martedì 20 gennaio 2009

Farewell , mr. George W. Bush!


Per che cosa sarà ricordato il quarantatreesimo presidente americano, George Walker Bush? Di certo per l’ostilità granitica, ininterrotta, talora sguaiata dei mass media. Sono oramai all’undicesimo presidente americano: sono nato sotto Truman e ricordo nitidamente Eisenhower, Kennedy, Johnson, Nixon, Reagan, Clinton: almeno da Kennedy, grazie alla televisione che arrivò nella mia casa nel 1960, ricordo anche le immagini. Per questo credo di poter dire che mai un presidente ha ricevuto un simile trattamento da parte della casta di Hllywood, della carta stampata e del tubo catodico.
Mai la satira credo si sia accanita con così poca misericordia e in maniera così scomposta contro un personaggio politico di quel livello. Su di lui, nel corso del mandato medesimo, sono apparsi ben due lungometraggi – quello, più documentario, di Michael Moore e W. di Oliver Stone – entrambi con l’effetto – e con l’intento – di stroncarlo in radice non solo come politico ma anche, cosa forse mai accaduta, come uomo, facendolo passare per poco più di un deficiente, di un cafone, di un figlio di papà, di un complessato rispetto al più bravo e “cocco di papà” fratello Jeb. Ciò risalta ancor di più se si osserva con quale autentico peana, ancora a bocce ferme, si astato investito sui media di tutto il mondo il neo-eletto Barack Hussein Obama, un encomio di massa pari solo a quello – maturato peraltro in itinere, data l’ostilità iniziale del mondo wasp per il presidente irlandese e cattolico –, che a suo tempo circondò un personaggio umanamente e politicamente discutibile come John Fitzgerald Kennedy con una sorta di aureola da beato ante litteram.
Eppure George Bush jr. è stato un grande presidente, sicuramente non il peggiore “tecnicamente”, anche se, forse sulle sue doti umane, fanno aggio i contenuti della sua politica.
Dal punto di vista personale non era possibile non notare le sue debolezze e le sue carenze di physique du rôle. Soprattutto se lo si confronta con autentici maghi della comunicazione come Ronnie Reagan. La cultura popolare del suo paese di provenienza, il Texas, la gioventù alquanto scapestrata, la sua poca dimestichezza con i libri – nonostante due lauree, Yale e Harvard, e un MBA – hanno senza dubbio reso un po’ poco oliato e anche alquanto rozzo il suo comunicare e un po’ esitante la sua presenza in occasioni in cui si doveva possedere un minimo di verve e di bagaglio culturale. Va poi considerato comunque il suo enorme sforzo, coronato da successo, di liberarsi per sempre dalla schiavitù dell’alcool, dalla superficialità morale, da una vita senza obiettivi, che lo ha portato simultaneamente a tornare alla salute e alla fede. Né mi pare da sottovalutare un altro aspetto che dovrebbe essere giustamente apprezzato soprattutto da chi è credente: una vita pubblica senza la minima ombra. Nessuna amante, nessun episodio di corruzione, nessun favoritismo, nessuna nota-spese gonfiata, nessuna palazzina costruita con fondi pubblici: un curriculum politico di otto anni – si noti bene – del tutto immacolato. Anzi a lui si deve l’aver introdotto nelle riunioni politiche qualcosa che forse è meno estraneo al costume americano di quanto lo sia a quello europeo, ma che rappresentava comunque un novum anche per l’America e cioè la preghiera pubblica.
La sua forza sono stati fuori di dubbio la potente famiglia, i collaboratori e la ormai rodata attrezzatura culturale e pre-politica del mondo conservatore che lo hanno sostenuto e forse anche guidato con vigore.
Ma sotto il profilo del suo programma di governo, dei suoi adempimenti e del polso fermo da lui costantemente mantenuto in frangenti, non lo si dimentichi, di una complessità e di una delicatezza tali – e con un tasso di novità così alto –, da richiedere doti di analisi e di pratica politica del tutto non comuni.
Farei iniziare il bilancio dallo senario geopolitico.
A lui è stata rimproverata soprattutto di aver intrapreso la guerra contro Saddam Hussein senza sufficienti motivi. Così pure di aver barato, dando per concluso un conflitto che al momento della dichiarazione della vittoria era in realtà appena agli inizi. Una guerra che aveva provocato più danni che non effetti benefici, destabilizzando tutto uno scenario regionale e provocando la reazione corale dell’islam fondamentalista.
Ebbene, non è vero: l’attacco all’Iraq è stato un colpo forse non condotto al meglio, ma di certo ben assestato, perché volto a liberare un popolo da un sanguinario tiranno, a costituire una retrovia fondamentale per l’Afghanistan e porre un argine necessario alla potenza fondamentalista iraniana – ora l’Iran confina con gli Usa –, nonché a creare uno scudo essenziale per la sopravvivenza di Israele in un contesto di più pericoloso revival islamico. Ha stornato altresì la minaccia terroristica dal territorio americano forse per sempre.
L’impegno in Iraq è stato un programma bellico attuato con poche risorse materiali – quanto meno rispetto al Vietnam e al Golfo – e con molta inventiva strategica e tattica – dai “droni” al “Surge”, all’impiego ampio come non mai di risorse femminili –, quindi con poche, sottolineo poche, vittime. Qualcuno ha forse dimenticato le sterminate distese di croci bianche dei cimiteri militari alleati in Francia, in Italia, in Oriente? La guerra in Iraq è costata meno di una battaglia di medio livello della campagna contro il Giappone del 1942-1945. Certo vi sono state vittime civili e non poche, anche se esse vanno attribuite al terrorismo internazionale islamico e agli scontri tra fazioni religiose, che non alle operazioni belliche: ma si può dimenticare quanto è stato spaventosamente alto in termini di vittime civili la liberazione dell’Europa? In Iraq l’effetto è stato inversamente proporzionale al costo. Bush ha fatto una guerra preventiva? Certo: ma chi può dire che è sempre sbagliato schiacciare il grilletto per primi? E chi può stabilire oggi, in tempi di guerra asimmetrica e condotta da soggetti incontrollabili, dato che non sono più gli Stati sovrani, quando un conflitto armato scoppia?
Bush fatto a meno dell’Onu e non ha voluto ascoltare l’accorato appello di Papa Giovanni Paolo II? Sì, è vero. Ma l’Onu, oltre a rivelarsi sempre più incapace di agire, è ormai il luogo dove si boicotta qualunque sforzo volto, prima del 1991 ad arginare il comunismo e, ora, a combattere le nuove minacce per la civiltà occidentale. E il Papa? Il Papa ha svolto il suo ruolo con rigore e con correttezza: ma la decisione di fare o no la guerra in temporalibus, dopo averne valutato i pro e i contra oggettivi e non solo quelli di principio, a rigore non spetta al Papa, bensì a chiunque sia il legittimo reggitore di popoli in questione. Sarà poi eventualmente il Papa a giudicarne la coscienza in foro interno: ma non è il Papa il Capo del Governo.
E in politica si segnalano altri importanti facts che ridondano a suo lustro. Per esempio l’apertura alla revisione del giudizio storico-politico – in un discorso durante la sua visita in Lettonia – sulla seconda guerra mondiale e sull’abbandono all’Urss di metà Europa come prezzo della sua collaborazione – ma anche autodifesa e con le armi americane – per sconfiggere l’hitlerismo. E anche l’avallo indiretto delle critiche di passività o di scarso impegno rivolte agli Alleati quando si trattò di salvare le centinaia di migliaia di deportati civili, soprattutto ebrei, detenuti nell’arcipelago del Lager nazionalsocialisti fra il 1942 e il 1945. Quell’avallo che si può evincere da quelle parole “We should have bombed it” ("avremmo proprio dovuto bombardarlo") da lui pronunciate durante la visita allo Yad Vashem di Gerusalemme davanti ai pannelli che riproducevano il campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau.
Ancora: il suo intenso e costante impegno a favore della vita innocente. Non ha sospeso la pena di morte, ossia il diritto-dovere degli Stati di punire, dopo tutti i possibili giudizi, il colpevole adulto – si ricordi che nella Russia bolscevica anche i minorenni erano passibili di sentenza capitale – di delitti orrendi con la morte, ma ha difeso in maniera strenua, nei limiti non enormi che l’assetto costituzionale degli Usa gli consentiva, la vita umana non nata, rifiutando le sovvenzioni statali alle organizzazioni abortiste, restringendo la casistica di aborto, aiutando la maternità. Il che non è andato separato dalla difesa della famiglia, in particolare cercando di far costituzionalizzare il matrimonio esclusivamente eterosessuale.
Infine, la sua chiara dottrina anti-comunista: per esempio, non ha tolto l’embargo a Cuba, come il coro dell’establishment progressista non ha mai smesso di chiedere con insistenza. E ha voluto presenziare autorevolmente all’inaugurazione del – piccolo ma importante – monumento alle vittime del comunismo inaugurato a Washington nel 2007.
Ha dovuto affrontare la strage delle Torri Gemelle, con il suo spaventevole impatto psico-sociale. Ha dovuto dare inizio a una dura e lunga lotta contro il fondamentalismo talebano afghano, le minacce e le provocazioni nord-coreane, la rivolta dei Paesi dell’America Latina sempre più dominati da coloriti semi-autocrati socialisti, che non rifuggono dall’acquisto di armi strategiche dalla Russia e dal commercio con la rossa Cuba. Non ha ceduto davanti al neo-imperialismo di Vladimir Putin, né davanti all’invasività – forse una guerra asimmetrica clandestina – commerciale e strategica della Cina. Ha dovuto fare una difficile guerra a migliaia di chilometri dalle coste statunitensi e iniziare a prendere provvedimenti contro la terribile crisi economica mondiale scoppiata lo scorso anno.
Il bilancio sarebbe più lungo, ma credo di aver messo abbastanza carne al fuoco.
Come accennato, molto di quanto ha compiuto è stato applicazione della dottrina politica del mondo conservatore americano e frutto della bontà del personale politico che negli ultimi decenni si è preparato nelle miriadi di fondazioni, di master, di summer school, di corsi universitari – che non sono più monopolio delle sinistre –, di corsi di formazione, di libri, saggi e articoli pubblicati dai media conservatori. Bush jr. – sudista la cui investitura suprema ha forse ridotto il gap fra il Sud e il Nord yankee –, è stato come non mai espressione di questo milieu della nazione americana, che ha cominciato a risvegliarsi alla fine degli anni 1950 ed è cresciuto in maniera impressionante, esplodendo con la presidenza Reagan e radicandosi in maniera ormai irrevocabile durante le tre presidenze di Bush sr. e di Bush jr.

* * *

Non so se ora George “Dabliù” Bush vorrà riposarsi, dedicandosi più di prima alla fedele consorte e alle sue due gemelle: può darsi che continui in altra forma l’impegno politico. Certo è che i problemi di cui occuparsi, in primo luogo evitare che la sconfitta in una battaglia si trasformi in sconfitta nella guerra fra i conservatori del suo Paese, sono tanti e il suo apporto potrebbe essere prezioso. Comunque, lo voglio immaginare nel suo ranch in Texas, in sella a uno dei suoi cavalli, mentre, cavalcando, agita festosamente al vento il suo Stetson, godendosi un po’di quella libertà senz’altro troppo e male apprezzata in gioventù, ma sacrificata in seguito non poco alle esigenze della politica, e che grazie anche al suo sforzo, oltre che al sangue di migliaia di americani e di americane, è stata restituita a tanti popoli della terra.

Il “diritto” di morire non esiste


“Diritto di morire con dignità”: è uno slogan che si sente ripetere ormai da ogni pulpito mediatico. Chi riferisce fatti e circostanze concrete li rubrica ormai, in maniera apparentemente neutra, sotto questa voce. Ma vi è anche chi – spesso importanti ed esperti giuristi –, la usa intenzionalmente per descrivere con termini “a effetto” un aspetto dell’ideologia etico-giuridica progressista, imperniata sui diritti, veri o presunti, dell’uomo, per indicare il “diritto” che ciascuno avrebbe di porre fine ai propri giorni senza attendere la morte naturale.
Tuttavia, un’analisi anche superficiale dell’espressione induce a porsi non pochi interrogativi riguardo allo scenario normativo, già esistente oppure in fieri, che essa configura.

Morire è un diritto? E poi perché solo morire “con dignità”?
Se si riflette, per ciascun individuo autocosciente morire è certamente una facoltà. Ognuno di noi sotto certe condizioni può optare per porre fine alla propria esistenza e può altresì riuscirvi praticamente senza fallo: quanti sono i casi di tentato suicidio reiterati fino a quello “buono”... Uccidersi – come pure uccidere – o lasciarsi morire è oggetto della nostra libertà. E la gamma degli strumenti a disposizione è direttamente proporzionale alla fantasia dell’uomo…
Ma morire è anche un diritto? E, ancor prima, che cos’è un diritto?
Secondo una classica definizione giuridica la giustizia, ciò che è conforme al Recht dei germani e allo ius dei latini, cioè al diritto, “est suum cuique tribuere”, dare a ciascuno il suo. Il diritto è dunque qualcosa che ciascuno possiede come schiettamente “sua”, che gli compete, che gli è dovuta. E in virtù di che cosa? Del fatto che è fatti come siamo fatti, per la sua “natura” e per la sua essenza umane. Quindi, per il fatto di essere creatura razionale e morale, ovvero che non obbedisce a una legge – che comunque lo precede – meccanicamente o fatalmente, ma per la propria libera volontà.
Il darsi la morte è dunque qualcosa di nostro, che ci appartiene, qualcosa che inerisce alla nostra natura di essere ragionevole e morale? Tecnicamente sì. Ma lo è anche sotto il profilo del “dover essere”, di ciò che ci compete sempre e ovunque? Allora, senza alcuna esitazione, no.
Il vivere non è frutto di una nostra volontà deliberata: ci si trova “vivi” quando, a un certo punto della nostra crescita, si avverte non più solo istintualmente che siamo cosa diversa da un sasso o da un animaletto – un insetto, un uccellino, una lucertola – che non si muove più…
Così pure il momento della fine “naturale” della vita e il modo in cui usciremo da questo mondo ci sono ignoti. Ora, il non conoscere né l’inizio né la fine di un processo in cui pur siamo coinvolti in radice ci dice ragionevolmente che tale processo non è nella nostra disponibilità e che, come non possiamo attivarlo ad nutum, così non possiamo interromperlo deliberatamente.
Dunque, né uccidersi né lasciarsi morire è del tutto possibile ma non è mai un diritto.
Non essendo un diritto, l’azione di attuare la propria morte o di aiutare una terza persona a infliggersela, uccidendola positivamente oppure lasciandola morire di stenti o di fame o di sete, è sempre un’azione illecita, quindi in tesi sempre e ovunque illegale.
È elementare osservarlo – e queste brevi note sono solo riflessioni di un soggetto che non né giusperito, né filosofo –, per cui lascia davvero sgomenti e produce un’acuta amarezza vedere ordinamenti civili lasciare tranquillamente esistere e operare organizzazioni, come la nota e trista “Exit”. A riguardo, forse non è del tutto noto che le iniziative a favore dell'eutanasia e del suicidio in proprio o assistito sono promosse da un poderoso network internazionale, The World Federation of Right to Die Organizations, fondata nel 1980, che raggruppa ben 38 associazioni di 23 Paesi e la cui mission è “difendere o proteggere il diritto di auto-determinazione dell’individuo alla fine della vita” – ovvero la cui ragione sociale è il suicidio organizzato e a pagamento – e il cui motto è “Difendere la scelta di una morte dignitosa”. Se non si tiene conto di questa trama di fondo, che agisce per lo più discretamente, non si capisce come “casi” apparentemente spontanei, come il tentativo di porre fine ai giorni di una disabile grave come Eluana Englaro non solo possano sorgere ma vengano condotti avanti fino alle estreme conseguenze con una volontà ferrea e refrattaria di ogni considerazione razionale ed emotiva.
Si tratta di un atteggiamento apparentemente filantropico, ma che trasuda una rivolta in nome dell'autoreferenzialità che difficilmente si spiega, se non rievocando quell’odio per la vita e, attraverso di esso, per il Creatore, che ha caratterizzato correnti dell’antico dualismo gnostico... Ed è curioso – ma fino a un certo punto – osservare come queste posizioni siano quasi sempre accompagnate da una intransigente opposizione alla pena di morte. Si trova cioè giusto conferire a un singolo o a terzi privati il diritto di uccidere una persona – non solo quando è ancora in utero, ma adulta perché ammalata oppure semplicemente stufa di vivere –, più spesso una persona debole e innocente, mentre si nega di principio all’autorità legittima, sotto ben precise condizioni, il diritto-dovere di punire anche con la morte per liberare definitivamente la società da soggetti altamente nocivi, in genere adulti e responsabili, condannati in ultima istanza per gravissimi delitti. Ed è ancor più curioso, al limite, vedere che nella medesima prospettiva si estende talora questa opposizione allo stesso ius belli, al diritto-dovere cioè che ha uno Stato di fare la guerra per difendere la comunità cha ha la missione di organizzare.

Come ultima osservazione, se, paradossalmente, il diritto a morire prima della morte naturale esistesse, perché lo si ammette da taluni – ovviamente esiste chi difende il diritto al suicidio, autonomo o assistito, tout court – solo purché ciò avvenga “per” dignità e “con” dignità?
Perché invece non quando viene attuato con modalità “indegne”, nel fine e nel modo? E che cosa vuol dire “degno” in questo contesto? Degno è ciò che si confà al nostro status, alla nostra condizione obiettiva. Il termine copre una gamma vastissima di proprietà umane, degno può essere ciò che inerisce alla nostra umanità oppure semplicemente alla nostra condizione sociale o alla nostra classe di età, e così via… Per cui, come si può stabilire e chi può stabilire quando qualcosa – nella fattispecie il morire prematuro e volontario –, sia un modo di lasciare questo mondo “degno”? Qual è il criterio?
La forma della morte? Cioè, chi si butta dal settimo piano oppure si getta sotto un treno in corsa si uccide in maniera “indegna”, mentre chi si taglia le vene o si fa praticare un’iniezione letale, no? Il “degno” sta dunque nell’evitare le brutture che la fase terminale di una malattia c’infligge? Evitare il dolore, la sporcizia, l’umiliazione del non poter più disporre del proprio corpo e delle sue funzioni anche più elementari?
Oppure il fine? Ma oggi c’è chi vorrebbe morire perché è diventato brutto, oppure per una delusione amorosa o per debiti o perché è morto il cagnolino… Non è una battuta: la condizione moderna, con la solitudine e l’indifferenza che induce, non di rado porta personalità psicologicamente fragili o più spesso “infragilite” a trovare ragioni per morire in cose di una secondarietà assoluta, a fronte di accadimenti che avrebbero incontrato l’indifferenza o forse sollevato l’ilarità di un uomo o di una donna del nostro ben più difficile passato…

Tutti questi interrogativi mi pare minino in radice la sensatezza dell’espressione segnalata in esordio e rafforzino invece la nozione di esistenza come datum, come cosa che ci viene consegnata da altri, o, quanto meno, di una realtà nostra ma totalmente indisponibile a noi stessi e a terzi. Un datum che, se lo si legge alla luce di categorie che non sono meramente naturali – le quali sono comunque più che sufficienti per normare i comportamenti dell’uomo in società e delle società nei riguardi del singolo –, diventa donum e opportunità unica e preziosa non solo per affrontare la propria fine naturale, ma anche per varcare “con dignità” – questa volta sì il termine ha senso – la soglia della morte e addentrarsi nella “vita vera” dell’anima che non ha fine.
19-1-2009

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