lunedì 25 marzo 2013





BREVI CONSIDERAZIONI 
SUL POSTCOMUNISMO




   L’onorevole Silvio Berlusconi, quando vuole effettuare un affondo contro il Partito Democratico e, nel contempo, suscitare l’entusiasmo dei suoi fedeli, sfodera senza timore la parola “comunisti”. Bersani e i suoi, cattolici democratici compresi, non sarebbero altro per lui che la continuazione, sotto mentite spoglie, del vecchio partito comunista, che, con i suoi errori e le sue colpe, con la sua mentalità settaria e la pratica abituale del mendacio, era un tempo l’arcinemico delle destre. È un illuso, Berlusconi, o uno scaltro manipolatore di coscienze che propala a sua volta menzogne per attizzare un odio anticomunista da “guardie bianche” oppure uno che, in qualche misura e forse solo “a naso”, “ci azzecca”?
Forse, le prime due cose, almeno in parte, sono vere. Però, nella sua argomentazione così tranchant e apparentemente rozza credo vi sia un fondo di verità.
Al di là della filiazione storica oggettiva da Partito Comunista Italiano a Partito Democratico della Sinistra, da Democratici di Sinistra a Partito Democratico — che il Cavaliere cita spesso —, in questa catena di cambiamenti d’identità qualcosa è rimasto, un substrato esiste ancora di quello che era il vecchio modo di pensare e di agire dei comunisti “storici”, qualcosa che sopravvive al di là del ricambio di personale politico, dei programmi, dei riferimenti ideologici e partitici. Esiste cioè un fil rouge che lega i comunisti di Berlinguer — prendendolo come esempio — e i “democratici” di Bersani.
La difficoltà nel rinvenire questo filo rosso fra postcomunisti e comunisti non dipende solo, a mio avviso, dall’abilità con la quale i membri del partito postcomunista si travestono — le differenze non sono poche — da social-democra­ti­ci europei, ma da un grosso equivoco culturale dal quale solo pochi studiosi del comunismo — e poco noti, al di fuori di determinati ambienti del mondo cattolico: li cito più sotto — hanno messo in guardia.
E l’equivoco consiste nel credere che comunismo e socialismo sia due realtà coincidenti, credere cioè che il collet­tivismo sociale, la società livellata in senso egualitario, la proprietà dei beni allo Stato, il socialismo “reale”  sia la sostanza, l’essenza del comunismo. Ossia credere che nel marxismo professato dai comunisti a suo tempo il mate­rialismo dialettico e il materialismo storico, che sfocia nella società senza classi, siano due aspetti inscindibili. Eliminato, perché crollato e impresentabile, il socialismo reale dagli obiettivi degli eredi del comunismo, quindi, non avrebbe più senso parlare di comunismo.
In realtà non è così. E non nel senso dei progressisti non marxisti, specialmente cattolici, che negli anni della grande fascinazione marxista, gli anni 1970, sostenevano — e forse ancora sostengono —, in Europa e in America Latina, di fare a meno della dialettica e di avvalersi della sola concezione materialistica della storia come mero strumento di analisi dei “conflitti di classe”. Bensì in senso esattamente opposto: cioè che l’“essenza” — uso le virgolette proprio perché il marxismo nega che le cose abbiano una essenza fissa — autentica del marxismo dei comunisti è proprio la concezione dialettico-materialistica della realtà, mentre la lettura della storia come lotta di classe ne è una categoria derivata ma non più — per usare una categoria anch’essa marxista — di una sovrastruttura, un elemento in fin dei conti acciden­ta­le e, in tesi, caduco.
E qual è l’“essenza” della dialettica marxista? Come noto, la dialettica è il movimento ininterrotto in cui qualunque concetto che si pone viene di continuo superato dal suo opposto e da tale superamento nasce un altro concetto che nuovamente si pone e che sarà a sua volta superato. Nell’accezione marxista tutta la realtà non è altro che materia in perpetua evoluzione secondo il ritmo triadico tesi-antitesi-sintesi: ogni epifenomeno della quale — ogni bolla che si forma dal ribollire perpetuo del metaforico pentolone — esiste nella misura in cui forze oscure ne promuovono la nascita momentanea, ma subito dopo la riassorbono.
L’accento va posto proprio su questo termine “superamento”, concetto espresso meglio dal tedesco  o Auf­hebung, cioè superamento verso l’alto (auf), verso l’ulteriore: la logica marxista non concepisce nulla di stabile, di definito, di perpetuo. Tutto è divenire e perenne mutamento verso stadi “superiori”. «La tesi della razionalità di tutto il reale si risolve quindi secondo tutte le regole del ragionamento hegeliano nell’altra: tutto ciò che esiste è degno di perire», scrive Friedrich Engels (1820-1895)[1]. E secondo il Manifesto comunista del 1848, «vengono quindi travolti tutti i rapporti consolidati, arrugginiti, con il loro codazzo di rappresentazioni e opinioni da tempo in onore. E tutti i nuovi rapporti invecchiano prima di potersi strutturare. Tutto ciò che è istituito, tutto ciò che sta in piedi evapora, tutto ciò che è sacro viene sconsacrato, e gli uomini sono finalmente costretti a considerare con sobrietà il loro posto nella vita, i loro rapporti reciproci»[2]. E tutto ciò che fa da ostacolo, tutto ciò che è antitesi, ogni realtà che non si presta a divenire sintesi, a questa dialettica incessante va abbattuto, va dissolto.
«Convenzioni, tradizioni sociali, fedeltà provinciali, patrie, nazioni, proprietà: in una parola tutto ciò che fissa, tutto ciò che radica, tutto ciò che è durevole o favorisce la stabilità»[3] deve sparire, scrive . Lo sforzo dialettico di progresso ha come fine di emancipare sistematicamente l’uomo dalle sue “alienazioni”. E questo vale sul terre­no prediletto da Marx, quello economico-industriale, ma anche e specialmente sul piano delle credenze, della religione, delle “sovrastrutture”, meno inclini al cambiamento. «Per realizzare un ideale di azione pura, occorre […] uno stato di disponibilità pura, una condizione di sradicamento totale. E perché il proletariato operaio è essenzialmente una classe di “senza radici”, esso è per eccellenza la classe rivoluzionaria»[4].
«Per sviluppare una volontà rivoluzionaria totale, che non voglia conservare niente, che non mantenga niente di conservatore, che voglia trasformare tutto, creare una società completamente nuova, ci volevano uomini che non avessero rigorosamente niente, che fossero strettamente spogli di tutto» (Jean Daujat (1906-1998), Conoscere il comunismo, trad. it., il Falco, Milano 1979, p. 19).
È dunque pensabile un marxismo “senza Marx”, un marxismo dove dell’articolata dottrina del filosofo di Treviri rimane solo il nucleo centrale: la concezione dialettico-materialistica del reale. Il comunismo o i comunisti — come più spesso, con estrema concretezza, per evitare la subdola domanda dialettica “sei anticomunista? sì, ma contro quale comunismo sei?”, li chiama la dottrina cattolica —, per quanto numerosi, sono infatti una «[…] setta. Non dovete pensare — scrive acutamente nel 1961, quando s’inaugura la “distensione” fra Usa e Urss e la scena è dominata da John Kennedy e dal “Papa buono”, un vescovo tradizionalista brasiliano, postosi poi in rotta con Roma —, infatti, che il comunismo sia solo  un partito  politico. Lo è, certamente, e le sue reti avvolgono in molti paesi migliaia e perfino milioni di uomini e donne organizzati politicamente, e che servono da nucleo intorno al quale gravitano altre migliaia di simpatizzanti e di collaboratori. Ma il comunismo è più di questo; è una setta filosofica, che tende alla conquista di tutto il mondo al suo modo di pensare, di volere e di essere. Per giungere a questa conquista i comunisti si organizzano in partito, ma l’irreggimentazione partitica è solo un mezzo, uno strumento per raggiungere la meta universale. Ciò che anima l’azione della setta marxista e le dà energia interna, chiarezza di fini, coesione e coerenza è la sua ideologia»[5]. Il comunismo non è, dunque, un movimento per la giustizia sociale, per la pace, per le “pari opportunità”, per l’uguaglianza dei popoli, come si dipingeva nella sua propaganda. Si tratta invece di un gruppo di uomini, che professano dottrine di sapore gnostico e che adorano “il divenire per il divenire” e intendono “liberare” l’uomo da tutto ciò di naturale e di fermo, stabile, duraturo che ne caratterizza la natura e l’esistenza e che impedisce l’annegamento dell’individuo nel tutto, il singolo uomo in una umanità indeterminata.
Ciò posto, possiamo dire che il movimento comunista “storico”, cioè il socialismo marxista di stampo sovietico — che prende nome dalle assemblee operaie o soviet del periodo precedente al 1917—, come tale, non c’è più: forse solo a Cuba il modello collettivistico a fatica resiste. In altri Paesi tuttora ufficialmente comunisti la visione dialettico-marxista del gruppo dirigente non si coniuga più con il “socialismo reale”, ma con una qualche economia di mercato controllata, con una sorta di capitalismo dirigista e illiberale di cui il Partito, attraverso lo Stato, è il motore e il regista. L’esempio più clamoroso in tema è quello della Repubblica Popolare Cinese, dove il marxismo-leninismo rimane l’ideologia del gruppo al potere, ma l’intera politica economica obbedisce a leggi diverse. L’ideologia di partito ha abbandonato la sfera economica e si è concentrata su quella politica, ancorché con discrezione, almeno agli occhi esterni. Nei Paesi dove vigono istituzioni libere il comunismo come tale si è eclissato, non esiste più o rimane patrimonio di minoranze contestative marginali. Anche in questo caso la saldatura fra visione dialettica della realtà e socialismo “reale” è caduta.
Ma possiamo dire che la dialettica sia sparita? No: la dialettica persiste non più come dottrina ma come forma mentis ereditaria.
Se osserviamo quel poco di dottrinale che si può rinvenire nei programmi e nella linea politica delle forze politiche postcomuniste si vede nitidamente come il vecchio tour d’esprit relativistico non è morto, ma solo la sua estrin­se­ca­zio­ne ha subìto — in perfetta coerenza con la “natura” contraddittoria della dottrina del divenire attraverso il superamento di conflitti e contraddizioni — una metamorfosi. Al proletariato e, più in generale, a una dottrina precisa e alternativa dell’economia e della società, si è infatti sostituito qualcosa di diverso, di meno tangibile, un soggetto, o un insieme di soggetti, nuovo, che oggi incarna la contraddizione, la sfida all’ordine vigente, all’essere presente, e che diviene la leva per attuare il progetto di sradicamento totale.
Non che non importi più loro delle classi umili o delle sparute tute blu restanti: in questa prospettiva, però, l’autentico soggetto “debole” e, in tesi, rivoluzionario del terzo millennio cristiano, non sono più gli operai e neanche le donne, come ai tempi della prima stagione dei diritti civili. Operai e donne sono vecchie “antitesi”, da usare all’occorrenza. Oggi l’ostacolo allo “sradica­men­to totale” non è più visto, come fino a qualche decennio fa, nelle discriminazioni legali della donna, del figlio illegittimo, del coniuge del matrimonio fallito, della donna incinta che non vuole divenire madre.
Oggi il polo dialettico negativo da porre e da superare per progredire è la persistenza — nelle leggi e nel costume — di differenze del tutto radicali e per i cristiani da difendere, in quanto “non negoziabili”. Del confine fra la vita e la morte, fra sesso maschile e sesso femminile, fra umano e subumano o inumano, fra la realtà oggettiva e la sua “costruzione” soggettiva.
Qui, su questo fronte poco visibile, su questo discrimine sottile, intorno a queste materie dove occorre una preparazione non ordinaria, si combatte ai nostri giorni la battaglia.
Il nemico di un postcomunismo, contenitore vuoto di una dottrina positiva, non è il borghese liberal, che su questi punti non fa opposizione o di essi non fa una questione di principio. E neppure il cattolico progressista o distratto. Nemico mortale diventa invece chi al drammatico passaggio di questo estremo limen si oppone: chi difende la vita innocente, al suo inizio e al suo termine, contro la morte; chi sottolinea che la diversità e la complementarità sessuale è in re, nel bios; chi pensa che fra uomo e bestia o vegetale esista una differenza di essenza, di sostanza, di ordine e di qualità — tutti termini “ahimè” tomistici, ma quanto appropriati! —; che il reale non è una costruzione arbitraria del singolo: la ragione non può
Per inciso l’odio profondo per gli uomini di centrodestra di ieri e di oggi non è tanto o solo la figura esecrata del Cavaliere di Arcore, ma la consapevolezza che nel centrodestra, fra una maggioranza che su questi punti non ha idee o forse è anche a favore, vi sono dei grumi, dei noccioli incomprimibili, dei residui che possono — non è detto che debbano — tradursi in altrettanti sassolini che s’incastrino negl’ingranaggi e blocchino la “gioiosa macchina” che porta al “grande sradicamento”.
È questo, più che legami programmatici o storici, che apparenta il vecchio sogno di dissoluzione totale che si ritrova nell’ideologia marxista “profonda” al disperato “negativismo” e all’esasperata battaglia per “diritti civili” dei postcomunisti e li fa trovare — loro e i loro sindacati: non dimentico che la Cgil ha presentato un ricorso a Bruxelles contro il troppo elevato numero di medici obiettori di coscienza contro le pratiche abortive — sempre in prima fila in tutte le battaglie contro la vita innocente, la libertà di educazione e la famiglia naturale.
Ecco questo, credo, è quanto rimane del comunismo nel postcomunismo: non elementi di dottrina formali,  ma una mentalità diffusa, impalpabile ma dura come il diamante. Per questo si può affermare con legittimità che l’antica “setta”, come la chiama il vescovo di cui sopra, non è morta: qui ha rottamato le cose ormai impresentabili, là ha sostituito il soggetto sul quale “lavorare” con un altro: ma il giro mentale, la logica basata della dialettica “amico-nemico”, dove tutto ciò che vuole conservare qualcosa, anche di minimo, che dia origine a una qualunque differenza, ancorché benefica, diventa il Nemico da odiare e da abbattere, è rimasta identica.
Forse, gli attuali postcomunisti nemmeno se ne accorgono, è per loro un riflesso condizionato, un pre-giudizio, qualcosa che viene prima del giudizio di ragione, ma è così…
E credo che finché questa impronta ideologica non scomparirà, quando questa radice antica non sarà tagliata, quando queste forze non cambieranno davvero identità, pur nelle diversità di accenti, sarà impossibile costruire nella nostra Italia qualcosa di politico e di civile adeguato al nuovo tempo e destinato a durare.
Quanto quello che ho detto sia vero lo vedo confermato dal passato recente, ma ancor più lo vedremo tutti confermato se e qualora il Partito Democratico governerà: se così andrà — e non me lo auguro — le prime cose che faranno Bersani e i suoi non sarà di rimboccarsi le maniche per cercare di raddrizzare la barca di un Paese che sta affondando. Esattamente come hanno fatto e fanno nelle amministrazioni locali conquistate, a Roma la loro prima preoccupazione — dopo aver fatto leggi ad personam per mettere definitivamente fuori gioco Silvio Berlusconi — sarà di buttarsi sui presunti diritti civili e mettere atto la trita agenda fatta di leggi sui “desideri” che “finalmente” ci equiparerà ai Paesi “più avanzati”: matrimoni omoses­suali, adozione gay, eutanasia, manipolazione degli embrioni, e tutto quanto segue… Hanno ben poco di altro “da vendere” e in queste materie il rischio di fallire politicamente non è, in fin dei conti, alto come nelle altre...





[1] Friedrich Engels, Ludovico Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, in K. Marx e Idem, Opere complete, a cura di Luciano Gruppi, Editori Riuniti, Roma 1971, p. 1.106).

[2] Karl Marx e F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, 1848, trad. it. di Lucio Caracciolo, Silvio Berlusconi Editore-liberilibri, Milano-Macerata 1998, in formato Pdf alla pagina , consultata il 24-3-2013, p. 14.

[3] Jean Ousset (1914-1994), Marxisme et Révolution, Club du Livre Civique, Parigi 1973, p. 80. 

[4]  Ibid., p. 81.


[5] Mons. Antonio de Castro Mayer (1904-1991), Le insidie della setta comunista, in Cristianità, anno II, n. 6, luglio-agosto 1974, pp. 1-12 (p. 5).

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