mercoledì 15 novembre 2006



Su la Repubblica Mario Pirani continua a scagliarsi contro il Viva Maria aretino e in generale contro quella importante pagina della storia italiana degli anni di Napoleone, che va sotto il nome di Insorgenza. Non sopporta che ad Arezzo la vecchia giunta abbia fissato la memoria del grande moto popolare che ebbe Arezzo come epicentro fra il 1799 e il 1800 con una piccola e semplice targa in una piazzetta secondaria.
Non sarebbe infatti “politicamente corretto” secondo lui commemorare movimenti che per le loro finalità — nella fattispecie la resistenza contro la Rivoluzione di Francia, portata dagli eserciti di Napoleone e fatti propri dal giacobinismo italiano — si pongano fuori dal quel canone riassumibile — come scrive — nel «binomio Resistenza-Costituzione», con tutte le sue possibili proiezioni all’indietro e in avanti. Poi, guarda caso, nella liberazione di Siena gli aretini si sarebbero macchiati dell’eccidio di tredici ebrei, il che porrebbe il moto ma anche tutto il ciclo dei moti anti-francesi italiani a cavallo dei secoli XVIII e XIX sotto la sinistra luce dell’antisemitismo di matrice cattolica.
Senza entrare nel merito — qualche elemento in più si può trovare in un commento che ho scritto per il sito “Storia & Identità” (
www.identitanazionale.it) — mi domando che senso ha negare spazio a realtà enormi come il Viva Maria solo perché ritenute “scorrette”. Che senso ha amputare la memoria, anche pubblica — accanendosi contro una piccola lapide —, nazionale di parti essenziali — quanto meno sotto il profilo fattuale — se si vuole capire che cos’è realmente l’Italia, a che prezzo si è costruita, che cosa vive nel profondo dell’ethos nazionale. L’Insorgenza c’è stata, è stata grande, ha perso, ma ha lasciato tracce che stanno un po’ alla volta affiorando dopo secoli di censura. Pensare oggi a un’Italia di domani senza tener conto di queste sacche di “scorrettezza” sarebbe un tragico errore.
E poi il signor Pirani è davvero convinto che un’Italia senza i giacobini e senza Napoleone o in cui per assurdo l’Insorgenza avesse vinto sarebbe stata solo un enorme rogo di ebrei? O, magari, invece si sarebbe evoluta in forme più soft e in armonia con le sue radici, magari, per la sua frammentazione storica, “all’inglese” o “alla svizzera”, evitando o riducendo le tragedie del centralismo e dell’ideologismo che l’hanno attanagliata nei duecento anni da allora?

lunedì 13 novembre 2006


Mi ha colpito uno spunto che ho trovato tempo addietro in uno scritto del compianto maestro, nonché amico, Cesare Mozzarelli, che a sua volta si rifaceva a un’idea colta nella Favola delle api di Bernard de Mandeville, quella dei “vizi privati e pubbliche virtù”, per intenderci.

Rifletto quasi ininterrottamente su quello che mi sembra il “problema dei problemi” del mondo di oggi: che definizione dare e quindi quale giudizio formulare e, infine, che atteggiamento tenere nei confronti della modernità? Va accettata in pieno, in una logica di ineluttabilità superiorità valoriale di “ciò che viene dopo”? È puro male? È “la” Rivoluzione? Oppure va sceverato al suo interno il loglio dal grano? E riportata alle sue basi umanistiche, ora che è diventata per più di un aspetto “troppo umana” e non di rado anti-umana?

Ogni spunto che mi aiuti in questo è per me prezioso.

Per cui apprezzo il pensiero di Mozzarelli — che ovviamente riassumo e “riduco” —, secondo il quale il problema, e in certa misura il dramma, dell’uomo moderno starebbe nell’“abnorme” e crescente dilatazione della sfera dei diritti individuali che la modernità ha portato con sé. Ovviamente Mozzarelli, storico dell’età detta “moderna” per la predominanza di tale realtà — almeno — in seno alla civiltà occidentale, ha l’occhio più attento ai fenomeni del periodo in cui questa crescita è agli inizi, forse anche alla maturità, ma non certo al parossismo attuale.

In un orizzonte, come quello del pensiero moderno, in cui — in tesi — si muovono non più “corpi”, come nel Medioevo, ma individui, in cui la tradizione è azzerata, il limite puramente naturale (il freddo degli inverni o il buio della notte, per esempio) (gli elementi pre-razionali) sbiadisce e non esiste per definizione alcun elemento normativo di origine religiosa (l’elemento meta-razionale) che influisca sulla sfera morale, quest’ultima è presidiata dalla mera razionalità cartesiana ed è aperta a tutte le derive che l’esperienza storica ci ha ormai fatto conoscere riguardo a questa forma di razionalità.

Per garantire dunque quella che gli autori sei- e settecenteschi chiamano “la felicità” — naturalmente su questa terra —, per rendere possibile razionalmente questo ampliamento dei diritti — il termine ultimo, cui ci stiamo pericolosamente avvicinando, è la coincidenza fra diritto e desiderio —, per evitare che il moltiplicarsi degli atti a tale libertà conseguenti non porti a frizioni, a cozzi, a conflitti, la sfera pubblica deve sviluppare proporzionalmente le sue leve, i suoi meccanismi di controllo, di prevenzione e di eliminazione dei conflitti, di ripristino dei diritti quando essi siano violati.

Da qui, soprattutto nell’Europa della riflessione post-westfaliana, nasce la crescente “trofìa” e poi “ipertrofìa” dell’apparato pubblico, degli organi di polizia, degli eserciti, dei magistrati, dei catasti, delle anagrafi, e via dicendo.

Mi sembra una intuizione eccellente. La prima modernità, quella pre-industriale ha risolto in termini efficienti questa antinomia fra ampliamento dei diritti e dimensioni e complessità degli apparati sociali: in fin dei conti si trattava di diritti di pochi… Peggio inizia ad andare con le società liberali dell’Ottocento, ma il tutto ancora “tiene”…
Il salto si opera all’inizio del Novecento con la nascita della civiltà di massa, quando i conflitti sociali si fanno sempre più numerosi…
La traiettoria dello Stato moderno sempre più esteso, sempre più articolato nella sua amministrazione, sempre più popolato, se non affollato, di commis, funzionari, impiegati, tecnici contabili, dipendenti, sempre più vorace fiscalmente, sempre più ferreo nel dominio su quelli che non si chiamano più sudditi ma cittadini, descrive bene questo processo sincronico di crescita.

E si può dire che fino agli anni 1950-60, fino a che è durata la modernità “dura”, l’organizzazione sociale razional-burocratica-industriale alla Max Weber o alla Henry Ford, la condizione è stata ancora di equilibrio: diritti sempre più grandi, apparati sempre più estesi...

Chi ha vissuto in una grande città europea o italiana in quest’epoca — come il sottoscritto — ricorda ancora l’ordine che vi regnava, la pulizia che almeno nella maggior parte dei quartieri era un dato acquisito, i mezzi di trasporto in condizioni civili, una circolazione certo rarefatta rispetto a oggi ma scorrevole… Non che non vi fossero ubriachezza, prostituzione, furti, delitti, oscenità: ma il tutto riusciva ad essere controllato o, almeno, represso dalle strutture preposte.

Il punto di non ritorno è stato varcato credo con gli anni Sessanta e Settanta. Con l’esplosione del desiderio illimitato che si apre emblematicamente nel 1968 e il mutamento culturale, ossia di senso comune della gente, che ne deriva, con le migrazioni e con il nomadismo periodico scientemente coltivato, le cose cambiano. Le strade cittadine — ma anche le arterie commerciali — non riescono più a contenere il cresciuto numero di veicoli, la nettezza urbana non riesce più a tenere pulite le città, la criminalità cresce e si fa di giorno in giorno più audace, i treni sono sempre più sudici, la violenza politica scende nelle strade…
Oggi, quando la coppia desideri-diritti è diventata la politica, l’unica politica, di ampi schieramenti ideologici e partitici, siamo vicini al collasso.

Casi clamorosi come le immondizie in Campania, l’infiltrazione silenziosa di migliaia di comunità esotiche, cinesi, nordafricane, filippine, sudamericane, il traffico fuori controllo, la pornografia ormai ambientale, la pedofilia scatenata, le periferie a rischio di sedizione, la pratica depenalizzazione di centinaia di delitti per impossibilità di reprimerli, il dilagare della prostituzione a cielo aperto, l’impossibilità di aver dalla propria l’autorità pubblica impersonata da un vigile o da un poliziotto, in tanti, troppi frangenti, ne sono le spie. Per tenere sotto controllo — ovvero solo a un livello di non conflittualità o di conflittualità a basso livello agglomerati enormi, così privi di identità, così atomizzati occorrerebbero apparati davvero da Stato totalitario, da polizia cinese.
Il quesito è: può la convivenza umana sopportare la dilatazione di questa coppia diritti-apparati all’infinito? Fino a quando? Vi è un limite fisiologico ai diritti? Come intervenire, se così fosse? Solo riducendo i diritti e reprimendo? O rieducando?

Certo il primo passo è prendere coscienza che la modernità presenta delle aporie. Che non è una rivelazione divina alternativa a quella cristiana: semmai il suo rovescio parodistico.

Ci si trova oggi di fronte al paradosso che per avere più libertà poi ci si trova oggettivamente limitati nel suo godimento. La modernità si rivolta contro sé stessa. L’agibilità dei diritti conquistati non è più piena. Lo Stato è impotente a garantire una tale vita alla società, una vita così “eccentrica” perché priva di “centro”, come teorizzava Hans Sedlmayr.
Lo Stato, pur drenando sempre più risorse per far funzionare il suo pletorico apparato, abbandona la società a sé stessa e il substrato morale e i residui di tradizione sopravviventi, che fanno da collante provvisorio, sono sempre più erosi e insufficienti. Né davanti alle sue carenze allenta la morsa fiscale e lascia libera la società di auto-organizzarsi e di provvedere a proprie spese ai servizi e alle sue necessità…

Si vuole uscire a tutte le ore e ci si trova di fronte al rischio della borsa o della vita o semplicemente al cumulo di rifiuti che ammorba l’aria o al cafone che ti blocca il passo carraio. Si vuole dormire quando e quanto ci pare e ci si trova accanto il luogo di svago — uno di centinaia, ormai — dove c’è gente che “tira” per abitudine le quattro di mattina. Ci si possono permettere auto sempre più veloci e si finisce per passare le ore in coda ai semafori.

La riflessione sulla modernità si snoda dunque chiedendosi se non sia questa la vera chiave — modernità come individualismo senza freni, come dilatazione dei diritti individuali fino “a farsi male”, che porta con se l’indurimento e una crescita abnorme delle strutture —, l’angolatura giusta per leggere la modernità nella sua essenza e nei suoi riflessi politici e sociali e per sottoporla — forse — a una critica efficace, indicando dei rimedi o almeno delle piste alternative al suo trionfo illimitato in questa versione che sta dissolvendo la convivenza civile?

Nel corso dell’udienza dell’11 novembre 2006 alla Fondazione Sacra Famiglia di Nazareth — fondata nel 1946 dal card. Domenico Tardini (1888-1961), segretario di Stato di Papa Giovanni XXIII e presieduta oggi dal card. Achille Silvestrini — e all’associazione laicale “Comunità Domenico Tardini” Benedetto XVI ha tenuto un discorso che, fra l’altro, sottolinea l’importanza dell’apostolato della cultura e mette a fuoco lo stile che deve caratterizzare l’intellettuale cristiano.

Ne riporto i brani salienti.

«La fede scruta l’invisibile ed è perciò amica della ragione che si pone gli interrogativi essenziali da cui attende senso il nostro cammino quaggiù.Può essere illuminante, a questo riguardo, la domanda che, secondo il racconto di Luca negli Atti degli Apostoli, il diacono Filippo pone all’Etiope incontrato sulla strada da Gerusalemme a Gaza: “Capisci quello che stai leggendo?” (At 8,30). L’Etiope risponde: “E come lo potrei se nessuno mi istruisce?” (At 8,31). Filippo allora gli parla di Cristo. L’Etiope scopre così la risposta ai propri interrogativi nella persona di Cristo annunciato con parole velate dal profeta Isaia. È dunque importante che qualcuno arrivi accanto a chi è in cammino e gli annunci “la buona novella di Gesù”, come fece Filippo. È qui adombrata la “diaconia” che la cultura cristiana può svolgere nell’aiutare le persone in ricerca a scoprire Colui che è nascosto nelle pagine della Bibbia come nelle vicende della vita di ciascuno. Ma non si deve dimenticare che il Signore si dice sfamato, dissetato, ospitato, vestito, visitato in ogni persona bisognosa (cfr. Mt 25,31-46). Egli dunque è pure “nascosto” in tali persone ed eventi. […] Unendo tra loro queste immagini e questi ammonimenti voi potete comprendere chiaramente quanto siano inscindibili la verità e l’amore. Nessuna cultura può essere contenta di se stessa finché non scopre che deve farsi attenta alle necessità reali e profonde dell’uomo, di ogni uomo. […] È dato di sperimentare come la parola di Dio richieda un ascolto attento ed un cuore generoso e maturo per essere vissuta in pienezza. I contenuti della rivelazione di Gesù sono concreti ed un intellettuale cristianamente ispirato deve sempre essere pronto a comunicarli quando dialoga con coloro che sono alla ricerca di soluzioni capaci di migliorare l’esistenza e di rispondere all’inquietudine che assilla ogni cuore umano. Occorre mostrare soprattutto la corrispondenza profonda che esiste tra le istanze che emergono dalla riflessione sulle vicende umane e il Logos divino che “si è fatto carne” ed è venuto “ad abitare in mezzo a noi” (cfr. Gv 1,14). Si crea così una convergenza feconda tra i postulati della ragione e le risposte della Rivelazione e proprio di qui scaturisce una luce che illumina la strada su cui orientare il proprio impegno. Nel quotidiano contatto con la Scrittura e gli insegnamenti della Chiesa si sviluppa la vostra maturazione sul piano umano, professionale e spirituale, e voi potete così entrare sempre più nel mistero di quella Ragione creatrice che continua ad amare il mondo e a dialogare con la libertà delle creature. Un intellettuale cristiano […] deve coltivare sempre in sé lo stupore per questa verità di fondo. Ciò facilita l’adesione docile allo Spirito di Dio e, al tempo stesso, spinge a servire i fratelli con pronta disponibilità.Potete desumere lo “stile” del vostro impegno da una parola di san Paolo alla comunità cristiana che viveva a Filippi: “Fratelli, tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri” (Fil 4,8). È proprio in questa prospettiva che voi potete tessere un dialogo fecondo con la cultura, e recare il vostro contributo per far sì che tante persone trovino la risposta in Gesù Cristo. Sentitevi anche voi mossi dallo Spirito di Gesù, come avvenne al diacono Filippo che si sentì dire: “Alzati e va’ verso il mezzogiorno, sulla strada che discende da Gerusalemme a Gaza; essa è deserta” (cfr. At 8,26). Anche oggi […] non sono poche le “strade deserte” sulle quali vi troverete a camminare nella vostra esistenza di credenti: proprio lungo esse potrete affiancarvi a chi cerca il senso della vita. Preparatevi ad essere anche voi a servizio di una cultura che favorisca l’incontro di fraternità dell’uomo con l’uomo e la scoperta della salvezza che ci viene da Cristo […].

domenica 12 novembre 2006



Regalità di Cristo e Sacro Impero

Ultima domenica dell’anno liturgico ambrosiano: festa di Cristo Re.

Gesù Cristo regna dalla croce: il suo titolo di acquisto di questo scomodo trono è la sofferenza, la sofferenza infinita di un uomo, che è anche Dio: «regnavit a ligno Deus», canta l’inno quaresimale Vexilla regis, gli stendardi del re.
La condizione di massima debolezza umana — umiliato peggio di una bestia inchiodandolo su un rozzo palo traverso — si coniuga con il più grande risultato ottenibile: la riconciliazione di tutta l’umanità, presente e futura, con il Creatore.


Gesù si annulla sulla croce, la sua divinità lungo tutta la passione scompare, tutti lo abbandonano, quando spira invoca il Padre che non avverte più presente.

Passano solo poche ore, però, e Gesù risorge: la potenza infinita che è in lui, intrinseca alla sua natura divina, esplode. Cristo schiaccia la morte che lo ha avuto in suo possesso solo per trentasei ore e riappare alla luce del mondo in tutta la sua maestà e gloria.

La sua regalità è quindi intrisa di dolore e di onnipotenza, di abbrutimento e di splendore, di annichilamento e di esaltazione.

E in che cosa consiste il suo regno, non in assoluto — la vita trinitaria —, ma per noi sue creature?

Gesù dovunque passava su questa terra portava luce, amore, gioia: e anche verità, giustizia, pace. «Pertransivit benefaciendo sanando omnes oppressos a diabolo quoniam Deus erat cum illo», dicono gli Atti degli Apostoli (10, 38).

Il regno di Cristo, morto, risorto e che siede alla destra del Padre, è storicamente cominciato su questa terra, con la vita stessa del Verbo Incarnato fra gli uomini della Palestina, nel popolo di Abramo e di Mosè. Ed è continuato, nel suo strato temporale, nella comunità dei suoi seguaci, che egli convoca: la “ecclesia”, la Chiesa. Per sua opera il regno di Dio si è irraggiato nello spazio e nel tempo e si è propagato agli uomini, ai singoli quanto alle strutture. Prima ai singoli, poi alle strutture e, in certi casi come la conversione dei re, prima nelle strutture e poi nei popoli e nei singoli.

Lentamente, secondo le stesse modalità del Redentore, cioè attraverso la croce e diffondendo lo splendore della verità che è Cristo risorto, il mondo — tanto il colto e scettico mondo greco-romano, quanto i popoli giovani e ignari, i barbari — si è piegato al soffio di questo vento.
È così nata una famiglia di nazioni e di popoli che hanno assunto Cristo come loro centro e come carattere distintivo: la cristianità.

Nel suo seno la regalità di Cristo ha cercato di attuarsi vincendo le resistenze del peccato originale: sono nate istituzioni per propagare la dottrina di Cristo, per attuare la giustizia e per ottenere la pace. Per quanto possibile nei vari frangenti concreti e nei limiti della natura decaduta.

Ma vi è un culmine in quest’ambito cui la cristianità occidentale arriva nel secolo IX: il sacro impero, che si ricollega in spirito a quello universale di Roma.

Che cos’è stato il Sacrum imperium cristiano? Un luogo di oppressione? Una sfilata di bandiere e di costumi rutilanti? Un insieme di ritualità vuote?

No. Solo l’istanza suprema, seconda solo alla Chiesa di Cristo, che gli uomini convertiti vollero darsi e in cui si attuavano le tre dimensioni evocate. La verità: l’Impero si autodefinisce sacro, fa sua tutta la dottrina che la Chiesa insegna e ne tutela la propagazione, in tesi fino ai confini dell’universo. La giustizia: l’essenza dell’impero è di fungere da istanza arbitrale suprema, che opera al di sopra dei re e dei grandi della terra, che dirime in forma incruenta i conflitti. La pace: «opus iustitiae pax», ricordava Pio XII, che ne fece la divisa del suo pontificato. «Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono», insegnerà Giovanni Paolo II — nel suo messaggio per la Giornata della Pace del 2002 —, e infine «Nella verità, la pace», gli farà eco Benedetto XVI nella stessa occasione quest’anno 2006.

Dunque l’impero è il prodotto dello sforzo dell’uomo medievale di riconoscere e di attuare la regalità di Cristo su questa terra in maniera non generica, ma tangibile, creando cioè — molto medievalmente peraltro — un organismo, una struttura universale, che consenta, per quanto è possibile in questa valle di lacrime, realizzare la pace di Cristo nella verità e nella giustizia.

Se l’Occidente è quello che è, lo è grazie anche a questa struttura che è allo stesso tempo prodotto del suo ethos, e fattore plasmatore di questo ethos medesimo. Ringraziamo la Provvidenza che ha voluto creare e conservare questo grande istituto — anche se sempre più offuscato e indebolito — ai cristiani fino all’inizio del secolo XIX. E commiseriamo il nostro tempo in cui si cerca di costruire simulacri invertiti di questa suprema e benefica istanza. Per ridare una forma tangibile e universale alla regalità del Signore Gesù i tempi sono lunghi: è stato relativamente facile distruggere, lungo e arduo sarà ricostruire. Ci vorrà prima la instaurazione del trono di Cristo nei cuori, attraverso l’accettazione del sacrificio e nel riempimento di grazia divina per mezzo della preghiera e dei sacramenti: e di qui una nuova “esondazione” della regalità individuale fino a impregnare l’intera sfera temporale.

Si conclude l’anno liturgico e grazie a Dio se ne apre un altro: presto sarà Avvento e presto la memoria della nascita del Re. Una nascita povera e splendente: di nuovo tornano le due dimensioni dell’umanità divina del Signore, che si ripresenteranno più oltre nella Croce quaresimale e nella Risurrezione pasquale.

Il cartellone dice in inglese:
"Meglio un figlio solo"

Il newsmagazine femminile del Corriere della Sera ha pubblicato ieri un impressionante servizio della giornalista Manuela Parrino, già autrice di importanti inchieste sulla Cina odierna — e basato per la maggior parte su un’intervista con la signora Cui Fung Mei, “pianificatrice familiare” per vent’anni, ora “a riposo” — sul divieto del secondo figlio, ovvero sull’aborto coatto, vigente nella Repubblica Popolare Cinese.

Non è una novità che il totalitarismo comunista cinese, eclissatosi da tempo dietro le quinte di una rutilante potenza economica in continua espansione, attuasse da anni — almeno dal 1979 — una rigorosa riduzione delle nascite, considerando la popolazione troppo numerosa e prolifica. Né, che la Cina, come tutti i regimi socialisti, fosse all’avanguardia nella pratica e nella diffusione della sterilizzazione forzata — magari per le tibetane o altre minoranze "indesiderate" —, della contraccezione artificiale e dell’aborto senza limiti. Che si tratti di malthusianesimo ideologico o forse, solo la volontà di non finire come l’Urss, nella impossibilità di un sistema fallimentare come il socialismo, radicalmente “handicappato” rispetto al capitalismo, di alimentare troppe bocche, il fatto resta.


Dove sta allora la novità?


La prima è che nella “nuova Cina” “liberale” questo controllo delle nascite è oggi ancora capillarmente e ferramente in atto.


Ma sentiamo che cosa dice la “pianificatrice”.


In Cina la donna — nella fattispecie la lavoratrice di fabbrica — che «ha già avuto un figlio, ogni tre mesi deve presentarsi nel mio ufficio per fare un test di gravidanza e per prendere la pillola o i preservativi che distribuiamo gratuitamente». E se risulta incinta? «La devo convincere ad abortire». E come la convince, chiede la giornalista? «A parole, spiegando che se avrà due figli dovrà dividere il poco cibo che ha in due, che è contro la legge». E se insiste nel voler continuare la gravidanza? «Non si può rifiutare, è la legge, ma la verità e che se la donna insiste oggi non posso fare nulla. Da quando la Cina è entrata nel Wto [la World Trade Organization, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, nel 2002], si parla molto di diritti umani. Una volta l’avrei trascinata con la forza in ospedale ad abortire, oggi non posso farlo». Quindi, «ogni giorno mi presento alla sua porta e cerco di convincerla sino al sesto mese di gravidanza, poi non posso fare più nulla perché sempre dopo il Wto è stato vietato l’aborto dopo i sei mesi».
Ringraziamo il provvidenziale Wto, che ha modificato il quadro in cui era possibile trascinare persone di sesso femminile presso il primo ospedale e metterle sotto i ferri chirurgici — la prassi abortiva non è specificata — anche oltre i sei mesi di gravidanza.


Ma il quadro che le parole della signora Cui rivela rimane agghiacciante.
Le novità che lascia intravedere non sono poche e rappresentano altrettanti amari spunti di riflessione.


Dopo i forti cambiamenti infra-strutturali che il regime ha attuato negli ultimi lustri, che lo hanno portato a riconoscere anche come lecite forme di proprietà non statale, — e la straordinaria crescita economica del paese, le condizioni di vita della popolazione — almeno nelle città —, sono mutate e un benessere materiale sconosciuto ai tempi di Mao, anche a prezzo di forti squilibri e ingiustizie, si è di fatto diffuso. Dunque, che bisogno ha questa società dall’economia rampante, alla conquista dei mercati — e non solo dei mercati — di mezzo mondo, di limitare così drasticamente le nascite? Con tassi di produzione così elevati non si riesce ad alimentare a sufficienza tutti i cinesi attuali e futuri? O le statistiche, come non pare, sono un bluff?

I troppi obblighi, della gestante e della vigilante, che traspaiono dal breve colloquio con Cui, segnalano altresì che in Cina la libertà è ancora un’utopia. Che dire infatti di quel divieto legale di mangiare in due? Ci si può chiedere: quali leggi vigono oggi in Cina? dov’è quel diritto romano che vi si vorrebbe introdurre? Pare lo si voglia solo per agevolare la contrattazione con l’Occidente, ma non per quanto concerne i diritti civili.

Altro elemento sinistro: quel “dopo il Wto…”. È dunque questo l’unico criterio e limite che le decisioni dei vertici comunisti cinesi conoscono? La paura di perdere mercati? E se questa paura cade, che cosa imporranno per legge? L’assenza di vere norme etiche, che questo inciso rivela, illumina sulle vere prospettive di chi governa in Cina.
Ma indica anche implicitamente agli occidentali — a Prodi, a Chirac, a tutti gli altri “cino-entusiasti” — quale sia la leva da usare per limitare le violazioni dei diritti umani… e conferma che il discorso sui dazi etici è tutt’altro che utopistico…

L’intervista continua.

Se la persuasione fallisce — e statisticamente fallisce così di rado da far credere che più che persuasione si tratti di pressioni e minacce —, la donna non è comunque libera di mettere al mondo la sua creatura: se lo fa contro la volontà del Partito e dello Stato, sono letteralmente guai.
Infatti il bambino non abortito «non viene registrato, il che significa che non potrà andare a scuola, non godrà dell’assistenza sanitaria eccetera», diventerà cioè un cittadino di serie B e il suo mantenimento sarà totalmente a carico della famiglia. Il che, visti i salari urbani e i miseri redditi rurali, appare un onere insostenibile…
Sembra che la Cina applichi — che non sia un caso? — il cosiddetto “principio di responsabilità” di cui si è fatto latore l’animalista Peter Singer: «vuoi far nascere un handicappato o mantenere in vita un comatoso, puoi farlo, ma sono affari tuoi: lo Stato non se ne occuperà»….

Tuttavia nella “nuova Cina” il denaro circola. E il denaro può molto, forse tutto… Per i ricchi infatti, secondo la signora Cui, «avere il secondo figlio non è un problema, basta pagare una multa. Per qualcuno avere il secondo figlio è diventato uno status symbol. Dopo la nascita i genitori, quando vanno a registrare il bambino, vengono mandati da un giudice il quale stabilirà l’entità della sanzione che va da tre a dieci volte il reddito medio del quartiere in cui vivono». «Chi è povero spesso i secondi figli li nasconde», ammette la signora Cui.

E che cosa accade alla donna cinese se invece accetta di abortire? «Dopo aver abortito una volta una donna non prova più ad avere un secondo figlio». E avendo visto gli ospedali cinesi, quelli per la gente comune — «sporchi, rumorosi, affollati e niente affatto accoglienti» —, non quelli per i turisti o per la nomenklatura di regime, la cosa pare proprio terrificante, commenta la giornalista del Corriere.

Nelle campagne la regola del figlio unico è stata mitigata nel 2002, ma solo nel caso che il primogenito sia una femmina, cosa che nelle campagne cinesi, afflitte da una povertà spaventosa e antica, è da sempre vista come una calamità, un’eventualità da scongiurare e che spesso ha portato e porta all’aborto e all’infanticidio.

Naturalmente, in questa logica radicalmente e drammaticamente secolarizzata, resta costantemente fuori dall’ipotesi la sorte dell’eventuale terzo figlio, per non dire di quelli ulteriori…

[Cfr. MANUELA PERRINO, “Così vieto alle donne il secondo figlio”, in io donna. Il femminile del Corriere della Sera, n. 44, 11-11-2006, pp. 140-146].







Povero Guccini…

Lo ascolto almeno dal 1966 e confesso che i suoi magnifici testi — al di là della condivisione dei contenuti, ormai in gran parte svanita —, soprattutto all’epoca della collaborazione con i “Nomadi” hanno avuto un notevole influsso sulla mia Bildung… Vertici come "Canzone per un’amica", "Dio è morto" e "Il disgelo" credo siano difficilmente raggiungibili…

Con le sue canzoni voleva prima cambiare il mondo e poi contestarlo (rivoluzionari di professione compresi) in nome di un mix anarco-individualistico e retrò… emblema dei due ingredienti: “L’avvelenata” e l’album “Radici”…

Passi per la laurea honoris causa del 2002: i testi di Francesco sono il più delle volte bellissime poesie, che pochi laureati si sognerebbero nemmeno lontanamente di saper scrivere…

Ma che ora il giullare e provocatore Guccini si metta a frequentare davvero i parrucconi accademici e — lo racconta il Corriere di oggi — in uno dei convegni dell’Università di Bologna, incontrando Romano Prodi, lo abbracci e gli sussurri — immagino la sua voce roca e intrisa di Emilia — un banale e conformistico “resistere, resistere, resistere” — provocando la consueta risata sgangherata del premier — proprio no...


Non riesco a capire come una sensibilità e una visione della vita così libertaria, fatta di osterie e di invettive alla Cecco Angiolieri, possano sposarsi o solo trovare qualche barlume di rispondenza nel tetro regime di “normalizzazione”, in quell’autentica ingabbiatura a fine dichiarato di “tutoria” dell’incapace e anarchico — se non “pazzo” — cittadino italiano, che il Professore e i suoi soci governativi di estrema sinistra stanno costruendo intorno al corpo sociale in Italia?

Certo l’età in genere non è buona consigliera… Ma, anche se Guccini ha ormai sessantasei anni, proprio non me l’aspettavo…



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