domenica 21 novembre 2010

Visione monoculare


21-11-2010

    Avvenire, il quotidiano dei vescovi italiani, si è soffermato a lungo — mentre scrivo l’attenzione al problema è ancora viva — sulla puntata di Vieni via con noi, in cui il conduttore Fabio Fazio ha dato ampio spazio a due notori “dottor morte” come Beppino Englaro e Mina Welby, autori di due clamorose operazioni para-eutanasiche, per far loro propagandare il testamento biologico, la cui introduzione e regolamentazione è in discussione in parlamento, e, in ultima analisi, l’eutanasia degli handicappati gravi.
    Avvenire ha fatto benissimo e il suo impegno solitario — con articoli, interviste, testimonianze, lettere al direttore, pubblicati per più e più giorni — per ristabilire la verità e per difendere la legittimità, anzi, la doverosità, di scelte diametralmente opposte a quelle di Englaro e del Tribunale di Milano, è del tutto encomiabile.
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    C’è però qualcosa che non quadra….
    Infatti, nella medesima occasione, la trasmissione realizzata e irradiata dalla TV di Stato in ora di massimo ascolto ha fornito scampoli di faziosità politica senza uguali, sfiorando la calunnia e la diffamazione — sostenendo l’esistenza di presunti legami fra mafia e partito del Nord — nei confronti di uno dei partiti di governo, per di più in totale assenza di contraddittorio, in una logica di forsennata filippica o di greve omiletica postcomunista.
    Ebbene, su questo Avvenire, se non ha taciuto, ha reagito invece flebilmente. Mercoledì 17 novembre, infatti, ha riportato — per la verità con relativo risalto di titoli e di spazio — le vibranti reazioni del ministro dell’Interno Roberto Maroni, particolarmente offeso dalle farneticazioni dell’omonimo scrittore Saviano, non solo in quanto dirigente e parlamentare leghista, ma anche perché principale responsabile dei recenti successi nella lotta dello Stato italiano contro tutte le mafie. Purtroppo, però, il giornale dei cattolici ha annegato le forti critiche del ministro nelle esternazioni a ruota libera di esponenti politici di ogni colore, fra le quali spicca per esemplare malizia e uso disinvolto delle parole quella dell’ex segretario del Partito Democratico Walter Veltroni — secondo cui “la reazione di Maroni è assurda e grave, colpisce una voce libera costretta a vivere sotto scorta” —, seguita a ruota da quella del deputato Fabio Granata, che si è espresso, con una finezza del tutto tipica dello stile della destra — quella destra di cui il partito di Fini vorrebbe rappresentare l’incarnazione —, affermando: “Giù le mani da Saviano”.
    Poi il quotidiano cattolico si è concentrato esclusivamente sul problema degli handicappati ai quali non è data voce. E questo pare un po’ meno encomiabile, per diverse ragioni.
    Quanto avvenuto è infatti un palese e clamoroso abuso di potere di fatto perpetrato da corsari dell’informazione politica — di cui Fazio è forse l’esponente più untuosamente odioso, ma non certo l’unico —, ben protetti dalla loro infeudazione ideologica di sinistra e dalla scellerata logica della lottizzazione del pubblico servizio — avviata dai governi democristiani —, attraverso strumenti che appartengono alla collettività. Tanto la propaganda filo-eutanasica, quanto l’attacco calunnioso a un partito che forse non sarà formato da cattolici "doc", ma proprio sui valori non negoziabili sta tenendo un comportamento esemplare, andavano entrambi giustamente e fortemente condannati.
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    Ciò detto, due altre osservazioni s’impongono.
    La prima è che se i principi non negoziabili per i cattolici sono sì vita, famiglia e scuola, questi principi — lo si dimentica, ahimè troppo spesso — non sono i soli su cui un cristiano non è autorizzato a transigere. Vi è anche la giustizia e l’abuso di potere, che, in chiave vittimistica, è stato, in questa come in tante altre occasioni, esercitato in maniera clamorosa da vecchi e arroganti arnesi dell’intellettualismo postcomunista, blindati dietro i contratti di lavoro del pubblico impiego e una audience che li rende ricchi e intoccabili, ne è una violazione palese e grave.
    L’altra, francamente, è che voler essere al di sopra della politica, come doveroso nel caso dei vescovi, non vuol dire imporre il neutralismo asettico, che giudica senza sporcarsi le mani o va al mulino e pretende di non infarinarsi, anche ai fedeli e agli operatori culturali cristiani.
    Capisco che la linea della Cei si ponga oggi particolarmente su questa falsariga, ma non si può spingere questa scelta bipartisan fino a omettere la difesa diritti concreti, soprattutto quando sono violati a danno di forze oggi concretamente, senza "bollini blu" o "deleghe in bianco", alleate della Chiesa nella difesa della presenza di alcuni degli ultimi e più liminali valori naturali e cristiani nella sfera pubblica.
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    E mi permetto di aggiungere sommessamente una terza considerazione. Il Presidente del Consiglio viene quotidianamente, senza sosta e senza freni, dipinto come un pazzoide puttaniere e pedofilo dal coro dei mass media pubblici e particolarmente di quella trasmissione in cui sono stati offesi i portatori di handicap è ininterrottamente lo zimbello. Ebbene, pur con tutte critiche che il premier merita per la sua disinvolta vita privata — ma non è certo la prima e l’unica persona che governa con un privato discutibile e Silvio Berlusconi non si erige mai a teorema o a modello —, qualcosa di buono in prospettiva cattolica, lui e i suoi ministri, ha fatto o ha lasciato fare.
    Se ogni tanto qualche voce si levasse anche dalle parti di Avvenire per difenderlo dal massacro politico della sua onorabilità di uomo e di seconda carica dello Stato italiano, che viene condotto con impudenza e con il denaro del contribuente e di chi paga il canone televisivo, farebbe senz’altro piacere, quanto meno per non confermare l’accusa ai cattolici di difettare di senso dello Stato.

mercoledì 10 novembre 2010

La falsa alternativa

L’agenda politica dell’on. Gianfranco Fini si fa di giorno in giorno più chiara. Ed è senz’altro un fatto positivo perché consente di prendere meglio le decisioni che al centrodestra s’impongono.

    Nella prima convention di Futuro e Libertà, tenutasi a Perugia domenica 7 novembre, è stato reso noto il manifesto programmatico della nuova forza politica promossa da Fini. Nella medesima occasione il medesimo ha tenuto un discorso programmatico, che avrebbe dovuto completare quello di qualche settimana fa a Mirabello in provincia di Ferrara.
    Da quanto avvenuto a Perugia è ora palese che: 1) è nato un nuovo partito; 2) si vuole aprire, anzi s’invita il presidente del Consiglio a farlo, una crisi di governo, davanti alla quale FLI è disposta a ritirare i suoi ministri dal governo; 3) si vuole sostituire Berlusconi e il PDL come leader e contenitore politico delle istanze di destra e moderate.
    Operativamente — mi sia consentito partire dal “fare” e vedere il “che cosa” come secondo punto — vi sono alcuni rilievi da fare in sede valutativa del modus agendi dell’ex delfino di Giorgio Almirante.
   In primis la insistita “doppiezza” del personaggio, che ha dato corpo al suo disegno di uscire in maniera organizzata dal PDL già da mesi, quanto meno dallo “strappo” dell’aprile 2010, rivelandolo però a piccole dosi e a strappi, lasciando intendere e smentendo, facendo dichiarazioni unitarie e colpendo alle spalle, a seconda dei casi: per definire questa tattica neiconfronti del premier i cronisti hanno un termine a mio avviso un po’ brutale ma efficace: “rosolamento”.
    Una tattica ai limiti della slealtà e degna di miglior causa e di avversario autentico più che di compagno di strada, cui, fra l’altro, si devono in toto le proprie fortune politiche, personali e non. Pare poi quanto meno singolare — lo hanno rilevato in diversi — l’appello a Silvio Berlusconi affinché sia lui ad aprire la crisi senza neppur attendere un voto contrario in parlamento: è davvero sconcertante che il presidente della Camera bassa sia il latore di un messaggio del genere. Forse il dovere di andarsene da una posizione istituzionale così alta mentre si scende in campo e si fa politica aggressiva e lesiva incomberebbe a Fini, non al presidente del Consiglio…
    Infine, la pretesa di considerare chiusa una esperienza e l’autocandidatura alla leadership del mondo di destra e “moderato”: non pare certo un obiettivo illecito, ma non lo si persegue a danno dell’obiettivo concreto di governare, pur nei limiti in cui questo oggi è possibile, il Paese. Si aspetta la conclusione della legislatura e ci si candida a guidare, se se ne hanno i numeri, lo schieramento elettorale, non fa abortire una esperienza in atto, con davanti tre anni di vita relativamente garantita dall’assenza di consultazioni elettorali di rilievo. Oltre che scorretto, è stupido e lesivo degl’interessi dei propri elettori e, in ultima analisi, anche di se stessi.
    Quest’ultimo punto “apre” verso una sommaria analisi dei contenuti riemersi — è il caso di dirlo, in quanto nihil sub sole novi — a Perugia. Con quale faccia Fini chiede agl’italiani di destra e “moderati” — ma dove sono alla fine questi moderati? a me sembra d’incontrare sempre più spesso, a destra come a sinistra, delle persone che, quando non sono sfiduciate e inerti, sono assai arrabbiate con la politica — di gettare alle ortiche l’unica “macchina da guerra” che abbia "spezzato le reni" alla sinistra? Non si accorge che in maniera sospetta “incontra” a sinistra, dagl’intellettuali firmaioli ai Tg di governo? Perché è diventato il beniamino di Bersani e l’idolo di una sinistra “sull’orlo della crisi”, lui, il fascista, il portaborse del “fucilatore” Almirante? Ci fosse un programma, un’alternativa politica seria sui problemi concreti, forse avrebbe un senso parlarne. Ma davanti alla carrellata di piatti freddi e indigesti che Fini vorrebbe far trangugiare agl’italiani di destra come alta cucina davvero cadono le braccia.
    Fini solleva problemi — non tutti, per verità: per esempio la sua cecità sullo squilibrio dei poteri, leggi magistratura ideologizzata a sinistra, è eloquente — talvolta reali.
    Ricordo che persino nel discorso dell’aprile 2010 — quello che segue il famoso “che fai? mi cacci?” — vi erano spunti condivisibili, tentativi di spostare il discorso verso l’immigrazione e le altre sfide che attendono il Paese. Un apprezzabile tentativo di volare alto che ora però “picchia” e si schianta e si appiattisce nel modo più becero pensabile sulle posizioni dell’avversario. Le tesi che dovrebbero ispirare infatti la nuova destra moderata ed europea assomigliano a turgori di nulla, a "sfiati" tanto pestiferi quanto materialmente inconsistenti. All’unica asserzione condivisibile cioè che l’Italia, “la gens italiana esiste da almeno duemila anni” segue purtroppo una caterva di propositi sbagliati oppure la cui attuazione hic et nunc, con questa situazione di potere reale — ovvero che tenga conto di tutti i numerosi poteri che albergano al cuore di quella mostruosità che è lo Stato moderno del terzo millennio — non certo favorevole al centrodestra, non sul pianeta Papalla, non viene neppure indirizzata.
    Una nozione di legalità rimandata a una riforma dell’individuo che richiederebbe decenni, se non secoli, e strumenti coattivi di una gravità neppure immaginabile, cui si accompagna una sprezzante valutazione del cosiddetto pacchetto sicurezza che pure ha dato i suoi buoni frutti e ottimi ne darebbe se non se ostacolasse per mille vie l’attuazione concreta; una nozione di persona del tutto astratta dalla sua essenza e dalla normatività che ne deriva — con l’attacco anche qui ingeneroso che riduce a propaganda xenofoba tutto il bene che è stato fatto nei confronti degli ospiti e che cozza frontalmente contro quell’appello al rilancio dell’identità nazionale che caratterizza il discorso finiano; una visione del lavoro come fattore di civiltà che puzza alla lontana di neomussolinismo; un richiamo del ruolo centrale della famiglia — “cellula primaria della società” — che si schianta contro la promozione dei diritti degli omosessuali e l’equiparazione della famiglia di fatto a quella matrimoniale — è uno standard europeo, perbacco! anche se non è del tutto vero… —, nonché contro il richiamo specioso al Santo Padre, di cui si ricordano, per associarle a una sua intemerata sull’“afasia morale” del centrodestra e sulla moralità individuale — della quale non pare, francamente, uno dei migliori campioni neppure il presidente Fini — solo le parole sulla spazzatura morale e non quelle contro il divorzio, l’aborto e le unioni omosessuali, temi tutti per Fini su cui una “destra moderna” evidentemente non deve dare battaglia.
    E via a ruota libera, fra sparate intinte in un gerghetto neoidealista alla Almirante — se non peggio — e traboccanti di ovvietà, ergo vacuità, varie — quante volte ricorre l’aggettivo “nuovo”? sembra di rileggere la prosa della defunta Rinascita… — del tipo: “riscatto sociale”, “economia al servizio del popolo” (ma ce lo vedete Fini che lotta contro i poteri “forti”?); “sintesi fra capitale e lavoro”; “uno spirito diverso”; non siamo contro il PDL né contro Berlusconi: siamo “oltre”: occorre un nuovo “patto sociale” — ma ha visto la faccia della nuova segretaria della CGIL?; una nuova “agenda politica” — ma sa di usare un inglesismo?; un “nuovo programma di governo”; una “nuova fase”
    Pare, come ho già rilevato, che il soldato Fini vada alla guerra armato di mazzi di fiori, oppure s’identifichi con il naturalista che va in giro armato di reticella acchiappafarfalle e di lente d’ingrandimento per osservare i vari fenomeni di un mondo pacifico e operoso e dove basta chiedere e la realtà si conforma immediatamente all’ideale. Gli sfugge — ma poi non è vero, e in questo sta la malizia delle critiche finiane — che è in corso una battaglia — mi viene spontaneo, per caricare i toni, di aggiungere a “battaglia” “nella notte”, come ha fatto Bendetto XVI per far capire che cosa è successo dopo l’ultimo Concilio vaticano — dove i buoni hanno conquistato a fatica una posizione strategica che i cattivi — più numerosi e potenti di loro — assediano da ogni lato colpendola con tutte le armi a loro disposizione, leali e sleali. Un dato essenziale, che impone prudenza nei giudizi, soprattutto sulle persone. Se guida i buoni un capitano di ventura dal passato e dal presente discutibile, ma valido uomo di guerra, chiedere che se ne vada a casa, come fa Fini, equivale a voler la morte della città che i buoni difendono: e questo non glielo si può perdonare… Fini si presenta come il classico amico dell’ottimo che si traduce in nemico del bene. Contrappone alle piccole cose, ai piccoli successi reali e concreti che la squadra del governo e il suo leader stanno giorno dopo giorno, con fatica realizzando — dalla lotta alla criminalità mafiosa e comune alla giusta regolamentazione dell’immigrazione —, imprese magari altrettanto buone, ma colossali e attuabili solo in anni e anni, con poteri ben più forti di quelli di un, lo si ricordi, semplice “presidente” di un consiglio di ministri che riporta al Parlamento. Qualche esempio? Operare “la sburocratizzazione della pubblica amministrazione”, garantendo “legalità e trasparenza” “rilancio delle istituzioni” — ma che cosa diamine vuol dire?; “Oggi, nell’epoca di Internet…” — se non lo ricordava lui, non ce ne saremmo accorti.
    Spiacciono soprattutto nel discorso perugino di Fini i ripetuti sarcasmi gratuiti, ingiusti e ingenerosi contro il premier, il PDL e la Lega Nord — mossa solo dall’“egoismo strisciante territoriale” —, del tipo: niente “pensiero unico”, né “insipidi e deboli minestroni”; non siamo un partito per “lucrare interessi”; non condividiamo l’immagine da “paese dei balocchi” che Berlusconi propala, né ci pieghiamo al “credere, obbedire e combattere” di mussoliniana memoria che Berlusconi impone — ma si rende conto di quale suono hanno queste parole nella bocca di chi ha definito solo qualche anno fa Mussolini come “il più grande statista italiano”? —; “il compitino dei 5 punti con scolaretti che devono votare altrimenti è lesa maestà” — ma si rende conto che così offende, no solo i suoi ex “colonnelli”, ma anche coloro che Fini stesso a Fiuggi ha incitato a entrare in Alleanza Nazionale, partito nuovo, e non erano mai stati missini?; “tanto pensa a tutto lui”.
    Ma, soprattutto, torno a dirlo, assorda, il suo silenzio su temi-chiave della nostra condizione di uomini e di cittadini del terzo millennio. Che cosa dice Fini riguardo a vita innocente, fine-vita, embrione, giovani da rifondare e non solo da stipendiare? Nulla. E questo nulla significa che non sono per lui problemi oppure dà per scontata che la risposta giusta a essi è quella che dà lo schieramento opposto a quello dal quale sta uscendo?
    Mi pare di cogliere, per inciso e forse anche con un po’ di malizia, in quel suo rimpianto dichiarato per le figure politiche della prima Repubblica un lapsus freudiano assai divertente e significativo. Chi era Aldo Moro se non il genio della sinistra cattolica? E chi era Berlinguer se non il “Principe” della sinistra comunista? E chi Almirante, se non il capo della sinistra nazionale? Infine, chi La Malfa se non l’esponente più tipico della sinistra del liberalismo? Non è strano che Fini rimpianga quattro austeri — ma Almirante era divorziato — “sinistri” di prestigio degli anni 1970? E con questo vorrebbe capeggiare lui la destra moderata italiana? Ma così conferma solo involontariamente la sua vocazione e ideologia di sinistra “nazionale” di cui FLI è rinnovata, intempestiva e anacronistica espressione.
    Se Fini vuole davvero rappresentare […] quell’Italia profonda, silenziosa che cerca di migliorare con il lavoro la condizione di vita nella nostra società. Quell’Italia silenziosa che non urla, non ha la bava alla bocca, non sta sulle gradinate e quindi non è fatta di ultrà. Quell’Italia che rappresenta la stragrande maggioranza del nostro popolo”, allora farà bene a cambiare direzione. Capendo cioè che il trend, oltreoceano come da noi, non è verso una riedizione in chiave nazionale dei luoghi comuni della sinistra di sempre, ma nel contrario. Nella ricerca di spazio per la sfera individuale sottraendola all’invasività dello Stato, chiedendo istituzioni “leggere” e funzionanti; nell’esigenza di ridare ossigeno alle autonomie locali e ai corpi sociali intermedi; nel riconsiderare il dato religioso quanto meno come risorsa sociale e non, giacobinisticamente, come problema; nell’affrontare con equità ma con spregiudicato realismo e senso civico i fenomeni sociali ed economici che scatenano conseguenze sull’oggi e sul futuro, cioè sui nostri figli e nipoti.
    La gente è davvero stufa: è stufa delle intemperanze private del premier perché sono cose brutte — benché esista di peggio —: questo è il messaggio totalizzante che arriva dai media di ogni risma, specialmente da quelli pagati dal contribuente; ma è stufo ancor prima di inettitudine politica 360 gradi; di pagare tasse per avere servizi da terzo mondo; è stufo della irresponsabilità dei pubblici amministratori e di figure importanti del potere come i giudici e i pubblici ministeri; e soprattutto è stufo fradicio di ideologie. Per inciso: ma non erano morte, le ideologie? A giudicare dalla prontezza con cui Fini è diventato il portabandiera di certi movimenti e certi personaggi sembrerebbe di no. Il cambiare il senso delle cose per invertire i giudizi di valore pur di nuocere all’avversario o di difendersi non era una prerogativa della vecchia dialettica, essenza del marxismo-leninismo? E oggi? Non è successo lo stesso? Allora vuol dire che qualcosa di quella ideologia apparentemente defunta qualcosa sopravvive…
    Lo stesso deprecato — da lui — successo di una realtà culturalmente eterogenea e poco raffinata come la Lega, non si accorge che è null’altro che un indicatore di questo trend? Da noi non ci sono — almeno per ora — i Tea Party e l’insofferenza “di destra” si sfoga educatamente nel voto al centrodestra: ma come può pensare d’intercettare questo voto in marcia verso la destra più radicale andando a sinistra? Magari andando verso quel Casini che vive dei voti del clero e di qualche residuo di democratismo cristiano “moderato” cui non piace lo stile berlusconiano? Oppure c'è Rutelli: ma qui non vado oltre…
    Quello che invece Fini sta facendo è travestire pericolosissimamente esigenze e ripicche personali con lemmi e slogan vetero-ideologici privi di consistenza — è questa l’impressione generale e generica che la lettura del discorso finiano di domenica 7 novembre lascia —, in vista di un’avventura competitiva dall’esito — ahimè per lui — chiaramente predeterminato. È possibile che gl’italiani del “miracolo” del 1994 rischino di pagare il conto al posto suo, cioè di finire sotto le grinfie di un governo “tecnico” che massacrerebbe ancor di più la classe media oppure di cadere sotto un regime neoprodista, sconclusionato e demagogico come quello sperimentato nella passata legislatura? Allora meglio rischiare una imprevista e poco fisiologica — ma autentica ordalia incruenta — tornata elettorale di mid-term

martedì 21 settembre 2010

Berlusconi "vuoto populista"?

In un articolo uscito il 20 settembre sul Corriere il prof. Galli della Loggia ha insignito il presidente del Consiglio, nonché leader dello schieramento politico di centrodestra, del titolo di attore di un “vuoto populismo”. 

    Nonostante l’argomento del pezzo fosse una dura critica alle carenze dell’opposizione, il noto politologo è riuscito a infilare in cauda, a due righe dalla fine del pezzo, quest’asserzione, che suona come una sorta di puntura velenosa.

    Non è la prima volta che la penna di Galli della Loggia lancia accuse contro Silvio Berlusconi che talora hanno sfiorato l’insulto. Chi lo invita, vescovi italiani in prima fila, lo fa perché lo crede persona moderata ed equilibrata, capace di “cantarle” a destra e a sinistra in nome del buon senso e della moderazione. E poi si "beccano" scivoloni “alla Di Pietro” come quello che commento, i quali rivelano invece la scarsa equanimità e la non illimitata cultura politica del nostro. 

    Se si trattasse di accuse argomentate, documentate, frutto di un’analisi politologica decente che alla fine sfociasse in una invettiva, si potrebbe ancora capire il gesto. Ma, al contrario, il più delle volte Galli della Loggia se ne esce in sparate tanto apodittiche e squilibrate, quanto prive di "pezze d'appoggio", il che, nel caso di uno degli studiosi più “di punta” del nostro mondo scientifico, non è per nulla scusabile.

    È davvero un “populista vuoto” Silvio Berlusconi? Populista, forse sì. Ma il termine è tuttora scientificamente indefinito. Se si intende il rapporto, in atto o tentato, di stabilire un rapporto diretto fra leader, anche il leader di uno Stato o di un governo credo che l'esempio più classico sia l'Argentina di Juan Domingo Péron —, e popolo, allora è difficile non vedere tratti nitidi di “populismo” nella politica, ma ancor di più nello stile di governo, berlusconiani. Spesso e volentieri il premier-imprenditore ha dato segni d’insofferenza per le farraginose procedure della democrazia moderna. Ma il suo è un populismo "di desiderio", “tentato” ma mai attuato veramente. E poi, nel valutare una "pulsione" del genere, si può prescindere dal peso reale e concreto e dalla constatata capacità inibitoria nei confronti della struttura decisionale — quante volte la prassi iperconsultiva non ha affossato iniziative meritorie e urgenti? —, ergo politica, della democrazia nel nostro contesto? Berlusconi non ama l’agire politico in clima di onnipervadente "concertazione" e di “tavoli” di ogni genere e dimensione, ma rispetta il sistema, né pone in atto alcunché di surrettizio o d'insidioso per mutare nei fatti una situazione giudicata un ostacolo. 

    Ciò concesso, pare tuttavia del tutto incoerente con l’aplomb scientifico di un accademico o, quanto meno, con l’informazione che l'editorialista-"principe" del Corriere dovrebbe possedere, accusare la politica del premier di essere “vuota”.

     Che cosa vuol dire Galli della Loggia? Che l’attuale premier non è riuscito a combinare un accidente nei tre mandati conferitigli dal popolo e non dai vertici dello Stato? Se è così, è davvero troppo! 
    Sostenere questo equivale a insultare, prima che la persona, la realtà.
    Ma si rende conto, il nostro, delle condizioni in cui Berlusconi deve governare, stretto com’è fra il pressappochismo del suo personale politico e la bagarre scatenata contro di lui sì dall’opposizione parlamentare, ma con molta maggior veemenza da tutti i poteri pubblici e non della società, a partire dalle fasce sinistrorse della magistratura fino ai "nani, saltimbanchi, ballerine" che sbarcano il lunario sui vari media facendone il loro zimbello? 
    Non è stato e non è per Berlusconi affatto facile governare. Senz’altro è stato più facile governare a Romano Prodi, nella parentesi di sinistracentro del 2001-2006, quando l’economia a livello mondiale “tirava” vertiginosamente, quando i poteri sociali, "forti" e meno forti, interni e internazionali, dai preti socialisti fino ai sindacati, dalla Confindustria a The Economist, tifavano tutti per lui. E anche in questo contesto iperfavorevole, con questi moltiplicatori e catalizzatori, quel che ha fatto Prodi non può essere nemmeno lontanamente paragonato all’influsso avuto dai governi presieduti da Silvio Berlusconi sul sistema-Italia dopo il 1994. 
    Berlusconi ha mantenuto alto il prestigio del Paese con gli alleati atlantici, ha ridotto l’impatto di una crisi mondiale devastante, ha fatto passi seri per governare l'immigrazione e per combattere la criminalità mafiosa, ha cercato di mettere qualche minimo paletto — non in positivo, ma evitando di far sentire il peso del governo Parlamento, come nelle gestioni “democratiche”, qui da noi come negli Stati Uniti — al Far West bioetico, ha cercato di raddrizzare, in parte riuscendovi, le innumerevoli storture e deficit delle gestioni precedenti: perfino al problema dei rifiuti subvesuviani, di suo da segreteria assessorile, si è dedicato con successo. 

    Forse poteva fare di più: di certo lo voleva e di questo gli va dato atto.         Ma non si può non riconoscere — altrimenti che razza di politologi si è? — la condizione di minoritarietà dell’esecutivo rispetto agli altri poteri dello Stato e l’assoluta emergenza in cui il governo si trova a operare.  

    Quindi di “vuoto populismo” parli l’illustre studioso in relazione a qualcun altro e a qualcos’altro, per esempio in relazione alle recenti vacue e altisonanti esternazioni del presidente della Camera, oppure ai “professionisti dello sfascio” alla Di Pietro, e non riguardo a Silvio Berlusconi. La sua opera politica può essere discussa, ma non è vuota, e se non è piena come avrebbe dovuto essere — ma come avrebbe dovuto essere, per essere piena, secondo l’esimio studioso? — è perché qualcuno l’ha impedito oppure l’ha svuotata, una volta riempita.

    Ma forse la chiave per capire il senso dell’ennesima “mazzata” bipartisan sferrata dal politologo è che questa gli sia stata "commissionata" da chi vorrebbe fare a meno allo stesso tempo tanto della sinistra in crisi quanto della destra “populista”. E governare il Paese, invece che con questi personaggi incapaci o “vuoti”, con un bel comitato di salute pubblica, fatto di pochi “eletti” e popolato di “tecnocrati”, magari che celati dietro un politico “atipico” e rampante che si prestasse alla bisogna, il cui nome lascio a voi indovinare.

giovedì 4 marzo 2010

Un fantasma ancora bene in carne

L’articolo “fantasma” di Ernesto Galli della Loggia — uscito/non uscito sul Corriere della Sera del 2 marzo 2010 — sul “fantasma” del Pdl, come di consueto, centra il problema ma lascia a desiderare nella sua descrizione e nella sua analisi.
    Tesi di fondo: il Pdl è nel caos, in quindici anni non è riuscito a darsi una veste presentabile e si è ridotto a una “corte”, a una «somma di rissosi potentati», rimasuglio «delle oligarchie e dei quadri dei partiti di governo della prima Repubblica», popolato di gente dai «dubbi precedenti, ragazze troppo avvenenti, figli e nipoti, gente d’ogni risma ma di nessuna capacità».
    Le cause? La personalità egocentrica del leader, estraneo alla politica moderna, troppo ricco e troppo potente nei media, incapace di costruire perfino un partito di “plastica” e, tanto più, di affrontare la crisi generale della politica post-1989.
    Dal punto di vista diagnostico è difficile non essere d’accordo con l’illustre politologo. Tuttavia il suo intervento contiene tesi dubbie e, me lo si consenta, anche affermazioni “tecniche” sorprendenti in uno studioso della sua statura.
    Innanzitutto, dà un giudizio di inadeguatezza personale e politica sul premier che pare tanto infondato quanto ingeneroso. Superficiale, perché Berlusconi ha saputo e sa interpretare a dovere il Paese e il ruolo di capo del governo di questo Paese. Ingeneroso, perché si sa che è sceso in politica dopo l’Ottantanove con le armi e i bagagli, con i pregi e i difetti di cui disponeva … Quindici anni sono troppi per “darsi una sistemata”… Forse… Ma qual è il modello di leader austero? Il mitico De Gasperi? Ma ci rendiamo conto che De Gasperi è vissuto vent’anni in Vaticano a studiare prima di essere cooptato al governo e che, al tempo delle sue esperienze parlamentari a Vienna, regnava Francesco Giuseppe?  Oppure è la Repubblica ideale?
    Silvio Berlusconi non è sceso in campo per pararsi le terga dai giudici, come dice la legione dei suoi detrattori maligni, ma come h apotuto e saputo, in spirito di gratuità — non poteva godersi i suoi miliardi agli antipodi? — e per amore del Paese. Con i giudici, poi, è avvenuto l’opposto: se li è tirati addosso entrando in politica. E la causa del suo successo è stata proprio aver indovinato, con grande acume politico — così come ha fatto Bossi con il federalismo — che le forze dell’arco costituzionale in via di liquefazione frustravano da decenni aspirazioni che erano da sempre nel Dna della maggioranza degl’italiani.
    Ancora, accusarlo di abuso di potere mediatico-finanziario per non aver rivali all’interno del suo schieramento è non solo ingeneroso, ma anche sbagliato: ma abbiamo presente chi sono i potenziali leader alternativi? Si sa di che cosa si parla nei talk show e negli spettacoli satirici nazionali? Chi è poi che fa la sponda agli avversari interni del Cavaliere — che dire dell’“eretico” Fini? — se non i media nazionali e perfino Mediaset?
    Proseguendo, perché la critica verso il Pdl è estesa all’intero centro-destra? La «Destra», secondo Galli della Loggia, non sarebbe stata capace di esprimere nulla di meglio di Forza Italia/Pdl. Chi ha scritto già nel 1994 una Intervista sulla destra dovrebbe però sapere che la destra, soprattutto quella con la maiuscola, è un’altra cosa rispetto al Pdl. E poi che il fenomeno, per più di un aspetto “di destra”, Lega Nord può lasciare a desiderare come valori e come progettualità, ma non manca certo di “tecnica” politica. A detta degli stessi avversari, il partito di Bossi — oltre a “tenere” in campo bioetico — lavora assai bene a livello locale e onora in genere le cariche che riveste. Alleanza Nazionale sarà stata forse un flop in termini di aderenza al progetto di Fiuggi, ma è stata un disegno di destra non neofascista e all’altezza dei tempi del tutto rispettabile. E anche i dirigenti locali e gli amministratori di An non si sono rivelati così scadenti come il nostro lascia intendere.
    A influire sulla condizione di imperfetta salute del partito di maggioranza vi sono anche importanti fattori che Galli della Loggia però omette di menzionare.
    A cominciare dal fenomeno macroscopico — intrinseco a ogni sistema politico contemporaneo ma in Italia particolarmente evidente — del ridursi del peso del potere esecutivo a vantaggio degli altri poteri dello Stato e dei poteri della società: il sindacato, il potere economico e finanziario, i media, gl’impalpabili e anonimi “poteri forti”. Oggi, mentre la produzione legislativa sta arrivando a livelli inimmaginabili e la magistratura ormai legifera autonomamente, il potere esecutivo è letteralmente imbrigliato da migliaia di leggi, norme, regole, procedure, authority, convenzioni, concertazioni, tavoli, “cabine di regia”, sì che non riesce a combinare molto. E questo pesa particolarmente quando si ha la voglia, la passione e la capacità di governare: tutte cose che è far torto a Berlusconi non riconoscere, a dispetto dei dubbi espressi in merito da Galli della Loggia. Se, invece di scatenargli contro la guerra santa, di presentarlo come l’“anomalia italiana”, di tentare di distruggerlo come uomo prima che come politico, lo si fosse lasciato governare decentemente, forse lo sfascio denunciato — del partito e del Paese — non ci sarebbe.
    Il professore dimentica altresì che la classe politica — a destra come a sinistra: “caso Marrazzo” o Bassolino docent — è lo specchio della società: un Paese in “coriandoli” e allo stato di “mucillagine” difficilmente può produrre una classe — iperbole voluta — di “monaci politici”. La vocazione alla politica come servizio germina solo da un humus in cui “servire” è un valore e questo non viene certo insegnato da fucine di auto-referenzialità e psicolabilità come le trasmissioni-concorso per giovani “talenti” delle nostre reti televisive. Certo, è anche vero che “piscis foetet a capite e che una classe dirigente inadeguata o corrotta, in un circolo vizioso, fa a sua volta un Paese disgregato.
    Da ultimo, non convince per nulla la tesi che la crisi delle culture politiche sia meno forte a sinistra perché più corposo sarebbe il residuo di «[…] un sessantennio di governo del Paese tanto al centro che alla periferia» e perché nel centro-sinistra «[…] sono rimasti quasi tutti i vertici della classe politica che fu cattolica o comunista, portando in dote la propria esperienza e le proprie capacità». Qui la miopia rischia di prevalere. Premesso che la corruzione ristagna ovunque, anche nelle regioni e province e comuni — Bologna docet — “rossi” e attecchisce meglio dove il blocco di potere è più coeso e sperimentato, un politologo dovrebbe evitare di assegnare a chicchessia attestati di positività, come se dipendessero da un Dna più nobile. E trascurare nel contempo il fatto che, nonostante il consenso popolare ribadito e spesso ampio e nonostante il potere conquistato a più riprese, la classe dirigente che Galli della Loggia mette sotto accusa — è una realtà lampante — ha dovuto fare i conti, spesso soccombendo, con il potere sulle strutture intermedie che è rimasto nelle mani dei “duri e puri” della sinistra, cattolica o meno, pre-89. E, come si sa, il potere in un’organizzazione come quella dello Stato moderno, quel Moloch che nasce ai tempi di Hobbes, sta proprio nelle strutture intermedie e di controllo: nelle burocrazie, nelle Corti, nelle amministrazioni, nei quadri. Questo potere sui gangli, sulle nervature della vita del Paese, è rimasto in sostanza “quello di prima”. E ha “remato contro”: non avendo più nulla da proporre, si è espresso solo in negativo, avvalendosi della facoltà di bloccare quanto di nuovo emergesse in grado di minacciare gli equilibri del sistema. Se a questo glutine, a questo denso blob, si somma l’azione ostativa concentrica di magistratura, media, forze politiche avversarie trincerate dietro la dogmatizzazione della Carta del 1948, come si può non spiegare i limiti, l’affanno che si rilevano “a destra”? Con che senso della storia può un liberale non liberal come Galli della Loggia aggredire con tanta sicumera una persona e un progetto che, si badi bene, hanno quanto meno arrestato o resa più difficile la marcia trionfale della “gioiosa macchina da guerra” di occhettiana memoria?
    Per costruire un partito, una classe politica, un ceto di governo adeguati o almeno decenti occorre certo un disegno in armonia con le radici storiche del Paese, una base sociale ampia e coesa, una classe di uomini, del tempo e degli strumenti di comunicazione ben fasati sul recettore. L’attuale Pdl ha avuto in parte tutto questo: ha avuto — e ha  un — leader smagliante; un progetto di rinnovamento efficace che riuniva finalmente cattolici “non democratici” e destra; un blocco sociale — ceti medi e classi lavoratrici de-ideologizzate — non effimero. Non ha avuto però il resto: il personale politico necessario, la cultura e, di certo, checché se ne dica, la massa critica dei media — opinionisti inclusi a favore.
    I buoni politici non s’improvvisano, è vero. Ci vogliono, come detto, le “vocazioni”: ma chi le semina oggi, quando la regola è “fatti i fatti tuoi”? La scuola? Meglio non aprire il discorso… O uno sport dove il danaro, la conquista della “velina” e la bestemmia la fanno da padrone?
    Per ricondurre una democrazia contemporanea a livelli di dignità occorre ricreare i centri nervosi, rivitalizzarne le élite e rifare i luoghi di formazione, i soli soggetti capaci di dare il tono all’intero corpo sociale. La Chiesa, a partire dalle splendide lezioni sulla democrazia di Pio XII degli anni 1940 e 1950, a più riprese e almeno sul piano dei principi e dei valori, ha dato un contributo magisteriale tanto cospicuo quanto sottovalutato.
    Termino.
    A conclusione della serrata critica ci si sarebbe attesa qualche pur minima indicazione di come muoversi. In realtà così non è, e ne deduco — ma voglio sbagliarmi — che, invece che rimboccarsi le maniche, l’illustre studioso preferisca anch’egli attendere un segno dall’alto, un nutum del principe, un cenno del capo del Capo — o dei futuri Capi.
    Una classe politica e partitica si costruisce dal basso, dalle famiglie e dalle scuole: e qui la lotta è davvero dura. Esiste però l’alternativa — non esclusiva — di dar vita a una trama di centri di elaborazione e di formazione culturale orientati e di orientamento, cosa che è alla portata di molti anche se non di tutti. Un esempio? Se non altro, decidere — singoli e associazioni o corpi — di deviare una piccolissima parte del flusso di denaro diretto alle opere di carità materiale verso quella “forma eminente di carità intellettuale” che è la cultura per la politica. Intendiamoci: non significa voler disinteressarsi dei mali del prossimo, ma solo affermare che non esiste solo la salute fisica. E poi, si sa, molti costi dell’assistenza materiale sono scatenati proprio da comportamenti disordinati e autolesionistici e per certo, riducendo gli sprechi dovuti al malgoverno e alla corruzione, vi sarebbe un rimbalzo positivo all'indietro anche sull’assistenza.
    L’Italia, la destra italiana, la politica del Paese richiedono questo sforzo: primo, perché l’Italia è di centro-destra, secondo perché un centro-destra deve esserci e, terzo, il Paese — non le sue tradizioni politiche, in tal senso non del tutto incoraggianti — merita qualcosa di meglio.

mercoledì 27 gennaio 2010


Nuove insidie contro il conservatorismo?




Sfoglio il supplemento culturale de il Sole-24Ore del 24 gennaio e m’imbatto in un breve articolo — ma posto in seconda pagina — in cui sono riportati — mi par di capire ricavando le frasi citate da Facebook o da altri siti su cui il nostro esterna — alcuni scampoli del pensiero di Angelo Mellone, «professore di scienze politiche alla Luiss», nonché intellettuale “di destra” di area finiana, che l’articolista — o forse, più verosimilmente, il titolista — accredita della capacità e dell’intento di «[…] racconta[re] il mondo dei conservatori italiani». 
   Se un primo sobbalzo mi assale leggendo il titolo — ma dove stanno, mi chiedo, oggi i conservatori in Italia? —, sono colto da una vera e propria sequela di sussulti a mano a mano che mi addentro nel testo. 
   Le esternazioni di Mellone, nota bene uomo “di destra”, sono infatti del tipo: «la parola d’ordine della nuova destra [è] contaminazione»; «[…] gli sconfinamenti culturali sono necessari. L’intellettuale irregolare non esiste più: la cultura è irregolare!» e, infine, la «[…] difesa dell’identità nazionale [va] sganciata da appartenenze etnico-religiose», con l’auspicio secondo cui «la famiglia […]“deve aprirsi al riconoscimento delle coppie di fatto”». E ancora: secondo lo  scienziato politico tarantino-romano fra l’altro è sbagliato che «la cultura […] train[i] la politica»: infatti «siamo pieni di teorici di politica ma mancano [udite, udite] i tecnici». Fra le “teste” che comunque apprezza e a cui si abbevera — si noti l’omogeneità di posizioni — si collocano l’economista Geminello Alvi, il filosofo Giovanni Reale, il teologo nonché patriarca di Venezia Angelo Scola, un “giovane” — ma il cui nome evoca francamente il manzoniano Carneade — «professore di politiche pubbliche all’università della Tuscia» Luigi Di Gregorio —, Luca Beatrice — «critico d’arte e curatore del controverso padiglione Italia dell’ultima Biennale di Venezia» — e infine il filosofo conservatore — questa volta autentico — inglese Roger Scruton. Ma nel pantheon di Mellone non mancano fior d’intelletti come il recentemente scomparso “intellettuale d’area” Giano Accame, il regista Paolo Virzì, Allan Bloom, Danny Kruger, Alain-Gerard Slama, Pierre Manent. E nemmeno “classici” autori di “destra” — o, almeno, di una certa destra decadentistica — come Ernst Jünger, Ezra Pound e Gabriele D’Annunzio. Sorprende nel novero dei pensatori citati da Mellone la presenza di Augusto Del Noce, che però vi è ammesso solo perché, secondo Mellone, il filosofo torinese «[…] bacchettava i cattolici per il loro rifiuto della modernità». La stoccata finale velenosa contro Marcello Veneziani — «È triste pensare che sia Marcello Veneziani a rappresentarci ancora in Italia», perché «con questa destra non si va da nessuna parte» — completa un quadro già abbastanza compromesso.
   A mano a mano che i sussulti si esauriscono e riesco a esaminare con maggior calma le idee e le proposte politico-culturali di cui Mellone — quanto meno secondo l’identikit che ne traccia il quotidiano confindustriale — si sente latore si noti: sotto la voce “idee di destra”, e la reazione “prima prima” — del tipo: “e invece con la tua idea di destra dove diavolo si va?” — che sentivo montare si stempera, mi risultano chiare alcune cose che vi “giro”.
   Premetto che è possibile pensarla come si vuole e agire politicamente nella direzione che più pare opportuna: tuttavia, non si può, a mio avviso, collocarsi dove si vuole. Anche se le etichette “destra” e “sinistra” nel terzo millennio stanno perdendo rilevanza perché le questioni più gravi ormai “attraversano” gli schieramenti, sono tuttavia persuaso che nel sentire comune questi due termini tuttora rimandano tuttora a due modi di concepire la società del tutto diversi e radicalmente antitetici in re. Per questo designare idee che dicono riferimento intrinseco alla prima sfera come proprie della seconda o viceversa sa di surrettizio e di abusivo. Ed è questo proprio che Mellone fa accreditando come nuovo modo di concepire la destra idee che trovano posto dappertutto, tranne che in ogni spazio che abbia anche solo l’odore della destra. 
   Quanto riferisce il Sole ovviamente non copre di certo tutto lo spettro del pensiero del giovane intellettuale finiano: tuttavia, sebbene per flash, lo mette in mostra e lo propone a un pubblico assai più ampio di quello cui normalmente le risorse — fra le quali si deve annoverare, pur con alti e bassi di simpatia, ahimè anche il Foglio di Giuliano Ferrara — dell’area “farefuturista” consentono di arrivare. 
   Partendo da questa base, forse esigua ma tant’è, mi permetto qualche succinta messa a punto. La galleria di avatar che ispira il pensatore finiano, piuttosto che una costellazione ideale, evoca una caotica e strampalata galleria d’arte, dove convivono fianco a fianco capolavori antichi e parti eterogenei della sensibilità artistica recente, più spesso grottesche e beffarde contraffazioni dell’arte medesima. Il primo rilievo è infatti che Mellone non fa suo tanto l’errore di questo o di quel personaggio — sarebbe troppo lungo in questa sede dibattere se D’Annunzio è di “destra” oppure se Jünger, che si autodefiniva un “anarca”, anch’egli lo sia —, bensì li presenta tutti indiscriminatamente come equipollenti e li associa tutti arbitrariamente alla visione di “destra”. In secundis, come può, ci si domanda, uno scienziato della politica, per di più docente — anche il suo nominativo non figura nel sito web dell’ateneo —, uscirsene con tesi del tipo “mancano i tecnici”? E chi diamine sono Amato, Ciampi, Dini e Prodi? forse degli astronauti? o delle badanti? Così, come si fa ad attribuire a Del Noce il se pur minimo “invito” alla modernità? Viene spontaneo chiedersi: ma l’ha mai letto?
Per finire, non posso assolutamente condividere, anzi giudico una pesante insolenza, la “tristezza” del nostro nel sentire associare d’abitudine alla destra la figura di un intellettuale forse discutibile — e che non sposo in toto — ma comunque di razza — se non altro per l’ampiezza della visuale e per il fine senso dello humour che lo contraddistingue — come Marcello Veneziani, che molti più meriti e molti più diritti di “associabilità” alla destra vanta a paragone del “trentaseienne” e alquanto presuntuoso politologo tarantino «innamorato del sud».
   La destra non è quel che Mellone vuol far credere: la destra è ordine e armonia, razionalità e sapienza, conservazione e progresso, identità nella tradizione, ancorché critica, amore per la vita, per la famiglia naturale, per una educazione secondo Dio e nel rispetto della memoria privata e pubblica. Nulla di questo si rinviene nei principi che ispirano il “neo-destro” Mellone e ben poco negli autori che “assume” come di destra, mentre vi si rilevano, questo sì, le più viete “contaminazioni” della cultura post-moderna e di “pasticci” culturali recenti e meno recenti.
   Nella ridda di richiami ideologici contraddittori che Mellone spaccia per destra pare veder riaffiorare antichi fantasmi dottrinali e note operazioni di disinformazione. Quanto meno s’intravede in senz’altro meno “nobili” quella “nouvelle droite” — peraltro non estinta — che imperversava nel mondo grosso modo “di destra” intorno dagli anni Settanta del secolo scorso agli esordi, cioè, di Alain de Benoist. 
   Questo amalgama di spunti conciliato con opzioni esistenziali e politiche discutibili lascia percepire proprio l’odore di un “neofuturismo”, di una esasperazione cioè di quei motivi individualistici che conciliano il peggio della tradizione con il peggio della modernità; a un tour d’esprit cioè di cui la Fiume dannunziana degli anni 1920 può essere considerata l’emblema.
A mio avviso questa ambigua ripresa di motivi spuri appaiati a stili di vita negativi non è isolata. È ancora fresco di stampa il manifesto del giornalista Camillo Langone — guarda caso lanciato anch’esso da il Foglio — per una sedicente “destra divina”, il cui avatar sarebbe niente po po’ di meno che il noto ideologo di destra Pier Paolo Pasolini. Per più di un palato probabilmente l’ossimoro vivente di uomo innamorato delle forme tradizionali e al contempo convinto (almeno a parole) gaudente risulterà indigesto e vivrà di certo non oltre l’espace d’un matin. Ma per palati più facili e per tutto un genere di umanità per cui i dieci comandamenti dovrebbero essere nove o forse otto o forse solo sette, può produrre una fascinazione ad infera del tutto perniciosa. 
   Siamo di fronte a mio avviso, in conclusione, ad assai poco originali tentativi, magari piccoli ma pericolosi — intorno a Hitler agli inizi erano in quattro gatti… —, d’inquinare quel po’ di destra che riesce faticosamente a sopravvivere e di logorare qualunque sforzo organizzato di rinascita su basi metafisiche e organiche della società del nostro Occidente. Come la “nuova destra” laicista e abortista degli anni Settanta e Ottanta, così oggi queste “contaminazioni” destra-sinistra sono volte a creare de facto una “classe dirigente di riserva” — così si esprimeva il sociologo Massimo Introvigne in un suo saggio del 1977 — anche per il processo rivoluzionario “avanzato” odierno. Se il marxismo marciante del secolo XX avesse fallito, vi era sempre qualche alleato insinuatosi nella destra su cui contare per far sopravvivere e per portare avanti sotto altra ragione sociale i principi libertari ed egualitari. Ai giorni nostri, se la sinistra “ufficiale” franasse ci vorrebbe qualcuno a tener vivi gli stessi motivi ideologici benché sotto altro cappello. Una operazione del genere su scala macroscopica fu attuata in Germania — ma non solo — negli anni Venti, quando Hitler fu “preparato” — senza alcuna implicazione complottistica, ma con ampio riferimento invece alla “meccanica della Rivoluzione” — come alternativa allo spartachismo, fallito, e a Stalin, troppo “indigesto” per i tedeschi conservatori. 



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