo il 25 aprile 2010 per riparlarne.

venerdì 3 aprile 2009

L’opposizione ha un nuovo leader?
La lunga marcia dell’on. Fini da delfino di Almirante a “guida” dei “laici”


Il Presidente della Camera dei Deputati, terza carica istituzionale della Repubblica italiana, on. Gianfranco Fini, ha smesso di “mangiare pane e bioetica”, come fino a non molti anni addietro era solito fare. Oltre a un vigoroso anticomunismo democratico, si può dire che lo contraddistingueva proprio un vivace e ribadito amore per la vita umana “senza se e senza ma”.
La “svolta di Fiuggi”, da lui in prima persona voluta e realizzata nel prospettiva di un partito conservatore nuovo, ebbe fra le sue principali finalità proprio quella di porre fine alle ambiguità in materia etica e bioetica da cui il Movimento Sociale Italiano, nonostante il suo schieramento contro il divorzio e contro l’aborto, per la coesistenza al suo interno di due anime, quella socialista e quella moderata, era senza dubbio afflitto. Così, al titolo Valori cristiani e impegno politico: persona, famiglia, diritto alla vita, a Fiuggi fu detto innanzitutto: «Nostro primo obiettivo è quello di favorire condizioni di vita che permettano alle persone ed ai gruppi di vivere nella libertà dell’onestà e della solidarietà sociale. Ci sentiamo eredi e siamo cultori della civiltà romana e di quella cristiana che ha le sue radici nel messaggio portato da Pietro a Roma e diffuso in Occidente e nel mondo intero. Siamo quindi attenti al Magistero della Chiesa con particolare riguardo alla sua dottrina sociale e quindi alla cattolicità che ha indubbi riflessi sulla cultura e sulla vita sociale del nostro Paese». E, poco oltre, «Capitolo decisivo nella promozione e nella difesa dei valori è quello della persona. Un ruolo centrale in questo senso va assegnato al valore della vita. Non si possono sufficientemente tutelare i diritti di libertà e dignità umana se non si promuove innanzi tutto il diritto alla vita. Va quindi combattuta quella cultura della morte che, come dice Giovanni Paolo II, pervade oggi la civiltà occidentale. Questa cultura ha cominciato ad affermarsi nel tempo in cui è stata legalizzata la pratica abortiva e ora sta per raggiungere nuovi, agghiaccianti traguardi con l’eutanasia, la manipolazione genetica e la clonazione degli embrioni umani».

Mi sembrano parole che non lascino molto margine di equivoco: la vita, anche quella embrionale, va difesa senza troppi distinguo.

Tuttavia, da un po’ di tempo il nostro uomo politico sembra si stia “smarcando” sempre più da questa linea e da questa cultura, anzi che abbia rivisto in buona misura la sua prospettiva ideale e politica. Non credo che basti a spiegarlo dire che Alleanza Nazionale, il cui biglietto da visita erano appunto le tesi approvate a Fiuggi nel 1995 – quindi non cinquant’anni fa, ma proprio “ieri” –, non c’è più: la svolta culturale finiana risale a ben prima. I primi sintomi si erano manifestati in occasione del referendum del giugno del 2005 contro la legge n. 40 del 2004, allorché egli dichiarò senza mezzi termini che avrebbe votato contro il mantenimento della norma che regolava e regola la manipolazione degli embrioni umani. Da allora in poi le prese di posizione si sono moltiplicate fino al recente discorso in occasione del congresso di Alleanza Nazionale del 22-23 marzo, che ne ha sancito la confluenza nel Popolo delle Libertà, e del successivo intervento al convegno di Forza Italia, pochi giorni dopo, in cui il partito del premier ha attuato analoga operazione. In entrambe le occasioni Fini a tenuto a ribadire il carattere “laico”, ovvero areligioso, delle istituzioni repub­blicane, a rivendicare la separazione fra Stato democratico e Chiesa e a criticare modus operandi legislativi volti a porre limiti etici a prassi potenzialmente eversive e deleterie, come il trattamento degli embrioni umani per scopi di ricerca e il cosiddetto “testamento biologico”.

L’ultimo anello di questa catena sono le dichiarazioni rilasciate ad alcuni giornalisti parlamentari nel pomeriggio del 2 aprile, all’indomani della dichiarazione d’incostituzionalità di due articolati parziali della legge n. 40 sul trattamento degli embrioni umani da parte della Consulta. Secondo Fini – trascrivo dall’Ansa – «la sentenza […] che dichiara illegittime alcune norme della legge 40 rende giustizia alle italiane. Specie in relazione alla legislazione di tanti paesi europei. È evidente che quando una legge si basa su dogmi di tipo etico-religioso, è suscettibile di censure di costituzionalità, in ragione della laicità delle nostre istituzioni». Il crescendo, con queste ultime parole, sembra proprio essere giunto all’acme.

D’ora in poi sarà sempre più difficile pensare a Fini come uomo di “destra”, come conservatore, come uomo che ha veramente a cuore quel bene assoluto della patria, della nazione italiana, che ha rivendicato con tanta passione nell’esordio del suo primo discorso alla Fiera di Roma come il Leitmotiv, il valore di fondo della prospettiva con cui Alleanza Nazionale era vissuta per quindici anni e ora entrava nella più grande realtà del “partito degl’italiani”. Evidentemente, se a lui stanno a cuore le donne italiane (ma quali e quante?), non hanno altrettanto posto nella sua azione politica quegl’italiani (quanti?), ancora minuscoli fino a essere invisibili ma veri e totalmente umani, costretti a vivere nei congelatori oppure buttati con nonchalance nel lavandino di asettiche cliniche della fertilità o di laboratori biochimici. I rilievi su queste recenti esternazioni sarebbero moltissimi e non poco eloquenti sullo spirito e sulle prospettive che animano oggi il numero 2 del Pdl: provo a formularle in forma interrogativa.


Il Presidente del ramo “basso” del Parlamento asserisce che una legge del Parlamento ha perpetrato una ingiustizia nei confronti delle donne italiane: è ammissibile, nel suo ruolo? Se fossi il presidente della Camera di allora mi sentirei dare indirettamente dell’imbecille e dell’omissivo.
E poi c’è piena coincidenza fra “illegittime” e “anticostituzionali”? e se la carta costituzionale fosse magari in qualche punto contro il diritto statu nascenti, che scaturisce dalle cose non dagli accordi, anche perché vecchia di sessant’anni, cioè nata quando – come è stato fatto giustamente osservare – i problemi bioetici non esistevano o, al massimo, rimandavano all’eutanasia e alla clonazione praticate dall'abominevole nazionalsocialismo hitleriano? Il richiamo ai Paesi europei è poi davvero sconcertante: lascia intendere che questi Paesi siano a priori dei punti di riferimento, se non di esempio. Viene da chiedersi se anche la Spagna socialista, che teorizza i diritti delle scimmie, sia un riferimento... Oppure l’Olanda che uccide i bambini malformati...
Infine, la confusione, indegna della terza autorità dello Stato, fra dogma, etica, religione e laicità. Mi spiace dirlo, ma nonostante i suoi cinquantasette anni, almeno quaranta dei quali passati a far politica, e il suo altissimo ruolo politico, se davvero l’on. Fini pensa come si esprime – ma voglio fargli credito di una vis polemica che obnubila la precisione terminologica –, credo che non gli farebbe male un corso di scienza politica per operatori per addetti alla politica.
Certo, uno Stato non si può costruire sui dogmi: non è pensabile una legge che promulghi in Italia il dovere di credere nell’Immacolata Concezione di Maria Vergine o nella presenza di Cristo nell’Eucarestia. Ma una legge, se non recepisce un bisogno normativo insito in un rapporto sociale, per di più nuovo, che legge è? È il registro delle opzioni voluttuarie e delle più stravaganti pretese? Oppure una norma e, come tale, tendenzialmente esemplare?
Che cos’è, ancora, la laicità per Fini? Nelle sue parole il termine “laico” di certo non è usato, come corretto, in antitesi a “chierico”, ma esprime solo la tesi che le istituzioni non abbiano carattere confessionale e – qui sta il magis, il di più, e si entra nel non condivisibile –, che non riflettano alcun criterio etico, anzi, meglio, che riflettano il solo concetto etico ammesso: ovvero l’etica ideologica dei desideri e dell’arbitrario.
Questo percorso, questa non breve trasmigrazione da “destra” – una destra di certo imperfetta sotto il profilo dottrinale, ma per diversi aspetti non disprezzabile – a una visione che pare azzardato definire “liberale”, mentre pare piuttosto liberal o radicale oppure, oso, “di sinistra”, lascia sconcertato e, in certa misura, anche addolorato chi in tempi passati ha apprezzato non solo le doti tecniche del personaggio ma anche non poche – anche se non tutte – le sue idee politiche.
C’è una spiegazione di questa “svolta” che, a prima vista, pare squisitamente personale? Anche se è prematuro trarre delle conclusioni mi pare che qualche ipotesi, non tutte benigne, sia possibile formulare.
La sua critica – espressa con insolita “sgangheratezza” di termini – e il suo porsi in controtendenza non solo con il suo partito di poco fa e con la classe dirigente di esso, ma anche e soprattutto con la leadership del neonato Pdl e contro le sue correnti moderate e credenti – come il gruppo di cattolici che fa capo a Roberto Formigoni e a Maurizio Lupi o come Alfredo Mantovano o come una certa ala della Lega –, si possono leggere sostanzialmente in tre prospettive.
La prima – ma anche la meno probabile – è quella di una mera schermaglia tattica contro Silvio Berlusconi per accrescere il peso della componente ex Alleanza Nazionale all’interno del Pdl.

La seconda è di carattere più personale: Fini punta al Quirinale e per arrivarci vuole non solo apparire “sdoganato” ma in sintonia con l’ideologia della Repubblica nata nel 1945, che è tuttora il risorgimentalismo – si veda anche in questa luce il recente peana indirizzato alla figura di Francesco De Sanctis, uno dei massimi artefici della “costruzione” in senso anti-religioso dell’identità de­gl’i­ta­liani – e l’antifascismo. Per cui deve presentarsi mondo da ogni scoria che possa essere sgradita ai tutori “forti” dell’ordine repubblicano: via il fascista almirantiano, via il credente, via l’appassionato di bioetica, via l’antifemminista, ecc. Anzi, per giungere alla meta deve figurare come promotore e – chissà... – forse “martire” dei valori in cui la Rivoluzione italiana si è incarnata nel secolo scorso.

L’ultima ipotesi è che il suo smarcamento – e questo suo latente atteggiarsi come il vero capo dell’opposizione – rientri invece in un disegno politico più contingente, che prevede la messa in difficoltà e la spaccatura del Pdl, una crisi politica, un governo istituzionale presieduto dalla terza carica dello Stato e nominalmente dedito a riformare la Costituzione, ma in realtà mero strumento per "rimontare" la nuova “insorgenza” moderata sotto il segno berlusconiano verificatasi nelle elezioni politiche dell’aprile del 2008 – a sessant’anni dalla prima, grande insorgenza degl’italiani contro il dogma ciellenista, quella del 1948 – e per affossare il Pdl, la realtà cioè che sta distruggendo gli schemi elitari dell’antifascismo e ha ridato, finalmente, agl’italiani moderati e cattolici una rap­pre­sen­tanza politica non più “strozzata” dalla Dc e deviata dai valori di un antifascismo apodittico, una “casa” – senz’altro ancora in costruzione e piena di spifferi, ma comunque una casa – in cui si possono sentire meno a disagio. Il gradimento di personaggi non secondari della scena politica come l’on. D’Alema e la senatrice Finocchiaro nei confronti delle esternazioni del Presidente della Camera paiono eloquenti in tal senso. Anzi, oggi si parla apertis verbis – lo fa Antonio Polito su il Riformista del 3 aprile – di un Fini “guida del fronte laico”.
E il disegno pare ancor meno campato in aria se si considera che al Quirinale siede un personaggio alquanto in sintonia con Fini sotto il profilo bioetico come Giorgio Napolitano, ovvero il più roccioso custode e vindice dei vecchi – ma tuttora vigenti – assetti repubblicani. Quella di una possibile rottura pilotata degli equilibri è una tesi su cui i politologi più qualificati ancora non si pronunciano. Al limite, come fa Stefano Folli su il Sole-24 ore del 3 aprile, vedono una ricaduta immediata delle scelte finiane in un comportamento “attivo” nel corso del dibattito che si aprirà a breve sulle due leggi che egli critica, quella sugli embrioni – le cui modifiche in ottemperanza alla sentenza della Corte Costituzionale la Camera dovrà attuare – e quella sul testamento biologico – che sta per essere discussa alla Camera. Tuttavia pare una prospettiva non del tutto illogica della “lunga marcia” del “delfino” di Giorgio Almirante.
Non è calcolabile il peso negativo che una sortita come quella di Fini – e, se l’ipotesi sarà confermata, il disegno che ho cercato di descrivere – possa avere sul futuro della nuova classe politica di centro-destra che è nata in Italia. Di certo non aggiungerà stabilità a questo Great Old Party all’italiana che ha appena emesso i primi vagiti ed è solo bisognoso di rafforzarsi al suo interno e nel rapporto con il blocco sociale e con le culture che stanno alla sua base.
Se si ha cara questa prospettiva, questa svolta autentica che potrebbe porre davvero fine a un regime ideologico ultrasessantennale che non vuol morire, occorrerà dunque vigilare. Ma senza scoraggiarsi e senza lasciarsi disorientare da mosse del genere. Siamo nel terzo millennio e quasi cinquecento anni dopo la nascita della modernità politica (Nicolò Machiavelli è morto nel 1527).
Allora non stupiamoci: oggi, più che mai, questa è la politica, baby!

sabato 21 marzo 2009

Finalmente i Laogai "in outsourcing"!

Padre Giulio Albanese, uno che di Cina si intende assai bene, nel contesto di un suo commento a un discorso pronunciato il giorno prima a Luanda da Papa Benedetto XVI nel corso del suo viaggio apostolico in Angola e apparso come editoriale di Avvenire del 21 marzo 2009, ci informa che: «A differenza del colonialismo occidentale che ha sempre fatto largamente uso della manodopera locale, la Cina sta trasferendo in Angola, come anche nel resto dell’Africa, centinaia di migliaia di propri connazionali (secondo alcune fonti addirittura milioni). Cinesi in stato di detenzione, deportati con lo scopo di realizzare ponti, strade, ferrovie ed altre infrastrutture. Alcuni di loro sono ammassati in veri e propri campi di concentramento, altri sopravvivono in condizioni pietose dentro gigantesche tendopoli. A parte i galeotti comuni, tra i deportati figurano anche detenuti per reati d’opinione: politici, insegnanti, avvocati, medici, economisti».
Strabiliante: Pechino ha inventato i Laogai “in outsourcing”, ossia i campi di lavoro dati in appalto! Geniale! Perché non pensare prima, oggi che i mezzi di trasporto consentono di trasportare masse di milioni di persone – non faccio fatica a immaginare la “bellezza” di questi viaggi, di cui il mondo, comprese le agenzie internazionali dei diritti umani, ignora ogni particolare – a distanze impensate, perfino dalla Cina all’Africa, a utilizzare in maniera commercialmente flessibile lo sfortunato popolo del GuLag cinese?
Infatti i vantaggi dell’operazione sono molteplici: portare la mano d’opera, coatta e non – ma nel caso dei cinesi espatriati è difficile distinguere tra il funzionario di partito o militare, il lavoratore “libero” e il prigioniero –, direttamente presso il cliente; poter snellire le strutture concentrazionarie – defilandosi meglio – e quelle produttive in patria – cosa molto utile in tempo di crisi economica mondiale anche per diminuire il potenziale di rivolta in casa propria –; e, infine, attuare una forma di penetrazione pacifica e silenziosa, che non si mai che un domani non si possa rivelare utile.
Credo che gli occidentali dovrebbero riflettere accuratamente su questa mossa, così come hanno riflettuto – ma non si sa bene che cosa ne abbiano concluso – sull’analogo processo di massiccia infiltrazione attuato dall’emigrazione islamica, che fa pendant con la capillare e ormai ultradecennale presenza di cittadini della Repubblica Popolare negli Stati europei e americani, una presenza non sempre proporzionata all’utile commerciale che i cinesi ne possono trarre.
E farebbero bene a tener contro che, se nei primi due casi è realmente difficile discriminare tra flussi “naturali” di migrazione e operazioni di “guerra asimmetrica”, nel terzo caso l’ipotesi di una forma di guerra asimmetrica preventiva può non essere del tutto campata in aria.

martedì 3 marzo 2009


Jeffrey T. Kuhner

Conservatori allo sbando

[The Washington Times, 1° marzo 2009]


Il conservatorismo è in seria difficoltà. Ma non ditelo ai soldati di fanteria, che hanno appena finito di partecipare alla Conservative Political Action Conference (Cpac): non comprenderebbero infatti qual è, oggi, la portata della loro sconfitta politica, economica, culturale e ideologica.
La Cpac è la massima assise annuale degli attivisti conservatori. Molti di essi vengono dalla Middle America: intelligenti, gentili e scoppiettanti di entusiasmo, sono l’esatto contrario dello smidollato establishment conservatore di Washington. Essi credono che i principi battano la forza. Ma, malgrado tutta la loro energia e il loro fervore, i conservatori vivono nel mondo della fantasia.
Guidati da Newt Gingrich e da Rush Limbaugh, molti a destra reclamano il ripristino dell’agenda reaganiana: tagli alle tasse, meno Stato, valori famigliari e vittoria nella guerra al terrore. Questi sono gli slogan che per i conservatori sarebbero in grado di catapultare nuovamente i repubblicani verso l’egemonia politica.
Ma la coalizione reaganiana, un tempo vittoriosa, è adesso allo sbando. I maschi bianchi e i cristiani evangelici rappresentano una percentuale dell’elettorato in continua diminuzione. I blue-collar [la classe operaia (ndt)] etnici – i cosiddetti “democratici reaganiani” – hanno abbandonato il partito, in quanto possono anche essere culturalmente conservatori, ma amano altresì i programmi sociali e sono scettici sul libero mercato. Le donne e alcuni repubblicani indipendenti sono largamente contrari alla guerra in Iraq e, in numero sempre più forte, anche all’incremento delle truppe americane in Afghanistan.
In aggiunta, l’immigrazione di massa, specialmente quella latino-americana, ha trasformato il panorama politico. Gl’ispanici superano ora in numero gli afro-americani, sono il secondo gruppo razziale dopo i bianchi e votano massicciamente democratico. Nel corso delle elezioni del 2008 il 67% di essi ha votato per Barack Obama, anche se il sen. John McCain si è battuto per una riforma globale dell’immigrazione e ha coltivato per anni il loro voto.
La disastrosa politica delle frontiere aperte si è tradotta non solo nell’accresciuta influenza di lavoratori a basso salario e a bassa professionalità, di criminali e di trafficanti di droga, ma anche nella creazione di un potente elettorato etnico e di sinistra, che vuole politiche governative più attive. E questo ha fatto scivolare la società americana verso il centro-sinistra.
Ma non conta solo il fatto che i conservatori stanno diventando una fetta sempre più sottile dell’elettorato. La destra ha perso la battaglia più importante di tutte: la battaglia delle idee. I liberal controllano quasi tutte le istituzioni di potere in campo culturale: le università, Hollywood, le arti, i media, la televisione e la scuola pubblica.
Fin dagli anni 1960, la sinistra radicale ha cercato di trasformare l’America con una “lunga marcia attraverso le istituzioni” e ci è riuscita. In effetti, i liberal pacifisti hanno semplicemente seguito il progetto disegnato dal leninista italiano Antonio Gramsci, il quale sosteneva la teoria dell’“e­ge­mo­nia culturale”. Gramsci era in favore di un socialismo per gradi, sottolineando che la mossa-chiave per conseguire il potere politico non era impadronirsi dei mezzi di produzione, ma nell’im­pos­sessarsi degli organi culturali che dirigevano la società. In tal modo la sinistra avrebbe potuto senza ostacoli plasmare l’opinione pubblica e indottrinare la gioventù. Gramsci pronosticò che, una volta che la sinistra avesse ottenuto l’egemonia culturale, lo Stato sarebbe caduto nelle sue mani come un frutto maturo.
La vittoria elettorale del Presidente Obama rappresenta il culmine della marcia al potere della sinistra. Obama ha sfruttato abilmente molteplici vantaggi contingenti: un avversario debole, l’adu­la­zio­ne da parte dei media, la crisi finanziaria e un Partito Repubblicano demoralizzato e spaccato. Ma il lavoro culturale di base è stato portato avanti per decenni.
Obama è un uomo di sinistra, anti-capitalista, anti-familiare e anti-americano. Ma qui sta quello che la maggior parte dei conservatori non capisce, cioè che ampie fasce dell’elettorato americano se ne infischiano. Le percentuali di consenso per Obama rimangono intorno all’80%. Il recente piano d’incentivi da 787 miliardi di dollari ha avuto un largo sostegno da parte del pubblico, anche se rappresenta il più drastico intervento governativo nell’economia attuato in tempo di pace.
I sondaggi mostrano che i votanti sono disponibili a una spesa ancora più ampia e ad aumenti mirati di tasse: purché funzionino (cosa che non sarà). Il conservatorismo dello Stato limitato è out: il liberalismo dello Stato sociale è in.
I conservatori devono svegliarsi di fronte a questo fatto fondamentale, cioè che il Paese è cambiato dai tempi di Ronald Reagan: non siamo più una nazione di centro-destra. Anche se questo non significa che la destra – come stanno chiedendo alcuni neoconservatori, come David Frum e David Brooks – debba rinunciare ai suoi principi: vuol dire solo che i conservatori devono affrontare in profondità la loro incresciosa situazione. Oggi siamo una minoranza in regresso e se non invertiremo il declino economico e culturale dell’America, i nostri numeri continueranno a calare.
Molti conservatori sono convinti che il fatto che i democratici abbiano stravinto costerà loro il controllo del Congresso e forse anche la casa Bianca nel 2012. La politica di Obama è la ricetta per il disastro: crescita economica anemica, tasso di disoccupazione stabilmente alto, debito pubblico rovinoso, disastro all’estero e declino della nazione.
Ma anche negli anni 1930 andò così. Il New Deal non riuscì a porre termine alla Grande Depressione. La politica di pacificazione inaugurata da Franklin Roosevelt imbaldanzì la Germania nazionalsocialista e il Giappone imperiale, aprendo la strada alla Seconda Guerra Mondiale.
Ma, nonostante questo pessimo risultato, Roosevelt riuscì a ottenere tre vittorie elettorali consecutive. Obama e i democratici al Congresso possono restare al potere anche con un’economia fallimentare e una sconfitta in Medio Oriente: non vi sono certezze in politica.
Anche se i repubblicani riusciranno a tornare al potere nel 2010 o nel 2012, cavalcando un’ondata di rigetto dei votanti per l’incompetenza dei democratici, questo non risolverà il problema sottostante: il trend demografico è contro i conservatori.
Per vincere, il Great Old Party (Gop) dovrà obbligatoriamente divenire più simile ai democratici; l’appello di George W. Bush per un “conservatorismo compassionevole”, con la sua insistenza su una maggior spesa per l’istruzione, la copertura pubblica delle spese mediche degli anziani e la sanatoria dell’immigrazione illegale è stato un esempio di erosione dell’identità repubblicana.
Per questo, se la destra vuole davvero cercare di accedere al potere nazionale, deve abbandonare la sua strategia solo politica, che è la strada verso la sconfitta, il declino e alla fine, l’oblio. Deve invece affrontare la sinistra sul fronte della cultura e cercare di riprendere le istituzioni-chiave dove i conservatori si sono arresi, spesso senza combattere. I liberal sono stati troppo a lungo all’offen­siva, fissando loro i termini del dibattito. I conservatori devono smettere di giocare in difesa: devono invece essere dinamici, fieri e coraggiosi, dando vita a una rivoluzione di lungo respiro.
I conservatori non hanno perso in una sola notte, né vinceranno in una sola notte. La strada vero il potere non sta a Washington, ma a New York e a Los Angeles e ovunque, nel mezzo. È la cultura, stupido.


Jeffrey T. Kuhner è columnist de The Washington Times e presidente dell’Edmund Burke Institute, un istituto di politica di Washington.

martedì 24 febbraio 2009

Propongo un articolo di Jeffrey T. Kuhner di The Washington Times sulle prospettive (non eccelse) della presidenza di Barak Obama.



Jeffrey T. Kuhner

America: verso il "modello Perón"?


L’America sta imboccando la strada verso il socialismo e la propria rovina. Numerose sono state le misure messe in atto per rimediare al declino dell’economia. Prima, nella primavera del 2008, si è avuto il programma d’incentivi da 180 miliardi di dollari. Poi, nell’estate del 2008, il salvataggio dell'immobiliare, da 345 miliardi di dollari, che è stato seguito entro l’autunno del 2008 dal salvataggio di Wall Street da 700 miliardi.
Ora, la Camera e il Senato hanno approvato un pacchetto d’incentivi di quasi 800 miliardi. Quindi, più di duemila miliardi di dollari sono stati spesi nell’inutile tentativo di rivitalizzare l’economia.
Stiamo imponendo ai nostri figli e nipoti il pesante onere della nostra assuefazione al governare in grande. E questo senza tenere conto del piano del Segretario al Tesoro Timothy Geithner che prevede che i contribuenti assorbano altro 2-4mila miliardi di debito per ripulire il sistema finanziario. In altri termini, l’America sta per essere sepolta sotto una montagna di debito, un debito che scatenerà un’impennata dell’inflazione, tasse schiaccianti e alti tassi d’interesse. Il che è la ricetta giusta per il disastro economico.
Il Presidente Obama sta giocando il ruolo di Franklin D. Roosevelt che Bush giocò rispetto a Herbert Hoover [il 31° Presidente Usa]. Negli anni 1930 Roosevelt sviluppò il liberalismo del suo New Deal partendo dalla politica statalistica di Hoover. Obama sta incrementando i massicci deficit di bilancio e le spese sconsiderate dell’amministrazione Bush. Ma, a differenza di Bush, Obama sta astutamente costruendo una coalizione elettorale stabilmente maggioritaria, così come fece Roosevelt.
Il piano d’incentivi riserva qualcosa per ciascuno dei gruppi d’interesse più vitali per i democratici: i sindacati degl’insegnanti, i capi delle grandi città, gli ambientalisti, gl’ispanici e gli afro-americani. I sostenitori più decisivi beneficeranno di costruzione di scuole, progetti infrastrutturali, lavori pubblici, ristrutturazione degli edifici pubblici a norma delle tecnologie “verdi”, estensione del servizio sanitario e di assicurazioni contro la disoccupazione e disporranno di più denaro Stati e località a corto di soldi. Il piano è principalmente inteso non a stimolare l’economia, ma ad accrescere il raggio di azione e la dimensione del governo. Un maggior numero di cittadini dipenderà dalle elargizioni del governo. Il che rafforzerà il Partito Democratico e la sua élite liberal.
Come ha giustamente notato Jonah Goldberg della National Review, il moderno liberalismo americano è una forma di fascismo, altrimenti noto come socialismo nazionale. La sua meta è quella d’instaurare uno Stato centralizzato e dominato dalle corporation, in cui la classe dirigente lavorerà a trasferire potere dalla sfera privata a quella pubblica.
I liberal difendono i grandi diritti, i programmi sociali costosi e l’irregimentazione di quasi ogni ambito della vita della gente: dalla messa al bando del fumo e dalle politiche di ammissione alle università alla preghiera nelle scuole e a quante radio di destra si possano ascoltare. Essi cercano di dominare non solo la politica e l’economia, ma anche la cultura e le arti.
I liberal fondono lo statalismo e il populismo classista. Sono perennemente in guerra contro qualche nemico – o, almeno, soggetto percepito come tale – della nazione, sia esso i “ricchi”, i repubblicani conservatori o i cristiani tradizionali. Bollano interi gruppi di persone – in America i bambini non ancora nati – come esseri subumani e privi di diritti. Credono che la politica e non la religione sia la salvezza dell’umanità. Fondano movimenti di massa che si basano su leader carismatici e messianici: Woodrow Wilson, Roosevelt, John F. Kennedy e ora Obama, conferendo loro qualità quasi divine di santità. Sono ossessionati dall’idea di usare lo statalismo al servizio dell’ingegneria sociale. Il liberalismo è divorato dalla sete di potere e contiene in sé i germi della propria autodistruzione: è l’ideologia del suicidio nazionale.
Il percorso disastroso su cui l’America è oggi incamminata è stato sperimentato da un altro Paese dell’emisfero occidentale: l’Argentina di Juan Domingo Perón. Negli anni 1940 e fintantoché, nel 1955, un colpo di Stato non lo estromise dal potere, Perón resse uno Stato fascista.
Ciò che è meno noto sull’Argentina è che prima della Seconda Guerra Mondiale era una potenza economica. A partire dal decennio 1880 e continuando con gli anni 1920 e 1930, il Paese era considerato uno delle più prospere e avanzate nazioni del mondo.
L’Argentina aveva una forte base industriale, floride esportazioni agricole e un’ampia classe media in espansione. Come l’America fungeva da calamita per immigranti di tutto il mondo, specialmente per gl’italiani. In quindici anni, però, l’Argentina da uno dei Paesi più ricchi divenne uno dei più poveri.
Ciò dipese in gran parte dalla politica peronista. Entrato in carica, Perón, con la popolare consorte Eva, instaurò uno Stato corporativo caratterizzato da una sfrenata spesa sociale, da elaborati programmi di Welfare, dal protezionismo, da un fisco vessatorio e da deficit galoppanti.
Perón faceva uso di una efficace retorica improntata alla lotta di classe, che attaccava il grande business, le banche, le corporation e la classe proprietaria; mentre sosteneva largamente i sindacati, facendone alleati-chiave del regime.
Il peronismo trasformò lo Stato argentino. La pletorica burocrazia e il massiccio intervento del governo promossero la diffusione della corruzione su larga scala. La pianificazione economica centralizzata distrusse la produttività e lo sviluppo. Il capitale d’investimento fuggì. L’inflazione e i tassi d’interesse volarono. Il ceto medio fu disfatto. L’indipendenza dei giudici venne minata e alla fine fu schiantata. La servile categoria degli addetti ai media fu cooptata fra gli alleati di Perón. Il suo culto della personalità – e quello di sua moglie Eva – favorì una clima di violenza e di persecuzione politica dei nemici del regime. L’Argentina divenne quindi il “caso umano” delle Americhe che oggi è.
Il fallimento del peronismo dovrebbe servire da avvertimento: il socialismo e un debito pubblico stellare possono ridurre in miseria permanente perfino le nazioni più ricche. L’America non è immune dalle leggi dell’economia. Repubbliche opulente come l’antica Roma, le città-Stato italiane e l’Argentina hanno visto dilapidare la loro ricchezza e non l’hanno più recuperata.
Obama sta facendo il primo pericoloso passo verso la versione americana del peronismo. I suoi seguaci lo vedono come un messia politico, un agente di mutamento rivoluzionario che promuoverà la coesione e l’unità della nazione. Egli e i democratici stanno saccheggiandolo Stato,usandolo come veicolo per ricompensare i propri sostenitori e per punire i nemici. È il nostro Caro Leader, la cui immagine è ovunque dalle riviste alle T-shirt ai cappellini da baseball. Sua moglie Michelle è la Eva Perón del nostro tempo: affascinante, chic, creatrice di tendenza nella moda e amata dai media.
Cosa più pericolosa, Obama sta ricalcando lo stesso populismo statalista che non ha funzionato in Argentina e che non funzionerà in America. Il professor Philip Jenkins osserva ironicamente che gli Stati Uniti d’America rischiano di diventare “gli Stati Uniti di Argentina”. Ha ragione. Coloro che non vogliono imparare dalla storia sono condannati a ripeterla.

Jeffrey T. Kuhner è giornalista del Washington Times e Presidente dell’Edmund Burke Institute di Washington.

martedì 17 febbraio 2009


Allarme violenze sessuali

Alto è il livello d’indignazione delle autorità pubbliche, dei comitati di opinione, dei giornali, di ogni e qualunque istanza di se pur minima valenza morale, sui ripetuti casi di violenza su donne.
Approfittare della propria forza, ricevuta in sorte senza alcun merito rispetto ad altri esseri strutturalmente deboli perché “progettati” diversamente e per altre finalità oppure perché contingentemente in condizione di minorazione è un atto infame e vigliacco, che la collettività ha il dovere di prevenire e reprimere con decisione e in tutte le forme possibili.
Ma – c’è un ma – chiunque avesse questo intento si troverebbe e si trova a fare i conti con un contesto, con un milieu, radicalmente favorevole. L’attra­zione sessuale è oggi infatti largamente stimolata e deviata da tutta una serie di fattori, divenuti ormai ambientali, in cui questa violenza matura ed esplode. Proverò a elencarne alcuni.

1. La diffusione della iconografia pornografica più abietta è ormai un fatto endemico e capillare: diversi canali televisivi “dedicati”, Internet e telefonini con immagini di perversioni – “professionali”, artigianali e casalinghe – oltre ogni limite concepibile e a costo zero, film, riviste, romanzi, e chi più ne ha più ne metta. La fruizione di questo materiale, oggi che ogni studente ha un computer, non conosce più barriere, entra aggressivamente attraverso lo spam della posta elettronica fin nell’intimità delle camerette dei nostri figli più giovani.
2. Libertà sessuale completa, non più prevalentemente maschile e non più solo eterosessuale, praticata e pubblicizzata anche da coloro che dovrebbero essere i modelli, i fari, le guide per il popolo e per i suoi cittadini più giovani e meno difesi. E offerta a ogni angolo di strada, e quasi in forme da supermarket lungo le strade fino ai paesi più piccoli dove una volta era il parroco a dettar legge.
3. Ricerca del piacere trasgressivo in ogni sua forma, da quello gastronomico a quello erotico, da quello drogastico a quello uditivo. A che cosa si riducono le serate – e non più solo del sabato – per migliaia di giovani, di adolescenti, di teen agers in luoghi dove si partecipa ad autentiche orge collettive ritmate dalla musica ossessivamente ritmata come nelle tribù primitive? Ballo e sballo, uragano dei sensi, uscita de sé stessi: “sballo” uditivo, “sballo” allucinatorio e, dulcis o amarus in fundo, “sballo” sessuale…
Negli ultimi decenni si è venuto a creare un clima morale, una condizione interiore diffusa, un ambiente morale, in cui per Dio non c’è più posto oppure è sostituito dalla droga – chi non ha notato il “Dio c’è” scarabocchiato sui cartelli stradali lungo molte arterie italiane? –, in cui i cosiddetti “valori” svogliatamente trasmessi dalla generazione precedente – a sua volta figlia, se non di uno “sballo”, di un colossale sbandamento – scompaiono e sono irrisi, in cui l’orizzonte resta popolato solo di “neo-valori” – che poi sono quelli di sempre, antichi quanto l’umanità –: l’effimera bellezza, il successo senza sforzo, la disponibilità di denaro, l’auto più bella (il falso status symbol), le prestazioni sessuali più “eccelse”, la resistenza più strenua agli stupefacenti e alla fatica. Un naturalismo deviato, dominato dalle mode, dai consumi, dalla fuga dalle responsabilità.
Tocco solo alcuni punti, ma il panorama è assai più ampio. E non entro nel merito della mancanza di repressione, che non solo autorizza certi comportamenti ma fa perdere addirittura il senso del confine fra lecito e illecito…
Sono perfettamente consapevole che non per tutti e ovunque è così, che i nostri giovani non siano fatti tutti con lo stesso stampino. Ma, se sono diversi, lo sono per grazia di Dio, in virtù di un habitat diverso, e non di rado a prezzo di uno sforzo personale – ex ante ma talvolta ex post, magari in una comunità di ricupero – che è imposto da questo clima sfavorevole alla virtù in senso lato, dall’onestà alla temperanza sessuale, da questo ambiente, dall’habitat in cui si cresce e si diventa uomini e donne.
Tornando al discorso della violenza sessuale, bisogna aver il coraggio di dire e di scrivere che questo humus non può non condurre a moltiplicare – ci sono sempre stati – casi come quelli che dolorosamente accadono. Perché stupirsi se a qualche giovane la disponibilità a concedersi delle coetanee non basta più? se non basta più la meretrice o il “travestito”? se vuole sperimentare forme “estreme” – ma vecchie quanto la cattiveria umana – di piacere erotico aggredendo una persona indifesa? E se l’autore è un immigrato semi-abbrutito, perché stupirsi che persone lontane da casa e diseducate moralmente – ma non tanto perché represse sessualmente ma perché abituate al tradimento, alla dissimulazione, alla violenza spicciola per procurarsi, chissà, una lampadina, una fetta di carne, una pila – da decenni di “socialismo reale”, davanti all’illimitata possibilità di ubriacarsi che esiste nel nostro Paese – fanno ridere le regulation in termini di orari imposte in alcune città o gli etilometri – possano assalire signore e giovani?
Per concludere pare realmente ipocrita – ma quanta ipocrisia c’è nella nostra democrazia? – fare la faccia dura davanti a episodi di violenza carnale, quando si teorizza che il sesso è de-ordinato rispetto alla procreazione, è fine a sé stesso, quasi l’ultimo “valore”superstite, quando tutta una fascia della società – imprenditori e “maestranze” dell’industria pornografica, prostitute, gioventù –, vive di “carne”, esibita senza decenza e a fine di lucro, è ossessionata dal successo e dall’insuccesso in materia erotica. Se si vuole davvero ridurre i casi di violenza non servono le ronde notturne, ma bisogna tornare a insegnare che cos’è la vita e che posto vi occupa il sesso.
Due lucidi vescovi


Colgo due begli spunti in altrettanti testi di vescovi riportati da Avvenire di domenica 15 febbraio 2009. Il primo è di Carlo Caffarra, cardinale arcivescovo di Bologna, l’altro del vescovo di Grosseto, il meno noto Giacomo Babini.
Nel caso Englaro, ricorda Caffarra, lo schiaffo è stato sì contro il diritto alla vita di una creatura innocente, ma anche contro la pietas cristiana, Per la prima volta in Italia si è scelto con determinazione implacabile di respingere – meglio: «delegittimare nella coscienza del nostro popolo» – un atto di carità a vantaggio di un atto di presunta e malintesa giustizia. Si chiede il cardinale: se certe vite, di comune accordo, non sono degne di essere vissute in base a certi parametri ed è meglio spegnerle, a che cosa serve la tenace e paziente carità degli operatori sanitari cristiani come le suore di Lecco? Finché restava un’opinione di alcuni la cosa era meno grave: ma oggi è lo Stato, attraverso la mgistratura, ad avallarla.
Mentre Babini si chiede: «Ma la Costituzione forse è diventata più importante dei comandamenti di Dio? Siamo stati per 50 anni genuflessi di fronte al termine “Resistenza” e ora sull’altare ci mettiamo il termine “costituzione”?».
Mi pare si tratti di due lucide prese di coscienza del fatto che il “caso” Englaro non sia stato appunto un caso, ma qualcosa di preordinato e che lancia un segnale e un allarme. La prima avverte che il secolarismo ha varcato un nuovo confine, non apprezza più la gratuità cristiana ma le antepone la propria cultura di morte. La seconda comprende che oggi fare la Rivoluzione non consiste più nel – prima fare e poi – difendere la vittoria nella guerra civile, tesi che è stata un autentico grimaldello per arruolare tanti che comunisti non sono mai stati, a partire dai cattolici democratici. Ora, visto che la Resistenza, i cui misfatti affiorano a ogni piè sospinto e che puzza troppo di mitra, non è più difendibile, occorre conservarne lo spirito difendendo contro ogni evidenza l’oggetto che ne è il frutto più maturo e caratteristico: la carta del 1948.
In conclusione due indicazioni preziose per chi oggi conduce la battaglia anche politica per la vita: irrobustire l’alternativa caritativa e lottando per una migliore carta fondamentale della nostra Repubblica.
Monsignor Caffarra va, come gli è solito, ancora più alla radice: di fronte al forsennato razionalismo individualistico che connota questa fase post-moderna: «Di fronte al mistero della sofferenza e del male, alla ragione che non sa rispondere alla domanda “perché?”, non resta che riconoscere umilmente che il mistero, senza negare la ragione, la trascende. Non c’è altra possibilità di salvezza per una ragione che non voglia dissolversi nell’assurdo».

giovedì 12 febbraio 2009


Era brutta e consumata, allora…

Non mi è piaciuto quel “ricordiamola da viva” che Filippo Facci ha pubblicato in prima pagina su il Giornale di oggi 12 febbraio 2009. L’intento parrebbe solo quello di dire: “era molto più brutta in extremis di quanto mostrino le foto apparse a valanga su tutti i giornali e i magazine”. In realtà, poi, Facci si dilunga in una serie interminabile di dettagli fra l’orrificato e il macabro, che ricava da una “fuga” di notizie – originata dai racconti degl’infermieri addetti al trasporto da Lecco a Udine, di due cameramen e di «due giornalisti fidatissimi» per la famiglia – tanto fidati che hanno fatto “trapelare” qualcosa –, fra cui una giornalista della Rai, unica persona ammessa dal padre nella stanza della figlia, e pare anche da un’immagine “rubata” e vista a sua volta da quattro giornalisti, rimastine “sconvolti”. Secondo queste notizie Eluana aveva «un corpo rinsecchito, gli arti da vecchia, rattrappiti», «piaghe sulla guancia destra», «naso ormai enorme», «orecchie deformate, callose», «pupille grandi e spente», «la saliva che le colava dalla bocca», «lingua morta e penzolante», ecc.

Facci non aggiunge giudizi: si limita a riportare dei fatti, chiudendo tuttavia con un eloquente ringraziamento a chi ha visto per aver fatto conoscere la vera immagine della povera disabile.
Il perché questa elencazione apparentemente avalutativa, ma da “museo degli orrori”, pare un evidente escamotage per nascondere la vera tesi: ovvero, se era conciata così, è stato poi davvero un male se Eluana è stata “terminata”?

Ma non è tanto il modo surrettizio con cui Facci ha scelto di presentare la sua posizione a irritarmi. È la sostanza di questa tesi che trovo insultante: insultante per tutti i disabili, i quali ben di rado sono belli, e per i tanti ammalati che non soffrono di alcun morbo specifico, ma solo di vecchiaia. La malattia e la vecchiaia – solo chi vive nella proverbiale torre d’avorio o si pasce di miti astratti può non saperlo – deformano, rattrappiscono, sporcano, imbruttiscono, incattiviscono. Il malato, soprattutto quello terminale, non di rado anche il vecchio, è inguardabile ed è umanamente difficile amarlo e servirlo.
È tuttavia questo un motivo sufficiente per eliminare chi è malato o chi è vecchio? Chi ci ripugna? Chi ci disturba, chi, con il suo bisogno ininterrotto, turba i nostri sogni e manda a monte i nostri progetti? Chi ci ricorda che la vita è una ruota e che ora tocca a lui, ma poi toccherà a noi? Chi ha mai detto che la vita “degna di essere vissuta” coincide con la bellezza e con la salute del corpo? E soprattutto nel caso di Eluana chi ha mai preteso che durante la sua pluriennale condizione di vita vegetativa si mantenesse bella come appare nelle foto giovanili? E, ancora, Facci si è posto l’interrogativo se Eluana sia sempre stata così? se il suo aspetto orribile non fosse invece anche e soprattutto colpa di quasi una settimana senz’acqua e senza cibo, tolti di colpo a lei, così debole? Le suore che l’hanno vista giorno dopo giorno per diciassette anni la ricordano invece ancora bella al momento di lasciare la loro clinica di Lecco. Ma di certo le suore, come la beata madre Teresa di Calcutta che non esitava a prendersi cura con amore gratuito di chi era davvero inguardabile, non sono ammalate di romanticismo, di quel romanticismo che imbeve molti liberali – e che è in sé nient’altro che una forma di malattia intellettuale e interiore – e che traspare nitidamente dalla pur felpata esternazione del giornalista, che si pone peraltro in visibile contrasto con la linea del suo giornale e con la coraggiosa presa di posizione del suo direttore nella vicenda Englaro.

Eluana e il Concordato

La ricorrenza degli ottant’anni del Concordato fra Italia e Santa Sede, caduta proprio all’indomani della dolorosa “chiusura” del “caso Englaro”, è stata occasione per ribadirne ulteriormente, da entrambe le parti, la necessità, l’efficacia, nonché la fecondità.
E in realtà dal 1929, passando attraverso l’inclusione dei Patti del Laterano nella Costituzione del 1948 e per la revisione del Concordato del 1984, pare che i patti, bene o male, abbiano “tenuto” e che la pace religiosa sia stata così garantita, e per un non breve periodo, al nostro Paese.
Tuttavia, qualcosa pare incrinare questo ottimismo bilaterale e mostri come questo rapporto pattizio tutto sommato scricchioli non poco, sì da far nascere il quesito riguardo a qual è e su chi grava il “costo” di questa relativa tranquillità.
Chi ha dovuto più spesso chiudere un occhio e forse anche due per mantenere in piedi il regime concordatario? Lo Stato italiano o l’episcopato?
Partendo dal “chi”, a mio avviso la bilancia pende sensibilmente dalla parte dei cattolici.
Già il fatto che in una nazione al 99% cattolica occorra un regime pattizio lascia alquanto perplessi: perché un Paese quasi totalmente cattolico deve essere “organizzato” da uno Stato – non parlo delle forze politiche – la cui cultura, la cui ideologia, cattolica non è, anzi, senza tanti forse, è palesemente e acremente opposta al tour d’esprit che anima i credenti in Cristo, mentre si rivela assai più vicino all’ideologia “forte” del laicismo di marca radicale e massonico? Che i cattolici italiani accettino che il proprio Stato – ovvero quella struttura, quel guscio, che esiste solo per proteggere la società e per perfezionarne il bene collettivo – sia a-religioso pare già da solo una concessione pregiudiziale, fatta a suo tempo pur di uscire da una situazione di lungo e duro assoggettamento se non di aperta persecuzione come era stato l’Ottocento.

Entrambi i partner sono cambiati, e non poco, dal 1929. La Chiesa, sotto il profilo dottrinale e pastorale, è passata attraverso la stagione di grandi mutamenti coincidente con il Concilio Vaticano II e, soprattutto, con i decenni del cosiddetto post-Concilio che l’hanno oggettivamente resa un interlocutore molto meno esigente nei confronti dello Stato di quanto fosse la Chiesa di Pio XI o di Pio XII, dal momento che è mutato il suo giudizio sulla modernità, si è ampliata la sfera di autonomia riconosciuta alla sfera temporale e sono cadute tutte le riserve nei confronti della democrazia.
Ma anche l’attuale Repubblica non è più il regime fascista di Mussolini. Ovvero un regime con il quale vi era sì sempre un potenziale contenzioso a causa della volubilità della sua “anima” e del suo latente totalitarismo, ma che vedeva nella Chiesa una grande risorsa per la nazionalizzazione degl’italiani e che mai si sarebbe sognato di mettere in discussione principi di morale naturale, che, anzi, con le sue politiche di austerità pubblica e di difesa della famiglia – magari un po’ machiavellicamente, però di fatto – garantiva e promuoveva. Nella legislazione italiana si osserva come, a partire all’incirca dalla morte di Pio XII, nel 1958, l’allontanamento dai principi cattolici, prima, e dai principi di ragione naturale, poi, sia iniziato e sia andato sempre più intensificandosi.
Quello italiano è tuttora – nonostante tutte le pur lodevoli iniziative per superare questi aspetti negativi – uno Stato in cui la pressione fiscale è alta e non può essere né discussa, né sottoposta a referendum popolare perché la Costituzione lo vieta. Dove la scuola non statale è abbandonata al suo destino e il cittadino che vuole usufruirne deve pagare due volte. Dove nelle Università statali non si può insegnare e apprendere la teologia. Dove lo Stato impone i suoi programmi alle scuole private. Dove tutto è burocratizzato. Dove chi ha famiglia paga più tasse. Dove i credenti hanno sempre minor voce in capitolo. Dove la prostituzione, l’omosessualità più sguaiata, la pornografia più squallida e la droga più insidiosa dilagano senza freno. Dove intere zone del territorio conoscono una doppia legalità, quella statale e quella mafiosa.
Ma soprattutto dove si può sciogliere una famiglia ad nutum, con pochi anni di attesa e unilateralmente, e dove si può sopprimere la vita non ancora nata e farlo con l’aiuto dello Stato. Dove si possono manipolare ancora e in certa misura gli embrioni umani. Dove, ora, dopo il “caso Englaro”, lasciato giungere alle sue ultime convulsioni per l’incuria di tutte le autorità che potevano affrontarlo, è possibile uccidere deliberatamente una disabile solo presumendone la volontà auto-omicida.

È questo un quadro costruito per gettare gratuitamente discredito su coloro che sono preposti al bene comune? Non mi pare: è piuttosto una radiografia di una condizione oggettiva, dove il cittadino ragionevole e credente che si riconosce nella Chiesa di Roma trova sempre meno spazio di libertà.
Il cardine del patto fra cittadini cattolici e Stato non è solo la libertà di religione e di culto, ma anche la presenza di strutture pubbliche immuni da veleni anti-religiosi e anti-naturali, esenti da qualunque specie di “cultura di morte” e da ogni elemento che ostacoli la “vita virtuosa in comune”, come dicevano i vecchi teologi, il che francamente non pare essere. Anzi, pare che oggi, anche grazie allo Stato, il cristiano viva immerso in un clima esterno – con ampia penetrazione in interiore hominis – in cui è sempre più difficile mantenersi coerente con le sue convinzioni.

Dunque, c’è da chiedersi se in questo peggiorato contesto abbia ancora un senso un patto. Se vi siano ragioni per mantenere una relazione collaborativa con uno Stato, che toglie sempre più respiro e dignità al cattolico. O non sia meglio – dato che l’armoniosa integrazione dei secoli passati non più essere ragionevolmente attuata – che le due realtà vivano separate, come per esempio in America. Che cos’ha a che fare la Chiesa italiana con uno Stato abortista ed eutanasico, che penalizza la famiglia e se ne infischia della salute morale dei piccoli, dei giovani e dei vecchi?

domenica 8 febbraio 2009


Un “no” che uccide

Che cos’era la dottrina comunista prima dell’Ottantanove? Semplificando, si può ridurre a tre componenti: il materialismo dialettico, l’ateismo che ne deriva e la lotta di classe.
Quest’ultima è venuta meno dopo il fallimento del socialismo “reale” alla sovietica nel 1991.
Che cos’è quindi rimasto dopo tale data nei comunisti di prima del 1989? Le prime due caratteristiche: il post-comunista rimane un materialista, anche se più che un materialista dialettico alla Engels è più simile a un materialista settecentesco o a un positivista ottocentesco. Possiamo dire che, il rattrappirsi dell’evoluzionismo marxiano ha fatto sì che il vecchio materialismo pre-dialettico rimanesse allo scoperto. Ovviamente la complessità e la ricchezza dottrinale di questa versione del materialismo sono molto maggiori che non nel XVIII secolo, perché, anche se per decenni il filone hegeliano-marxista è stato egemone, gli altri “filoni” delle ideologie moderne hanno camminato e per un lungo tratto.
E resta peraltro anche un ateo-ateista, cioè militante, e, per la presenza della prima caratteristica, il suo è un ateismo ancora più radicale, che non nega solo Dio, ma la stessa struttura metafisica e finalistica della realtà.

Mai come in queste ultime ore questa analisi si è rivelata esatta. Che cosa infatti può aver indotto un personaggio come il Capo del nostro Stato a prendere la decisione che ha preso di bloccare il decreto salva-vita di Eluana Englaro? Come si spiega un tale atteggiamento sul piano personale se non con la persistenza nel primo degli italiani, aderente al Partito Comunista Italiano fin dal 1945 e fin da subito dirigente, di una mentalità come quella che ho cercato di descrivere? E non è un caso che tutti gli esponenti del Partito Democratico di origini comuniste – ma anche una post-democristiana come Rosy Bindi –, interpellati sul caso, dagli “onesti uomini” alla “Vannino” Chiti alle milionarie platinate come Barbara Pollastrini o a signore eleganti come Anna Finocchiaro, si siano stracciati le vesti (metaforicamente) davanti all’iniziativa del Governo Berlusconi.
Se poi scendiamo sul piano politico mai come inquesto frangente è emerso lampante qual è il ruolo svolto dall’attuale Presidenza: quello di vestale della vecchia Repubblica, non tanto di quella degli anni Cinquanta-Ottanta a egemonia democristiana ma del regime di unità antifascista – il CLN – a egemonia comunista che ha dominato, anche tingendosi di sangue, gli anni dal 1945 al 1948. Di quel regime elitario e rosso, da nessuno legittimato, se non dalla sua vittoria – grazie agli Alleati – nella guerra italo-italiana del 1943-1945. Oggi l’ideologia comunista si è praticamente estinta e – di certo – anche il sangue. Ma un altro cemento ideologico, ora di segno libertario e ugualitario, è rimasto a legittimare agli occhi dei suoi antichi protagonisti o estimatori quel modello d’Italia.

Un governo di centro-destra, anche dopo il 1948, anche dopo il 1989, può vivere in Italia solo in un regime di “amministrazione controllata”, sotto la sorveglianza di esponenti della vecchia guardia e dei poteri eredi, quanto meno culturalmente, dell’azionismo e del socialcomunismo degli anni postbellici, dovendone subire le impennate improvvise e gli umori cangianti. Una custodia ora volta a reprimere – dalla presidenza o attraverso il braccio sindacale o l’ala rossa della magistratura le eventuali deviazioni e velleità conservatrici del governo eletto e ora, come in questo caso, a difendere la parte peggiore della cultura repubblicana e socialista, quella che esprime cioè quel progetto, emblematizzato ma non esaurito dai radicali, di “allineare” (così si dice) le leggi italiane al resto d’Europa, ma in realtà di far percorrere al Paese quell’itinerario, concepito nelle logge massoniche e denunciato dai cattolici già ai tempi del referendum contro il divorzio, di dissoluzione del costume nazionale, introducendo nelle leggi italiane il presunto “diritto”, dopo quello di sciogliere il matrimonio, di uccidere l’innocente nel seno della madre e quello di “morire” e di “aiutare a morire”, se non addirittura di “costringere a morire”. In tutti questi passaggi, anche nel “caso Englaro” si è sempre scelta la tattica del “caso pietoso”: per il divorzio le violenze in famiglia, per l’aborto il disagio della madre e ora, per l’eutanasia, il presunto desiderio di morte – probabilmente costruito ad arte da persone senza scrupoli (fra le quali, ahimè, il padre) – espresso del tutto informalmente dalla ragazza friulana, solo diciottenne al tempo del suo tragico incidente.

Ora finalmente si comprende quale errore abbia commesso il centro-destra nel contribuire ad affidare la magistratura suprema della Repubblica a personaggi le cui idee sono in stridente contrasto con la realtà nuova, nel bene e nel male, del Paese, a uomini che antepongono le ragioni politiche o tecnico-giuridiche alla vita di una creatura umana innocente, a persone per le quali vale di più la costituzione della vita innocente, a uomini che da materialisti e da atei “post-comunisti” non possono nemmeno immaginare la bellezza della trama di realtà, di essere, naturale e spirituale, che sta dietro, in cui è incastonata, la “vegetazione” della povera disabile.
Né, peraltro, a quali lidi potrà condurre una conclusione omicida del “caso”. Si ricorda spesso, ad altro proposito, citando il Talmud, che salvando un uomo si salva un mondo: dunque dobbiamo credere che il nostro mondo sia perduto?

martedì 3 febbraio 2009

Un gesto "forte" per Eluana?




Dunque, l'ultimo viaggio di Eluana, la nostra Terri Schindler Schiavo, è cominciato e la spirale di follia che ha accompagnato questa vicenda "finalmente" sta per esaurirsi, concludendosi con un omicidio legalizzato. Del resto agli omicidi legalizzati di persone innocenti e non in grado di difendersi la gente comune è ormai abituata, dopo trent'anni di legge abortista!

Non credo che le proteste, pur apprezzabili, possano sortire qualche effetto: troppo forte è il blocco di poteri giudiziario-mediatici-politici che si è coagulato intorno a questa forzata introduzione dell'eutanasia coatta nel nostro "dolce e beato Paese".

Forse solo qualche gesto clamoroso potrebbe servire. Probabilmente non varrebbe a impedire l'omicidio, ma almeno servirebbe per edificare chi difende la vita innocente in tutte le sue fasi e condizioni.

Per esempio, forse se il vescovo di Udine, invece di fare un generico appello "alla coscienza di tutti", come ha fatto, scendesse in piazza e s'incatenasse davanti alla clinica dell'orrore? Oggi le coscienze sono nel migliore dei casi intorpidite, se non del tutto pervertite, sotto una pressione culturale ambientale e negativa, tanto pesante da deformare la struttura portante dell'interiorità delle persone. Fare loro appello comporta perforare la spessa coltre di pigrizia mentale, di cattivo senso dell'uguaglianza e del diritto, di prudenza malintesa che le ottunde. Come ciò può avvenire se si bela, invece che fare la "voce grossa"?

Oppure, se, invece che deplorare, il presule comminasse la scomunica (non è solo sua facoltà, ma suo preciso dovere di fronte a un grave peccato commesso pubblicamente), circostanziata e pesante, su tutti i battezzati che partecipano in qualunque forma all'operazione omicida? So di vescovi americani, giovani e combattivi, che non hanno avuto paura di scoprirsi personalmente nella battaglia per la vita facendosi primi promotori e animatori di referendum a livello di Stato: e non di rado hanno vinto, allontanando, almeno per un po', anche se non sconfiggendo, prospettive del tutto maligne.

Se non si dà un richiamo e un esempio forti, due settimane dopo l'uccisione di Eluana nessuno ne parlerà più: già è significativo che nel Corriere della Sera online di oggi la notizia del trasferimento di Eluana verso la morte sia affiancata dall'ultima notizia su quanto accade nella casa del Grande Fratello!

E i vescovi italiani? Spero solo che la Conferenza Episcopale rifletta attentamente sulla vicenda, una volta consumato il crimine. Non tanto sui termini morali della questione, che sono nitidissimi, ma sulla mollezza con cui, come singoli e come corpo, affrontano problemi che ormai fanno cadere la maschera dei diritti e intravedere il ghigno satanico del Nemico. Il demonio non si affronta con gli appelli: si combatte a muso duro con la preghiera (magari con l'esorcismo), con il digiuno e con il sacrificio. Soprattutto senza rispetto umano, che è il capitale maggiore su cui speculano le forze di morte oggi come ieri.

venerdì 30 gennaio 2009

A "sproposito" di Insorgenza




Il problema storico dell'Insorgenza, cioè di quel grandioso ciclo di moti popolari che accompagna e contrasta la dominazione francese e napoleonica in Italia e nei Paesi europei tra la fine del Settecento e i primi decenni del secolo XIX, è tuttora aperto e le ricerche in merito sono tuttora largamente in stato di work-in-progress.


C'è tuttavia chi presume di considerare chiusa la questione sul piano scientifico, ma lo fa non adducendo nuovi fatti bensì anteponendo tesi e stereotipi interpretativi improntati all'ideologia progressista. Questo atteggiamento è quindi portato ineluttabilmente a condannare ogni lettura che muova da presupposti nuovi, diversi - per esempio conservatori -, nonché ogni sforzo di ricerca che parta da ipotesi di lavoro originali e spregiudicate. Di qui i reiterati attacchi che determinati gruppi di studiosi hanno portato e portano contro quella nuova storiografia, nata negli ultimi decenni, la quale offre dell'Insorgenza una visione più ampia, meglio fondata e meno condizionata da premesse ideologiche. In questi ambienti esiste in effetti il timore diffuso che rivalutando - o solo riscoprendo - questa pagina di storia di possa rimettere in discussione il profilo identitario della nostra nazione e, quindi, si possa attentare non tanto agli assetti costituzionali instaurati nel secondo dopoguerra, di loro abbastanza ampi, quanto a quella torsione in senso eversivo del dettato costituzionale attuata dalle forze di sinistra dal 1948 in poi, palesemente contro la volontà popolare. Il pericolo mi pare alquanto remoto e per certo non esiste un complotto contro l'identità "antifascista" condotto da ambienti reazionari legati alla "destra" al potere. Va comunque detto che la lettura del passato è di suo in continua evoluzione e, se le conclusioni più aggiornate e qualificate fanno emergere aspetti non considerati, è altresì giusto che le istituzioni pubbliche tengano conto di tali realtà e non esitino a rimodellarsi di conseguenza. Per esempio, la domanda di "federalismo", che sale da più parti del Paese, ha ragioni storiche profonde, che risalgono alla negazione delle tradizionali autonomie di governo delle comunità italiane attuata dalla neonata monarchia unitaria dopo il 1861. La riscoperta e la denuncia di questa negazione - che già a suo tempo incontrò aspre critiche - da parte di storici contemporanei per lo più fuori dall'"apparato" ha dovuto combattere per decenni contro la tesi opposta secondo cui il centralismo era l'unico modello idoneo al Paese. Ora, assistiamo invece al ristrutturarsi - pur con ampi margini di dubbio sulle modalità - delle istituzioni italiane su base federale o, quanto meno, decentrata. Aprendo una parentesi, questa distinzione non è oziosa ma, anzi, doverosa poiché il federalismo autentico, secondo la lezione profondamente sapiente del filosofo svizzero della politica Gonzague de Reynold, deve nascere dal basso, come libera associazione di corpi sovrani preesistenti, e non come provvedimento legislativo che cade dal vertice sulla base.

In ogni modo, se la vulgata sul federalismo si fosse conservata immutata, oggi il problema della sanatoria dei guasti del centralismo non sarebbe neppure all'ordine del giorno.

Il che vuol dire che attaccarsi tenacemente a visioni oleografiche del passato solo per ragioni ideologiche è non solo sbagliato sotto il profilo "professionale", ma anche nocivo per la comunità nazionale sulla quale il lavoro dello storico si riversa e al cui bene il suo sforzo trova la sua finalizzazione.

In questa prospettiva allego il link a un mio articolo che la rivista Studi cattolici ha publicato nel numero di gennaio 2009, in cui tutte queste tematiche sono sviluppate più in ampio.


martedì 20 gennaio 2009

Farewell , mr. George W. Bush!


Per che cosa sarà ricordato il quarantatreesimo presidente americano, George Walker Bush? Di certo per l’ostilità granitica, ininterrotta, talora sguaiata dei mass media. Sono oramai all’undicesimo presidente americano: sono nato sotto Truman e ricordo nitidamente Eisenhower, Kennedy, Johnson, Nixon, Reagan, Clinton: almeno da Kennedy, grazie alla televisione che arrivò nella mia casa nel 1960, ricordo anche le immagini. Per questo credo di poter dire che mai un presidente ha ricevuto un simile trattamento da parte della casta di Hllywood, della carta stampata e del tubo catodico.
Mai la satira credo si sia accanita con così poca misericordia e in maniera così scomposta contro un personaggio politico di quel livello. Su di lui, nel corso del mandato medesimo, sono apparsi ben due lungometraggi – quello, più documentario, di Michael Moore e W. di Oliver Stone – entrambi con l’effetto – e con l’intento – di stroncarlo in radice non solo come politico ma anche, cosa forse mai accaduta, come uomo, facendolo passare per poco più di un deficiente, di un cafone, di un figlio di papà, di un complessato rispetto al più bravo e “cocco di papà” fratello Jeb. Ciò risalta ancor di più se si osserva con quale autentico peana, ancora a bocce ferme, si astato investito sui media di tutto il mondo il neo-eletto Barack Hussein Obama, un encomio di massa pari solo a quello – maturato peraltro in itinere, data l’ostilità iniziale del mondo wasp per il presidente irlandese e cattolico –, che a suo tempo circondò un personaggio umanamente e politicamente discutibile come John Fitzgerald Kennedy con una sorta di aureola da beato ante litteram.
Eppure George Bush jr. è stato un grande presidente, sicuramente non il peggiore “tecnicamente”, anche se, forse sulle sue doti umane, fanno aggio i contenuti della sua politica.
Dal punto di vista personale non era possibile non notare le sue debolezze e le sue carenze di physique du rôle. Soprattutto se lo si confronta con autentici maghi della comunicazione come Ronnie Reagan. La cultura popolare del suo paese di provenienza, il Texas, la gioventù alquanto scapestrata, la sua poca dimestichezza con i libri – nonostante due lauree, Yale e Harvard, e un MBA – hanno senza dubbio reso un po’ poco oliato e anche alquanto rozzo il suo comunicare e un po’ esitante la sua presenza in occasioni in cui si doveva possedere un minimo di verve e di bagaglio culturale. Va poi considerato comunque il suo enorme sforzo, coronato da successo, di liberarsi per sempre dalla schiavitù dell’alcool, dalla superficialità morale, da una vita senza obiettivi, che lo ha portato simultaneamente a tornare alla salute e alla fede. Né mi pare da sottovalutare un altro aspetto che dovrebbe essere giustamente apprezzato soprattutto da chi è credente: una vita pubblica senza la minima ombra. Nessuna amante, nessun episodio di corruzione, nessun favoritismo, nessuna nota-spese gonfiata, nessuna palazzina costruita con fondi pubblici: un curriculum politico di otto anni – si noti bene – del tutto immacolato. Anzi a lui si deve l’aver introdotto nelle riunioni politiche qualcosa che forse è meno estraneo al costume americano di quanto lo sia a quello europeo, ma che rappresentava comunque un novum anche per l’America e cioè la preghiera pubblica.
La sua forza sono stati fuori di dubbio la potente famiglia, i collaboratori e la ormai rodata attrezzatura culturale e pre-politica del mondo conservatore che lo hanno sostenuto e forse anche guidato con vigore.
Ma sotto il profilo del suo programma di governo, dei suoi adempimenti e del polso fermo da lui costantemente mantenuto in frangenti, non lo si dimentichi, di una complessità e di una delicatezza tali – e con un tasso di novità così alto –, da richiedere doti di analisi e di pratica politica del tutto non comuni.
Farei iniziare il bilancio dallo senario geopolitico.
A lui è stata rimproverata soprattutto di aver intrapreso la guerra contro Saddam Hussein senza sufficienti motivi. Così pure di aver barato, dando per concluso un conflitto che al momento della dichiarazione della vittoria era in realtà appena agli inizi. Una guerra che aveva provocato più danni che non effetti benefici, destabilizzando tutto uno scenario regionale e provocando la reazione corale dell’islam fondamentalista.
Ebbene, non è vero: l’attacco all’Iraq è stato un colpo forse non condotto al meglio, ma di certo ben assestato, perché volto a liberare un popolo da un sanguinario tiranno, a costituire una retrovia fondamentale per l’Afghanistan e porre un argine necessario alla potenza fondamentalista iraniana – ora l’Iran confina con gli Usa –, nonché a creare uno scudo essenziale per la sopravvivenza di Israele in un contesto di più pericoloso revival islamico. Ha stornato altresì la minaccia terroristica dal territorio americano forse per sempre.
L’impegno in Iraq è stato un programma bellico attuato con poche risorse materiali – quanto meno rispetto al Vietnam e al Golfo – e con molta inventiva strategica e tattica – dai “droni” al “Surge”, all’impiego ampio come non mai di risorse femminili –, quindi con poche, sottolineo poche, vittime. Qualcuno ha forse dimenticato le sterminate distese di croci bianche dei cimiteri militari alleati in Francia, in Italia, in Oriente? La guerra in Iraq è costata meno di una battaglia di medio livello della campagna contro il Giappone del 1942-1945. Certo vi sono state vittime civili e non poche, anche se esse vanno attribuite al terrorismo internazionale islamico e agli scontri tra fazioni religiose, che non alle operazioni belliche: ma si può dimenticare quanto è stato spaventosamente alto in termini di vittime civili la liberazione dell’Europa? In Iraq l’effetto è stato inversamente proporzionale al costo. Bush ha fatto una guerra preventiva? Certo: ma chi può dire che è sempre sbagliato schiacciare il grilletto per primi? E chi può stabilire oggi, in tempi di guerra asimmetrica e condotta da soggetti incontrollabili, dato che non sono più gli Stati sovrani, quando un conflitto armato scoppia?
Bush fatto a meno dell’Onu e non ha voluto ascoltare l’accorato appello di Papa Giovanni Paolo II? Sì, è vero. Ma l’Onu, oltre a rivelarsi sempre più incapace di agire, è ormai il luogo dove si boicotta qualunque sforzo volto, prima del 1991 ad arginare il comunismo e, ora, a combattere le nuove minacce per la civiltà occidentale. E il Papa? Il Papa ha svolto il suo ruolo con rigore e con correttezza: ma la decisione di fare o no la guerra in temporalibus, dopo averne valutato i pro e i contra oggettivi e non solo quelli di principio, a rigore non spetta al Papa, bensì a chiunque sia il legittimo reggitore di popoli in questione. Sarà poi eventualmente il Papa a giudicarne la coscienza in foro interno: ma non è il Papa il Capo del Governo.
E in politica si segnalano altri importanti facts che ridondano a suo lustro. Per esempio l’apertura alla revisione del giudizio storico-politico – in un discorso durante la sua visita in Lettonia – sulla seconda guerra mondiale e sull’abbandono all’Urss di metà Europa come prezzo della sua collaborazione – ma anche autodifesa e con le armi americane – per sconfiggere l’hitlerismo. E anche l’avallo indiretto delle critiche di passività o di scarso impegno rivolte agli Alleati quando si trattò di salvare le centinaia di migliaia di deportati civili, soprattutto ebrei, detenuti nell’arcipelago del Lager nazionalsocialisti fra il 1942 e il 1945. Quell’avallo che si può evincere da quelle parole “We should have bombed it” ("avremmo proprio dovuto bombardarlo") da lui pronunciate durante la visita allo Yad Vashem di Gerusalemme davanti ai pannelli che riproducevano il campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau.
Ancora: il suo intenso e costante impegno a favore della vita innocente. Non ha sospeso la pena di morte, ossia il diritto-dovere degli Stati di punire, dopo tutti i possibili giudizi, il colpevole adulto – si ricordi che nella Russia bolscevica anche i minorenni erano passibili di sentenza capitale – di delitti orrendi con la morte, ma ha difeso in maniera strenua, nei limiti non enormi che l’assetto costituzionale degli Usa gli consentiva, la vita umana non nata, rifiutando le sovvenzioni statali alle organizzazioni abortiste, restringendo la casistica di aborto, aiutando la maternità. Il che non è andato separato dalla difesa della famiglia, in particolare cercando di far costituzionalizzare il matrimonio esclusivamente eterosessuale.
Infine, la sua chiara dottrina anti-comunista: per esempio, non ha tolto l’embargo a Cuba, come il coro dell’establishment progressista non ha mai smesso di chiedere con insistenza. E ha voluto presenziare autorevolmente all’inaugurazione del – piccolo ma importante – monumento alle vittime del comunismo inaugurato a Washington nel 2007.
Ha dovuto affrontare la strage delle Torri Gemelle, con il suo spaventevole impatto psico-sociale. Ha dovuto dare inizio a una dura e lunga lotta contro il fondamentalismo talebano afghano, le minacce e le provocazioni nord-coreane, la rivolta dei Paesi dell’America Latina sempre più dominati da coloriti semi-autocrati socialisti, che non rifuggono dall’acquisto di armi strategiche dalla Russia e dal commercio con la rossa Cuba. Non ha ceduto davanti al neo-imperialismo di Vladimir Putin, né davanti all’invasività – forse una guerra asimmetrica clandestina – commerciale e strategica della Cina. Ha dovuto fare una difficile guerra a migliaia di chilometri dalle coste statunitensi e iniziare a prendere provvedimenti contro la terribile crisi economica mondiale scoppiata lo scorso anno.
Il bilancio sarebbe più lungo, ma credo di aver messo abbastanza carne al fuoco.
Come accennato, molto di quanto ha compiuto è stato applicazione della dottrina politica del mondo conservatore americano e frutto della bontà del personale politico che negli ultimi decenni si è preparato nelle miriadi di fondazioni, di master, di summer school, di corsi universitari – che non sono più monopolio delle sinistre –, di corsi di formazione, di libri, saggi e articoli pubblicati dai media conservatori. Bush jr. – sudista la cui investitura suprema ha forse ridotto il gap fra il Sud e il Nord yankee –, è stato come non mai espressione di questo milieu della nazione americana, che ha cominciato a risvegliarsi alla fine degli anni 1950 ed è cresciuto in maniera impressionante, esplodendo con la presidenza Reagan e radicandosi in maniera ormai irrevocabile durante le tre presidenze di Bush sr. e di Bush jr.

* * *

Non so se ora George “Dabliù” Bush vorrà riposarsi, dedicandosi più di prima alla fedele consorte e alle sue due gemelle: può darsi che continui in altra forma l’impegno politico. Certo è che i problemi di cui occuparsi, in primo luogo evitare che la sconfitta in una battaglia si trasformi in sconfitta nella guerra fra i conservatori del suo Paese, sono tanti e il suo apporto potrebbe essere prezioso. Comunque, lo voglio immaginare nel suo ranch in Texas, in sella a uno dei suoi cavalli, mentre, cavalcando, agita festosamente al vento il suo Stetson, godendosi un po’di quella libertà senz’altro troppo e male apprezzata in gioventù, ma sacrificata in seguito non poco alle esigenze della politica, e che grazie anche al suo sforzo, oltre che al sangue di migliaia di americani e di americane, è stata restituita a tanti popoli della terra.

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