lunedì 28 novembre 2011

Quali esiti per il "governo
del Presidente"?


Qualche piccolo flash sulla condizione oggettivamente anomala in cui verso il nostro amato Paese ironia della sorte a centocinquant’anni dalla sua nascita come nazione libera e sovrana…
Sono sempre più persuaso che non si esca dalla crisi se non ristrutturando culturalmente l’ex opposizione a Silvio Berlusconi.
La difficoltà a governare del centro destra è stata determinata di proposito non dico influenzata — dall’atteggiamento che i partiti di centrosinistra hanno mantenuto nel corso della legislatura. Quella affermazione che “l’Italia è in macerie e si deve ricostruire” ne rivela in maniera efficace e sintetica il tour d’esprit generalizzato. Il governo eletto, per come è, non per quel che fa, è un’anomalia e un danno e va rimosso. Mai come in questi anni passati la delegittimazione dell’avversario — si badi bene: a senso unico, da sinistra verso la destra, mai viceversa —, quel male chiamata anche “divisività” da importanti politologi, è trionfata. L’avversario non ha le carte in regola: non si riconosce nel CLN ma vuole, anzi, peggio, riformare la Costituzione perché ormai invecchiata e solcata da profonde venature ideologiche. Per questo deve sparire, deve essere debellato e ucciso. Non vi sono vie di mezzo. Il monstrum va soppresso. Allo scopo sono leciti tutti i mezzi: non proposte politiche alternative, bensì l’ostruzionismo, la diffamazione privata, la piazza, la corruzione, la leva giudiziaria — che ha imparato la lezione: condannare al carcere è impossibile, ma colpire le finanze private del premier, sì, eccome! e in che misura! —, le difficoltà esterne — senza esitare a schierarsi con i nemici, non di Berlusconi, che li ha riempiti di regali, ma dell’Italia—, i buffoni di corte, i talk show, la satira, la feccia armata di statuine di piombo, i media intossicati e così via…
Tralascio di proposito la tesi di un attacco borsistico alle società di Mediaset, non perché non sia una ipotesi plausibile , ma perché vedo poco Berlusconi — che peraltro ha smentito — gettare via decenni di politica per il Paese solo per minacce alle sue finanze.
E tutta questa macchina infernale, questa idra dalle sette teste — magistratura di sinistra, media, sindacati, Unione Europea, gl’intellettuali, i propri alleati che hanno tradito —, ha avuto come unico scopo la caduta del “despota”.
Come i fatti rivelano sempre più chiaramente, non è stata l’emergenza a far cadere il Berlusconi IV, ma questa tensione andata sopra le righe e trasformatasi non tanto in paralisi dell’esecutivo, quanto al massimo in affanno.
Questa difficoltà, confrontata con una situazione esterna generale diventata difficile e con le pressioni delle istanze europee, hanno indotto i veri centri del potere in Italia, quello dove il Risorgimento e il Secondo Risorgimento, la Resistenza, sono ancora il mito fondante e irrevocabile a intervenire. Non appena il 309° deputato si è sfilato chissà per quali grandi motivi ideali… , è scattato il piano, probabilmente predisposto da tempo per normalizzare il Paese. Che vuol dire, nell’ipotesi più generosa, solo rimettere ordine nella competizione politica ma invece, nella peggiore, eliminare l’anomalia berlusconiana distruggendone non solo il potere ma anche la leadership  e puntando su altre forme partitiche. Non solo: ma anche modificare, di fatto o di diritto, la Costituzione e non come il tempo che è passato e la storia che ha giudicato richiederebbero, ma nel senso di conservare il coagulo ideologico-progressista delle origini e inaugurare forme di presidenzialismo che consentano di tutelarlo dal successo di forze politiche veramente innovatrici.
Già ora, con il governo “tecnico” sui costi del riavvio della vita politica con uomini nuovi e sulla efficacia, almeno iniziale, di costoro gravano forti dubbi sostenuto dalle tre aree partitiche di centro, siamo di fronte a un governo del Presidente, di unità nazionale ma senza emergenza reale —, che imbarca forze politiche non elette dai cittadini, e che sempre più dipende dai voleri del Quirinale, il quale, di suo, ha accentuato ulteriormente il già sconcertante protagonismo che trova il suo rovescio in un presidente Giovanni Leone, cattolico, che firma la legge 194 che legalizza l'aborto procurato come atto dovuto, non solo pilotando i partiti ma facendosi, pur sempre fra le righe, propulsore di soluzioni legislative di parte.
Per questo le elezioni si faranno il più tardi possibile. Anche se Berlusconi non ci fosse, come escludere a priori un nuovo successo del centrodestra, di cui forse le lacrime e il sangue della manovra economica dei tecnici sarà un incentivo — “Berlusconi ha tolto l’IVA, gli amici di Monti l’hanno rimessa” —? Per questo prima di rifarle i centri del potere istituzionale permanente vorranno assicurarsi, nella misura del possibile, che la sinistra — che nei valori del CLN si identifica — non torni all’opposizione e riapra la disastrosa offensiva multilaterale, quel circo Barnum cui oggi è stata imposta la sordina.
Ma il cuore del problema è proprio lì: non è lecito arroccarsi, santificare perennemente le scelte di settant’anni fa, cristallizzare una situazione. Oggi i “valori” desunti dalle ideologie, compresa quella democristiana, sono un relitto, la storia ne ha mostrato gli aspetti peggiori: bisogna cambiare rotta, bisogna ricuperare quello che di buono vi era in radice — le domande, non le risposte — e rimetterlo all’orizzonte del Paese in forme che non demonizzino l’avversario e non si traducano in un handicap sfavorevole per il governo del Paese. Bisogna per questo magari con l’aiuto, non per decisione, di quei poteri supremi evocati più sopra, una volta cambiatone il titolare — davvero che le forze che sono state all’opposizione durante l’ultimo governo Berlusconi cambino profondamente, si liberino dalle scorie del passato, si riposizionino come sinistra non ideologica, che mantengano gli stessi paradigmi egualitari ma li declinino in un mondo oramai molto diverso rispetto a quello dell’antifascismo o dell’inizio della Guerra Fredda.
Altrimenti, se si troveranno ancora all’opposizione e il centro destra non avrà imparato la lezione del 2008-2011 — ma francamente non vedo come possa riconquistare l’idra dalle sette teste —, finirà come nel 2011; se governerà, il suo anacronismo costituirà un grave freno per lo sviluppo del Paese.
 Forse è una chimera e certo un’opera ciclopica, ma sinceramente non vedo altre vie di uscita.

martedì 22 novembre 2011

Un altro 8 settembre?
 
È singolare osservare come nella storia tutto torni, talvolta riproponendosi in forme talmente simili da suscitare se non ci fosse da piangere il riso ironico.

Quasi settant’anni fa, nel luglio del 1943, il Re, con un mini colpo di Stato, licenziava e faceva arrestare il cavalier Mussolini, imputandogli la sconfitta nella guerra contro la coalizione planetaria che si era raggrumata contro l’Asse. Mussolini aveva fatto il suo dovere di difendere la monarchia dal social comunismo, ma aveva fatto due  errori: la Conciliazione e, non fare la guerra, ma perdere la guerra, come ormai appariva sicuro a metà del 1943 dopo le svolta di Stalingrado, di El Alamein e l’invasione dell’Italia. Mussolini era diventato impresentabile, lui dittatore e guerrafondaio, davanti ai prossimi padroni del mondo. L’idea del re fu di sostituirlo con un tecnico, un generale, Pietro Badoglio, noto nel Paese per essere stato uno dei protagonisti della fase finale della Prima Guerra Mondiale e per il suo ruolo in Africa.

Dopo aver creato un governo di tecnici e aver comunicato al Paese che la guerra continuava, il re e Badoglio il 3 settembre mandano a Cassibile, in Sicilia, presso il quartier generale dell’armata angloamericana che sta invadendo la Sicilia, il plenipotenziario generale Giuseppe Castellano a trattare in borghese l’armistizio senza condizioni. La resa verrà divulgata l’8 settembre successivo e qualunque cittadino italiano che abbia memoria di quell’evento sa che cosa successe dopo: un crollo, una tragedia enorme, un intrico senza pari di viltà e di dimissione.

2011: il cavalier Silvio Berlusconi, il cui governo eletto dal popolo tre anni prima si mostra imballato e indebolito, ma è del tutto legittimo e tutt’altro che sconfitto anche in parlamento, viene mandato a casa con garbo dal Presidente della Repubblica on. Giorgio Napolitano, che immediatamente e, mi si passi il bisticcio, ancor prima mediaticamente —, anch’egli con un mini golpe, investe della formazione di un governo tecnico il professor neo-senatore Mario Monti, economista ed ex commissario europeo. Tripudio delle opposizioni, che finalmente possono lasciare la trincea rabbiosa in cui le ha cacciato il voto popolare e riprendere il centro della scena. Un perfetto 25 luglio. Anche qui una guerra persa, una guerra asimmetrica di conquista che ci hanno scatenato contro francesi e tedeschi e forse inglesi, e che si è combattuta in maniera inaudita con il concorso dell’aggredito stesso in forma “calda” in Libia, ovvero nel nostro retroterra energetico, su cui Berlusconi anche a costo di figure barbine con Gheddafi aveva investito tanto, e in forma “fredda” sul piano della finanza, a colpi di spread pilotati e di indici di Borsa in picchiata. Debolezze finanziarie reali, ma amplificate fino al parossismo dai media di sinistra ovvero la gran parte dei media nazionali ed esteri , che oggi davanti al proseguimento dei medesimi trend negativi tacciono ossequiosi e speranzosi.

Oggi Mario Monti va a incontrare il marito di Carla Bruni e la Kanzlerin, ovvero coloro che ci hanno messo in ginocchio.

Sarà un altro 8 settembre?

Simbolicamente pare davvero riproporsi quell’infausta data. Ma certo non vi sarà un crollo dello Stato come allora, anzi vi sarà un rafforzamento della sua struttura. Come allora, tuttavia, è certo che vi sarà la conferma del crollo della nostra immagine di Stato sovrano. Oggi all’Italia s’impone la politica estera persino di fare una guerra che non vuole e che si ritorce contro i suoi interessi; si commissiona il governo; si detta addirittura, come ha fatto il ridicolo ometto Van Rompuy per governare l’Europa hanno scelto proprio un politico belga, quando in Belgio la politica è vacante da 528 giorni! —, per di più ospite fra noi, il compito da svolgere a casa.

Che cosa resta dell’Italia, per ironica coincidenza, a 150 anni dalla sua formazione? Possibile che nessuno si accorga che l’attuale grave congiuntura si propone proprio nell’anno destinato a celebrare la nostra unione e il nostro assurgere al rango di potenza?

Dopo averci ubriacato — non dico nel centocinquantenario, ma in un secolo e mezzo di malaeducación patriottarda — di lotta allo straniero — che poi era ciò che restava dell’Impero, contro cui Cavour chiamò a combattere la Francia di Napoleone III e l’Inghilterra! —, di libertà, di democrazia, di resistenza ora si accetta supinamente che torni a fare il bello e il cattivo tempo da noi un’entità sovranazionale assai meno longanime e legittima dell’Austria; che la nostra libertà di sceglierci chi ci governa sia sospesa; che la nostra prosperità di nazione ancora ai vertici mondiali dell’economia venga avvilita.

Ricordiamo, per finire, che dopo il governo tecnico di Badoglio e l’8 settembre al Sud si formerà un governo, anch’esso non eletto, in cui, nel 1944, torneranno, ancora senza elezioni, tutte le forze politiche: liberali, comunisti, socialisti, azionisti, democristiani, di cui che il Paese aveva fatto a meno per vent’anni. Questo governo, dove siede con rango di vice-presidente, ministro, il commissario politico dell’Internazionale Palmiro Togliatti, sarà l’embrione dei governi demo-comunisti che dureranno fino al 1948 quando la guerra fredda e il plebiscito anticomunista del 18 aprile interromperanno il governo consociativo e la costruzione dell’Italia rossa.

Auguriamoci che ciò non accada, che anche oggi i “tecnici” — ma poi sono tutti tecnici veri o solo l’appendice “tecnica” di obbedienze partitiche di centrosinistra? — non siano usati come scusa per abbattere l’esecrato “dittatore” e per reinsediare al governo, quanto meno spianando loro la  strada, il vecchio regime partitico del CLN.

venerdì 18 novembre 2011


Un paese diviso
e ingessato?


   Se volevamo una controprova che i media italiani fossero intossicati, avvelenati, d’ideologia e di obbedienze partitiche basta osservare la virata di 180 gradi che i maggiori canali informativi pubblici e privati hanno effettuato dopo il fatidico 12 novembre scorso.
   Prima si assisteva a un fuoco di sbarramento contro il premier talmente senza tregua e onnipervadente da mozzare il fiato: bastava che Silvio Berlusconi emettesse qualunque giudizio, facesse qualsiasi dichiarazione d’intenti o passo politico, al limite, si limitasse a vivere ― non sempre per verità lodevolmente ― che a tutti i livelli, dai periodici economici più autorevoli agli sguaiati tabloid popolari o per intellettuali progressisti o postcomunisti, si scatenava una orchestra ― o una fanfara ― di critiche, di stracciamenti di panni, d'ironia, di sbracata e gratuita presa in giro. E questo avveniva sia nel circuito italiano, egemonizzato dalla "corazzata" Repubblica e dalle reti pubbliche di news appaltate alla sinistra, sia nel suo pendent estero, con i fogli britannici in pole position. Nessun riconoscimento, anche quando, come nel caso dell’Interno e di molti capitoli della politica estera, i successi dell’amministrazione Berlusconi erano molteplici e vistosi. Nessuna benevolenza, nessuna indulgenza, nessun vero giudizio critico, nessun raffronto fra Italia e resto del mondo ― se non per nuocere ―, nessun confronto fra prima e dopo: bisognava colpire e colpire duro. Anzi, bisognava approfittare dell’opportunità unica e preziosa di una crisi finanziaria continentale per raddoppiare le accuse e le petizioni di dimissioni.
   Ora tutto è cambiato: l’orchestra è passata dal Dies irae e dalla Messa da Requiem alla musichetta stucchevole, quel misto di pop jazz e di evergreens, che accompagna (almeno nella capitale) i matrimoni civili.
   Basta un cenno o un gesto, colto ― con fatica ― nella monotona e anomica retorica del nuovo Designato ― il “Preside”, come lo chiama Ferrara, o “Robocop”, un misto di robot eteroguidato e di poliziotto, privo di guizzi di umanità e che si muove a scatti, come preferisco chiamarlo io – per scatenare peana inverosimili e spalancare abissi di speranze insussistenti davanti agl’italiani. Francamente giudico i toni che ha assunto per esempio un Gr1 del tutto rivoltanti. Credo che neanche al tempo di Mussolini la stampa si sia dimostrata così ossequiosa e strisciante davanti all'“unto” del sovrano. Finalmente regnano la “serietà” e la “responsabilità”, finalmente il clima è di sobrietà ― anche se le serate dei week end degl'italiani non paiono proprio dei quaresimali di massa ―, come se chi c’era prima, per esempio un Bobo Maroni o una Mariastella Gelmini, avesse scherzato o scialato. Finalmente La 7 può fregiarsi di un presidente del Consiglio che non va a puttane e non organizza festini con bunga bunga finale, anche se non si fa scrupolo di trasmettere programmi serali “scientifici” come la Malaeducacion che, per dire il meno, insegnano alle spose e alle fidanzate come trasformarsi in soggetti da bordello: alle 20,30 orrore per la deboscia del premier, alle 23 dài che impariamo (donne e uomini) come si vive il piacere dei sensi!
   A questi ribaltamenti di toni e di accenti, ahimè, noi italiani siamo abituati. Senza tornare indietro fino all'Eiar o ai cinegiornali Luce del periodo fascista, chi ha la mia età ricorda senza m eno quanto veleno radicalmarxista le radio pubbliche ― poi c’era la serie infinita di radio private dei gruppi extraparlamentari, che completava il coro ― sputavano nell’informazione degli anni 1970, quando il Gr1 sembrava la voce della Tass.
*   *   *  
   La cosa su cui, al di là del disgusto, questo ribaltone informativo fa riflettere è quanto alto sia il tasso di ideologia che permea tuttora l’habitat pubblico e quanto profonda sia la spaccatura degl’italiani, e non da ieri, in due campi di opinione irriducibilmente avversi. Due campi che quotano ciascuno poco meno o poco più del 50 per cento del totale. Non c’è più un “Paese legale” separato da un “Paese reale”, ma è il “Paese reale” stesso a essere diviso e la divisione si prolunga nel "Paese legale".
   Il Paese è scisso in due grandi famiglie di riferimenti politici contrapposte, che si possono grosso modo così descrivere.
   L’una è costituita da quelli che vogliono sì cambiare, ma in modo riconciliato con un passato non tutto da buttare via: la linea di tendenza di questa linea di opinione è l’abbandono delle incrostazioni di socialismo che nella cultura e nella società sono state impiantate dal fascismo e che la Repubblica, a partire dagli anni Sessanta, ha portato all’estremo.
   L’altra famiglia, invece, che coltiva anch'essa esigenze di progresso, ma vede possibile rispondere loro solo all’interno di vecchi schemi ideologici e utopici, aggiornati sì, ma al prezzo di gravi difficoltà teoriche e di spesse resistenze psicologiche ― accentuando il valore dell'uguaglianza ― oppure – dal lato della libertà ― proseguendo quel disastroso percorso di liberazione individuale scandito dalle “vittorie” del divorzio, dell’aborto e ora, imminente, dall’eutanasia.
   Lo scontro frale due Italie verte in essenza intorno al problema della revisione della carta fondamentale del Paese: l’una la giudica ormai inadeguata e divisiva, l’altra invece la sacralizza: è “la carta più bella del mondo”, come ha detto il segretario del Partito Democratico in piazza San Giovanni a Roma il 9 novembre.
   Il problema delle mancate riforme in Italia e del colossale debito pubblico ora appesantito dall’euro è tutto qui, in questa sopravvivenza di un passato "che non vuol passare". Al netto delle debolezze strutturali come la denatalità, esiste cioè nella società e nei poteri reali uno zoccolo duro che si oppone al cambiamento in nome di un assetto da Welfare State che è stato costruito in omaggio ai paradigmi egualitari fondativi della Repubblica, ma scaricandone i costi sulle generazioni a venire, uno Stato del benessere che ora non siamo più in grado di permetterci.
   Esiste una Italia che rivendica una conservazione di "privilegi" ― di età, di casta, di classe ― in nome non tanto di principi obsoleti o di diritti inesistenti ma di forme di attuazione di entrambi ormai ingessate e fuori del tempo, che rappresentano altrettanti terribili macigni posti di traverso sul cammino di ogni iniziativa innovatrice ed emancipatrice.
   I governi Berlusconi ― che peraltro non ha governato sempre e non ha presiedutro all'ingresso nell'area dell'euro ― possedevano una carica d’innovazione dirompente ― quella del ceto medio ingrossato nei ranghi e compresso per anni ―, ma hanno dovuto fare i conti con i potenti residui di socialismo “reale” e culturale, a tutti i livelli, che il Paese presentava. E, con le armi spuntate dall’aggressività dei magistrati di sinistra ― altro e percorso oggettivamente “eccentrico” permesso dall’attuale Costituzione-colabrodo ― e l’ostilità dei poteri forti, nonostante la forte maggioranza conseguita nel 2008, l’esecutivo di centrodestra ha potuto fare ben poco.
   Fino a poco tempo fa il problema di questio handicap è rimasto un problema interno. Ma così non poteva durare, visto che l'Italia vive ormai all'interno di una unione di Stati. Ora sono i nostri partner, sinceramente od opportunisticamente, a ricordarci che così non si può andare avanti e bisogna cambiare davvero e adottare assetti pubblici più in linea con il resto dell'Unione e del mondo.  
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   C’è da domandarsi se nuove elezioni generali possano rimuovere questa impasse politica che è prima di tutto una impasse culturale. Francamente penso di no.
   Il passato insegna che di queste Italie contrapposte può prevalere l’una o l’altra, ma ormai con scarti numerici minimi. E con margini ridotti non si può far molto di più della ordinaria amministrazione, che pure è tanto. Le riforme profonde, delle strutture e della “struttura delle strutture”, cioè della Costituzione, richiedono maggioranze “pesanti” e non risicate.
   La via di uscita da questo stallo non s’intravede nell’appello a una memoria oleografica ― come fa la Presidenza della Repubblica ― o "condivisa" o "riconciliata" ― come fanno altre istanze ― di un passato che è tutt’altro che uniti-vo. Né nello spingere l’Italia “neocostituzionale” a rinunciare alle sue istanze che sono poi quelle, legittime, di avere anche in Italia un ambiente civile che è proprio di una larga parte dei Paesi del mondo occidentale avanzato.
   La via che vedo ― benché, consapevolmente, in astratto ― è la disintossicazione dell’Italia veteroprogressista ― mi si passi il maldestro ossìmoro ―, tanto la sua classe politica, quanto il suo elettorato passivo, dal suo ideologismo e dalla sua nefasta deformazione d’immagine e sfiducia nei riguardi dell’avversario.
   Per ottenere questo purtroppo ― lo vediamo nelle piazze e nelle manifestazioni giovanili ― non basta l’impatto con la realtà di un mondo cambiato che le ideologie non spiegano e dalla cui presa non difendono. Né, anche questo lo abbiamo visto, bastano i benefìci oggettivi derivati dai successi ancorché minuscoli – per esempio la lotta alla criminalità o il non incremento delle imposte ― segnati dall’opera di governo dell’avversario, che va invece demonizzata per principio.
   Per sanare il gap non basterebbe, posto per assurdo che fosse legittimo e non lo è, neppure una dittatura che impiegasse mezzi eccezionali.
   Certo non servirebbe una Costituente, dove la spaccatura si riproporrebbe, con il rischio di ricadute peggiorative o solo di meri ritocchi estetici su una nuova carta, destinata almeno per decenza a durare qualche decennio. E nemmeno l'azione un po' bersagliera della Presidenza della Repubblica, troppo prigioniera di schemi ideologici ancora più vetusti di quelli della sinistra ― e che non rinnega la filiére di questi ultimi dai primi ― e i cui appelli sono resi inani dal suo ruolo costituzionalmente limitato.
   Il massimo che si può auspicare ― ma non seriamente ipotizzarne l'avvio ― è un processo di disintossicazione culturale che includa il contatto con la realtà ma preveda anche un’opera di rieducazione a pensare, a pensare fuori da quei ritagli della realtà che sono gli schemi delle ideologie o, peggio, dai gorghi nefasti del “pensiero debole”.
   Certo, la vigente ― almeno in tesi ― ibernazione della lotta politica e la tutela imposta alle parti in causa aiuterà forse, frapponendo un “terzo in causa”, per qualche tempo a smorzare i toni polemici, ma non servirà a risolvere la questione di fondo di un Paese spaccato culturalmente e diviso sul da farsi, anzi forse potrebbe aggravarla. Non è un caso che la rivolta antiglobalizzazione abbia già avuto una revivviscenza che potrebbe tendere ad ampliarsi nella misura in cui il potere, anche se per invocate ragioni di necessità, tende a indurirsi.


lunedì 14 novembre 2011

25 Aprile o 8 settembre?


Il “tiranno” è stato rimosso e la sinistra esulta: “si chiude il sipario su una delle più tristi parentesi della nostra storia”, “siamo in mezzo alle macerie”, “dobbiamo ricostruire”, hanno detto i suoi massimi esponenti.
Parrebbe che Berlusconi sia stato sconfitto da un trionfale moto di popolo di cui la sinistra sarebbe l’interprete e la guida… Ma non è così, e la sinistra finge di non vederlo: come la classica mosca cocchiera crede di essere lei a tirare il carro e non di essere solo un minuscolo passeggero. E conferma anche in questo frangente non solo la sua ribadita impotenza in parlamento, nonostante giochi raffinati e sponde compiacenti, non ha determinato un bel niente —, ma la sua consueta arroganza, la sua disinvoltura etica e la sua povertà morale intrinseca.
Ha fatto di tutto per ostacolare il governo ordinario e soprattutto scatenando persino gli addentellati che ha nella stampa e nei penosi governi esteri per impedire la presa di decisioni straordinarie che il governo del centrodestra era benissimo in grado di prendere da solo. Poi, sorda a ogni appello di collaborazione del Presidente della Repubblica e a ogni profferta del governo ve ne sono state diverse , ha messo in croce il premier, accusandolo di non riuscire a gestire una crisi di cui in larga misura l’ostruzionismo sociale della sinistra è causa.
Ora accetta senza fiatare la sospensione delle regole democratiche Costituzione o no, è semplice buon senso che governa solo chi vince le elezioni dopo aver strillato per anni contro il “regime” illiberale berlusconiano. Ma, si sa, la contraddizione è “naturale”, è nel DNA, dei postmarxisti.
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Ma, nonostante i toni apocalittici, non è stata una Waterloo, una sconfitta che ha travolto il despota, ma al massimo un Piave dopo la Caporetto del 2008 e una Vittorio Veneto, vinta, come allora, solo grazie a potenti alleati stranieri e contro un fronte nemico che già si stava sgretolando.
La faziosità con la quale ha salutato la notizia delle imminenti dimissioni di Silvio Berlusconi, ma specialmente lo scatenamento maramaldesco ma con scaltra attenzione ai media esteri della piazza contro il premier uscente nelle ore del trapasso dei poteri dimostra che ha assaporato l’ebbrezza di un nuovo 25 luglio 1943, quando il tiranno venne licenziato dal re sotto la pressione della guerra ormai persa. Ma che non ha capito che il 25 luglio è solo il preambolo all’8 settembre.
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E questa mi pare l’analogia più “forte” di quanto sta accadendo.
Il licenziamento di Berlusconi, il commissariamento politico dell’Italia, la rimozione di un governo legittimo e capace, il nuovo regime presidenziale-tecnocratico, puzzano non tanto di 25 aprile, di golpe della Corona, come ha detto l’on. Di Pietro, quanto di 8 settembre, ovvero di crollo non solo di un regime ma di uno Stato.
Quello che si sta svolgendo sotto i nostri occhi non è la crisi di una nazione, pur attraversata da problemi non piccoli, ma è la macchina dello Stato nato fra il 1943 e il 1948 e la sua ideologia, incapaci di realizzare, in un contesto diventato ostile, i mille presunti diritti che ogni giorno una cultura impazzita fa nascere e di svolgere decentemente — dall’ordine pubblico alla nettezza urbana — la miriade di funzioni sociali si è arrogato, togliendole alla società.
Se l’8 settembre 1943, infatti, caduto il tiranno che si è prestato al gioco, cade anche la monarchia liberale, lo Stato liberale stesso nato dal Risorgimento, ora, a quasi settant’anni dall’8 settembre, al capolinea pare essere arrivata la Repubblica semi-socialista, fondata sul lavoro e non su Dio — almeno un Dio condivisibile —, nata dal patto di unità nazionale fra le forze risorgimentali — inclusi i cattolici democratici — e socialiste stipulato allora.
Abbandonata dall’ombrello americano, dopo il 1989 essa ha dovuto confrontarsi con un mondo in rapido cambiamento, ma non ha voluto liberarsi dalle tossine accumulate e abbandonare le rigidità ereditate dall’esperienza semi-totalitaria del fascismo e dalle strutture a capitalismo di Stato e consociative che si era date nel secondo dopoguerra. Ha continuato a produrre Welfare scaricandone i costi sul pubblico e sulle generazioni a venire, senza tener conto dell’erosione che non da ieri fenomeni trasversali, come per esempio la denatalità, c’imponevano.
La perdita di competitività di un sistema produttivo pur brillante e creativo nei nuovi orizzonti globali a causa di un costo del lavoro insostenibile è stata la conseguenza di questo mancato adeguamento. L’euro, così com’è stato congegnato al tempo di Romano Prodi, ha dato il colpo di grazia, impoverendo gl’italiani e trasformando un forte debito statale in valuta debole in un debito in valuta forte, ergo sempre più pesante.
Berlusconi ha cercato fin dall'inizio di porre rimedio a questi handicap originari ma si è scontrata con formidabili coaguli conservatori — sindacati populisti, partiti rimasti tenacemente ideologici ancorché metamorfizzati, scorie impazzite del Sessantotto, media incattiviti, pezzi di Stato in rivolta — e ha faticato tremendamente a fare il non poco che ha fatto. Ora i nodi del mancato riposizionamento vengono a galla sulla spinta dei poteri estranei ed extrapolitici che ormai avvolgono la Repubblica.
L’intento dell’operazione avviata ieri con il varo di un governo tecnico dovrebbe essere quello di attuare un intervento straordinario — una forzatura delle regole, ovvero un micro-golpe —, che sospende temporaneamente il verdetto del popolo, per far in modo che a rimettere ordine siano dei tecnici e non i politici eletti — al governo e all’opposizione — che si sono dimostrati — nell’ipotesi — non all’altezza della situazione.
Ma questo nuovo arroccamento dell’establishment italiano attuato sulla testa del popolo —riprendiamo in mano noi le redini… —, come la rimozione di Mussolini, non farà vincere la guerra e porterà anzi al marasma dell’8 settembre. Chi voleva salvarsi e salvare il Paese dalla guerra glo poi esposto a due invasioni simmetriche e allo scontro fra i due nemici stranieri sul suolo patrio, cui si è accompagnata al Centro-Nord una sanguinosa guerra civile.
Chi ha fatto la mossa vuole mettersi a posto con l’Unione Europea e con i mercati, ma salvando le “conquiste democratiche”, la concertazione, il potere sindacale, la Costituzione democratico-sociale e il Welfare e pur di riuscirci non esita ad affidarsi a personaggi non eletti da popolo, che finiranno per ripercorrere poi, questa volta però senza contestazioni, le orme lasciate da Berlusconi, limitandosi semplicemente a inasprire la portata degl’interventi fiscali e legislativi.
Questa tentata blindatura dei vecchi assetti per salvare capra e cavoli pare la classica palizzata che la cavalleria supererà di slancio o, con altra metafora, la diga che le maree finiranno per sommergere.
I venti della globalizzazione che flagellano la Magna Europa e il resto del mondo o cesseranno oppure non vi sarà riparo tecnico sufficiente da essi.
Se non si cambierà in profondo e non si punterà a rimodellare la convivenza civile secondo nuovi parametri, che salvino i diritti veri, la giustizia e l’equità, l’identità e la libertà, ma smantellino le loro contraffazioni ideologiche vecchie e nuove, e veicolino e convoglino, invece che arginarli, i macro-processi che attraversano il nostro tempo, credo i micro-golpe serviranno a ben poco: i professori di economia non hanno mai salvato nessuna repubblica dal disastro.
Ma forse non è solo questione di economia. L’Europa tutta sta subendo una sorta di “normalizzazione” politica: non è solo l’Italia, ma anche il Portogallo, l’Islanda, l’Irlanda, la Grecia a essere rimessi in riga dai poteri europei che non possono o non vogliono ammettere regimi eccentrici che per esempio vietino l’aborto come l’Irlanda o siano governati da un centrodestra “anomalo” come l’Italia.
Se si pensa che anche la sponda settentrionale del Mediterraneo è stata normalizzata — benché con altri metodi — in pochi mesi, depurandola, apparentemente “a furor di popolo”, di tutti o di quasi tutti i poteri assoluti o personali — da Ben Alì a Gheddafi, a Mubarak — che vi regnavano, sembrerebbe di trovarsi di fronte a una accelerazione, a un passo avanti, alla nascita di una ulteriore tessera di mosaico, dei processi di mondializzazione nati dopo il 1789 e letti come itinerario verso una Repubblica Universale — secolarizzata e ugualitaria, umanitaria e democratica, ma in realtà nelle mani di pochi “iniziati” — da autori di scuola cattolica contro-rivoluzionaria. Prima si è globalizzata la finanza, nell’Ottocento; poi, nel Novecento, l’economia; quindi la politica. È una catena: la prima non ha senso se non si attua la seconda, e la terza è conseguenza necessaria dell’ingovernabilità delle crisi che si producono a valle di entrambe le altre.
Come resistere a questi trend illiberali che vengono da molto lontano nel tempo?
Gli spazi di libertà per animare la società e metterla in guardia da quanto accade ci sono e vanno sfruttati al massimo; così come i meccanismi politici sono ancora in larga misura aperti e popolari e occorre sapientemente avvalersene. Per il resto è difficile individuare ricette.






venerdì 11 novembre 2011

CHI GOVERNA LA LIGURIA?


­La stampa italiana è davvero una potenza: è talmente forte che è capace di plasmare addirittura la realtà. Come vi riesce? Non sempre con mentendo, ma semplicemente ritagliandola, facendo un collage di spezzoni di fatti per costruire una immagine complessiva da essi difforme. Lascio per un attimo da parte la cronaca politica che di questo patisce in maniera “cronica” – mi si passi il bisticcio terminologico – per soffermarmi su un piccolo episodio di cronaca. Nelle recenti alluvioni di Genova e del Levante ligure sono emerse precise responsabilità – non voglio condannare senza processo, per questo non dico “colpevolezze” – delle autorità comunali e regionali.
Ora – questo è il fatto che voglio sottolineare – non è mai stato detto che chi governa il Comune di Genova e la Regione Liguria è esponente di rilievo - nel secondo caso un ex ministro della Repubblica – del Partito Democratico.
Nemmeno Avvenire, che sicuramente non fa parte dello schieramento di cui è centro il secondo partito politico del Paese, ha osato pronunciare il nome del Pd.
E questo sarebbe questo un modo ineccepibile di comportarsi, se fosse parte del codice deontologico comune del giornalismo.
Ma così non è e pare invece, questo della stampa, un atteggiamento di oggettivo favoreggiamento nei confronti di chi governa a sinistra.
Provate a pensare che cosa sarebbe successo se fossero stati coinvolti dei rappresentanti del centrodestra, della Lega o del PdL.
Avremmo visto le loro facce sbattute in prima pagina con tanto di didascalia e di n. di tessera!

giovedì 10 novembre 2011

Inizia la "normalizzazione"? 

Ventidue anni fa veniva rimosso il Muro di Berlino e l’Europa, forse il mondo, voltava pagina. Da noi oggi pare invece che quello che il 9 novembre del 1989 aveva spazzato via si riaffacci con un volto senz’altro meno truce ma, come di consueto, beffardo e protervo.
Se sarà varato un governo Monti vorrà dire che la vacanza — in senso tecnico, ma non solo — è finita. Se il Parlamento del 2008-2011 sarà il primo parlamento senza comunisti, il governo Berlusconi IV sarà stato l’unico e l’ultimo governo eversivo del vecchio patto del CLN, la sola eccezione nel panorama dei governi del secondo dopoguerra, anche tenendo conto dei governi senza PCi e senza PSI di prima del 1963. L’Italia verrà così “normalizzata” — e prego chi legge di amplificare con cura tutti gli echi che questo termine, dopo Varsavia 1980, può evocare il lui (o in lei) —, rientrerà nei ranghi entro cui la vogliono costringere le forze “conservatrici” e nostalgiche del “vecchio regime”, indebolite ma mai sconfitte.
Ma la vogliono anche — pare — i poteri europei. Anzi, vogliono addirittura un commissariamento totale. A costoro non basta più inserire nei governi eletti dal popolo figure di “osservatori” alla Dini (Berlusconi I) o alla Renato Ruggiero (Berlusconi II): adesso vogliono che un ex commissario europeo — “ironia della sorte”, mandato a Bruxelles nel 1994 da Berlusconi —, investito del laticlavio in extremis per oscurare la natura “tecnica” del soggetto — assuma la titolarità dell’esecutivo, adoperando la leva dell’emergenza finanziaria — ma è anche emergenza economica? — per estorcere l’assenso all’operazione “normalizzatrice” anche dello sconfitto, ovvero del PdL.
Che la sovranità del quarto esecutivo Berlusconi fosse limitata lo si era capito da un pezzo. Il Presidente della Repubblica si è sempre preso libertà inaudite, con il plauso del suo schieramento di origine, la sinistra. Le regole costituzionali — la nostra Carta si è rivelata nel contempo tutt’altro che “la più bella del mondo”, come sostiene l’on. Bersani, ma un vero e proprio colabrodo, da riformare a ogni costo —, hanno consentito che contro il governo eletto dal popolo fosse scatenata un lotta implacabile non tanto da una opposizione, tanto virulenta e proditoria quanto palesemente impotente a gestire persino se stessa, ma da apparati gravidi di potere reale, come la magistratura, i media nazionali e stranieri, l’intellighenzia e lo spettacolo — che hanno tramutato il titolare della Presidenza del Consiglio in una macchietta, insolentita dal colto e dal popolaccio —, i sindacati e la Confindustria, e ora la Commissione Europea. Tutto questo sforzo corale ha impedito il normale svolgimento della legislatura. Anzi, la resistenza del premier e dei suoi collaboratori nel tentare di attuare comunque il programma in un contesto di crisi finanziaria internazionale iniziata proprio nel 2008 e aggravatasi in seguito, davanti a questa gigantesca “orchestra” è apparsa del tutto straordinaria.
Certo Berlusconi paga oggi la disinvoltura con la quale ha gestito la sua immagine pubblica, e che gli ha inimicato i cattolici “doc”, così come la colpa di aver portato a Montecitorio, come si dice, “cani e porci”: relitti del vecchio socialismo, ex soubrette, show-girl, sarti celebri, maneggioni vari e incapaci, che davanti alla prospettiva di dover tornare a lavorare oggi hanno preferito tradirlo.
Sì, tradirlo, con buona pace del professor Galli della Loggia che irride sul Corriere di oggi lo sfogo di Berlusconi dell’altroieri, ignorando infatti la carica idealistica che vi è dietro a regimi carismatici e populistici come quello berlusconiano e dimostrando così per questo — ma anche per il benvenuto che dà poco dopo, nello stesso intervento, al "ritorno della politica", un ritorno che vede solo lui —, per inciso, ancora una volta i limiti della sua autorevolezza come politologo. L’altroieri è stata tradita non solo una persona, ma anche un programma di autentico rinnovamento — pur con non tutti i suoi limiti — del Paese.
Che cosa possiamo attenderci?
Non occorre la sfera di cristallo per pronosticare una imminente stangata fiscale bella forte, che graverà come sempre sui minores e che non passerà forse nel silenzio passerà ma di sicuro nell’acquiescenza dei sindacati e scatenerà l’entusiasmo dei “normalizzatori responsabili” e che il centrodestra dovrà mandar giù comunque. Con un governo tecnico di larghe intese ai moderati e ai conservatori verrà a mancare quel potere fra i poteri che nello stato policentrico moderno è il potere esecutivo e parlamentare. Chi se ne approprierà potrà così finalmente avere un’orchestra al completo di tutti i suoi strumenti, anche se la musica che suonerà non sarà delle più gradevoli. Dopo la stangata è facilmente prevedibile che cercheranno di tradursi in realtà tutti i “sogni nel cassetto” — chi ha sentito il discorso di Bersani in piazza San Giovanni a Roma lo scorso sabato ne ha avuto un inventario completo — che la sinistra ha coltivato negli ultimi anni, soprattutto in materia di etica pubblica e di etica della vita.
Forse ci saranno le elezioni, ma solo quando farà comodo a chi tira le fila e, probabilmente, con una legge elettorale che penalizzerà il centrodestra.
L’importante è che di fronte alla situazione repentinamente mutata il PdL non si lasci demoralizzare e non si disgreghi. Sono possibili articolazioni tattiche — qualcuno ha parlato di andare alle elezioni con due liste, una dei fan di Berlusconi, l’altra con l’etichetta PdL —, anzi è bene che si pensi a come aumentare con la flessibilità delle formule l’efficacia dell’azione politica. Soprattutto è urgente che si rinnovi il personale politico candidato a sedere in parlamento: basta con i personaggi “prestati alla politica”, basta con "nani, saltimbanchi e ballerine"... Ma, occorre abbandonare per prima cosa ogni prospettiva di sollievo e di inazione del tipo: “ora la patata bollente passa nelle mani della sinistra: vediamo come se la cava…”. Il centrodestra deve rimanere coeso nel riproporre con forza quel programma che non è riuscito ad attuare in pieno per colpa altrui. E, imparando da come ha agito l’avversario, cerchi di far pagar cara ai nuovi poteri ogni loro mossa.
Soprattutto, gli uomini del centrodestra, fra cui non pochi cattolici, si convincano che nella storia e nella politica non vi è nulla che duri per sempre così com’è. E che nei momenti di rovescio bisogna tenere fermi i principi, i ruoli, le regole, la propria identità e la propria responsabilità di rappresentare le istanze di milioni di italiani, ancora una volta in via di essere beffati da “quelli che contano”.
Che cosa augurarsi? Ormai solo che il governo tecnico e di larghe intese fallisca e si torni alle urne. Spiace dirlo, perché le elezioni ci costeranno un sacco di quattrini che si potrebbero destinare a cose più urgenti e non è assolutamente probabile che un centrodestra, anche rinnovato — l'assenza quasi certa del vecchio leader sarà un handicap non da poco e le primarie, se vi saranno, potrebbero rivelarsi controproducenti —, le vinca. Però è meglio rischiare una sconfitta alle urne che farsi governare e tosare in silenzio come le pecore.












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