venerdì 30 novembre 2012

IN CHE STATO E' IL CENTRODESTRA




   Il governo di emergenza Napolitano-Monti ha inferto un colpo mortale alla classe politica rappresentativa dell’elettorato conservatore, moderato e cattolico, a quel gruppo dirigente che, non secoli fa ma solo nel 2008, era stato mandato in Parlamento e al governo con margini amplissimi di consenso popolare.

   Non vi è bisogno di esemplificare ad abundantiam come l’ancora attuale maggioranza alla Camera e al Senato si stia disfacendo: basta prendere la recente approvazione con i voti di quasi tutto il centrodestra della legge che equipara i figli naturali frutto di rapporti incestuosi con i figli nati nel matrimonio per averne una idea. E non sarà strano aspettarsi fino all’ultimo minuto altri blitz o colpi di mano di minoranze infime ma agguerrite, come i radicali.

   E dentro e fuori dal Parlamento salta all’occhio l’assenza di una cultura politica, non si pretende monolitica — non è più l’epoca — ma almeno decentemente pattizia, che proponga agl’italiani che fra pochi mesi dovranno andare alle urne qualcosa di credibile, se non proprio di stimolante.

   Il barometro del consenso segna talmente il brutto che persino la classe politica antagonista, semplicemente “vendendo” un minimo di ordine nell’azione politica, nonostante gl’incagli e i nodi non solo operativi che l’attanagliano, è riuscita e riesce a fare un del tutto insperato figurone e a ipotecare sempre più tranquillamente Palazzo Chigi.

   In questa prospettiva, in aggiunta, il volto nuovo rappresentato da Renzi sta affascinando sempre più frange del centrodestra per cui non è impossibile attendersi travasi di voti da destra a sinistra.

   Ma il fattore determinante sarà l’astensione, questa volta come non mai favorevole alle sinistre che almeno qualche segnale di non totale distacco dalla politica e di una relativa compattezza stanno dando.

   L’eventualità quindi di una prossima legislatura in cui — salvi implosioni in itinere come nel 1998 o improbabili mini-golpe presidenziali come quello del 2011 — governi l’ultimo erede del tour d’esprit e dell’apparato comunista, insieme al “ludomarxista” Vendola e — forse unico elemento nuovo — al neoveltronista Renzi, è altissima, vicina al 100%.

   Che cosa ci si possa attendere da un esecutivo del genere, che, si ricordi, avrà dalla sua tutti i poteri forti — colpiva nelle serate intorno alle primarie del Pd l’invasività delle relative cronache su tutte le reti televisive — non è difficile pronosticare. Per sintetizzare direi: “Monti più Vendola”, ovvero il medesimo rigore punitivo sul piano fiscale del governo tecnico con in più — oltre all’occupazione fino all’ultimo spiraglio di tutto ciò che comporta un minimo di potere reale: l’astinenza è durata troppo a lungo per chi non ha altro che la politica nel suo orizzonte — uno scatenamento legislativo sul fronte dei cosiddetti “diritti civili”: divorzio breve — non si dimentichi, correlato in parlamento da quell’autentico genio delle operazioni dietro le quinte che ha nome di Maurizio Paniz, deputato del Pdl —, eutanasia, Dico e matrimonio omosessuale, manipolazione degli embrioni, e così via.

   Il rischio quindi di un quinquennio di lacrime e sangue, non solo per i dirigenti ma per l’intero popolo del centrodestra — che come ha riconosciuto poche settimane fa Ernesto Galli della Loggia è da sempre maggioritario nel Paese —, è quanto mai concreto e imminente.

   È una minaccia cresciuta ma non di certo maturata in questi giorni: già all’indomani dell’uscita di scena di Silvio Berlusconi lo scorso anno si era intuito che finiva un’epoca e che era ora di rifondare la rappresentanza del centrodestra.

   In questo anno da allora che cosa è stato fatto in questa prospettiva? Difficile dirlo: la sensazione — ma è più di una sensazione — è niente, anzi pare che si stia facendo l’impossibile per smantellare ciò che restava.

   Il Pdl — la Lega Nord ha un percorso lievemente diverso ma analogo — sta implodendo, rivelando, da un lato, sul piano della cultura politica il tasso elevatissimo di populismo che caratterizza la sua natura — il liberalismo cede sempre più spesso il passo a una sorta di peronismo delle classi medie — e, dall’altro, lo spessore dell’anima liberale-laicistica e avversa al conservatorismo e ai valori cattolici, fino a rivelare le componenti della sua trama più recondita e “fine”, come l’animalismo “azzurro” di una signora Brambilla. Purtroppo chi teneva la barra del partito imprimendogli una linea sostanzialmente moderata, sostanzialmente ferma sui “principi non negoziabili” dei cattolici e in certi frangenti anche conservatrice, ossia il piccolo gruppo di deputati lato sensu conservatori e la loro capacità d’influire sul Capo, non ha più audience.

   Ma è sul piano dell’azione dove la situazione è peggiore: qui è emersa altresì drammaticamente l’infima “qualità” politica — e non di rado umana — del gruppo dirigente sia nel partito, sia in parlamento. Non si sente più un discorso di contenuti, una parola d’ordine, uno slogan che dipinga che futuro si vuole per il Paese, un appello a un passato non del tutto da rottamare. Solo litigi ed esternazioni così eccentriche, contraddittorie e inopportune — leggi, per esempio, Isabella Bertolini, un tempo fra le migliori leve del partito — da lasciare a bocca aperta.

   Scimmiottamento dell’avversario — primarie, rottamare, largo ai giovani —, tensione fra le varie correnti ideali e i vari gruppi di potere, carrierismo, inadeguatezza a dire alcunché, improvvisazione, servilismi residui, aggressività reciproca: il panorama è desolante.

   Purtroppo a oggi, a pochi mesi dalle elezioni, vi è pochissimo margine per raddrizzare la rotta: non si può creare ex nihilo una cultura politica e una classe dirigente se non si è stati capaci di crearli nell’arco di vent’anni con larga disponibilità di mezzi e di tempo. Al massimo si può puntare ad ammortizzare decentemente il tonfo che — salvo miracoli, pure possibili: lo si è visto nel 1994 — il centrodestra farà.

   E il primo obiettivo per chi ha ancora un briciolo di audience, nei mesi che ancora restano, è quello di spingere l’elettore di centrodestra ad andare alle urne, vincendo la delusione e il disgusto: fargli capire cioè che non votare equivale votare per l’avversario, rendergli la vittoria più sicura e più ingente. Purtroppo, non ci sarà tanto da votare per qualcuno per qualcosa che incarni un ideale o una soluzione ai problemi: mai come questa volta si tratterà di un voto “contro”.

   Quello che si può fare realisticamente è prepararsi, dopo la sconfitta del 2011, a un’altra quasi certa sconfitta elettorale e a un forte ridimensionamento parlamentare, e cercare di minimizzarne l’impatto presentando liste da cui siano almeno depennate le figure più discutibili.

   Ma soprattutto il centrodestra deve preparare il futuro, facendo due cose: creando un governo-ombra e gruppi parlamentari di opposizione che rendano la vita difficile — non impossibile, cosa che per prima cosa non sarebbe attuabile per debolezza di poteri ma che sarebbe soprattutto immorale, come ha dimostrato l’ultimo triennio berlusconiano — al futuro governo delle sinistre; quindi, lavorare per un dopo-Bersani in cui torni a governare, con qualche prospettiva di efficacia e di durata.

   In quest’ultima prospettiva, fra le cose a breve vi è di certo da evitare che il Colle venga occupato da persona troppo “amica” del futuro capo del governo. E, fra quelle a lungo, bisogna rifondare in primis una nitida identità politica, chiarendosi, magari con una Costituente o con degli Stati Generali, su che cosa il popolo di centrodestra ama e desidera e sui modi per rappresentare degnamente ed efficacemente queste istanze all’interno di un insieme di principi e di valori — condivisi anche da più di una entità partitica — che si traduca in una strategia politica e, quindi, in un programma di governo di ampio respiro; poi, preparare con pazienza una nuova e decente classe politica e di governo.

   Per questo non occorre partire da zero, né aprire campagne-acquisti: basta valorizzare il poco di buono che è emerso negli anni dell’egemonia e formare quadri nuovi e con un buon potenziale, auspicabilmente ma non necessariamente giovani, istillando in loro la voglia di far politica a vantaggio della gente e non solo offrendo loro chance di sistemarsi per la vita.

   È una operazione, credo, non da due soldi, anzi immane: però quando il male è diventato grave, gravi diventano anche i mezzi per superarlo.

   Il non farlo, il proseguire nella confusione di obiettivi e di soluzioni e in tatticismi da bassa lavanderia, significa per il “popolo dei valori”, per chi ha a cuore in qualche misura Dio, la patria e la famiglia, rassegnarsi a un lungo periodo d’insignificanza e di malessere.

sabato 24 novembre 2012


MONTI E NAPOLITANO: UNA IPOTESI MALIZIOSA (MA NON SBALLATA)


   A un anno dall’insediamento del governo del senatore Mario Monti ci s’interroga ancora sul senso da dare all’operazione “governo tecnico”.
    Se lo scopo era quello di ribaltare una situazione delle finanze pubbliche disastrosa — ma la cui responsabilità principale è ben precisa: non a caso il boom del deficit inizia con la cooptazione del Partito Comunista Italiano nell’area del potere e con la costruzione quanto meno “allegra” di un Welfare State — si può forse dire che qualcosa è stato ottenuto. Però, non si può non aggiungere che tutti sarebbero capaci — “persino” ilgoverno Berlusconi, se fosse stato adeguatamente sostenuto dal Capo dello Stato invece che “rottamato” — di intervenire aumentando le tasse e in assenza garantita di reazione da parte del corpo sociale, garantita dell’“alto” patrocinio da parte delle massime istituzioni e dalla maggioranza “bulgara” di cui il governo ha goduto e gode.Nonché che la retroazione di questa politica di austerità e di maggior tassazione si è ribaltata in un forte disincentivo alla produzione e al consumo, che possono rivelarsi fatali per il nostro futuro e sul quale problema il governo “illuminato” non ha ancor saputo offrire una ipotesi di soluzione decente.
   Se era quello, altresì, di “coprirci” verso un’Europa diventata non più una partner ma una “convivente in casa”, anche su questo fronte possiamo dire che l’accettazione del commissariamento e la leadership di un uomo di Bruxelles — se qualcuno pensa che Monti sia l'uomo dell'Italia a Bruxelles, se lo scordi: è l'uomo di Bruxelles, e non solo, in Italia  — dei più “introdotti” qualcosa ha fatto.
   Se oltre a questo intento vi era quello recidere finalmente i cento “lacci e lacciuoli” che impediscono lo sviluppo e l’ammodernamento della società italiana, qui occorre dire che il lavoro di Monti si è limitato alla superficie: la resistenza dell’apparato politico-burocratico-giudiziario-sindacale — non lo dico solo io — ha giocato contro potentemente e non solo l’apparato è sopravvissuto rigoglioso ma ha anche insabbiato nei suoi effetti concreti una buona parte dei provvedimenti attuati dal governo. Non basta infatti  bastonare le corporazioni minori — i tassisti, i farmacisti, i professionisti, i pensionati — o aprire i negozi alla domenica per determinare la ripresa: occorre invece ridurre seriamente l’apparato dello Stato e i suoi costi elefanteschi. Ma Monti se n’è guardato bene. E non si dica che Monti non abbia avuto il potere per farlo o, quanto meno, per provarci: mai in sessant’anni di Repubblica l’esecutivo ha goduto di una simile libertà di decisione e di azione.
     Dunque, qual pare essere in ultima analisi il senso dell’operazione-Monti?
   Visto tutto quanto sopra, quello di Monti pare un intervento di urgenza e di facciata, destinato a spegnere le critiche “che contano” dall’esterno e dall’interno, senza alzare però troppo il “livello dello scontro” con i poteri “forti” — non ho in mente i massoni, bensì la rocciosa retrività della potente confederazione sindacale postcomunista — e senza toccare i gangli veramente dolenti della società italiana.
   A questo si aggiunge l’aver spazzato via “in una notte” l’on. Berlusconi e il governo eletto di centrodestra — rimuovendo “finalmente” l’anomalia di un governo fuori dagli schemi del Cln —, infliggendo quindi a quest’ultimo schieramento una micidiale batosta in termini d’immagine — denunciandone l’inadeguatezza a governare —, che adesso, con i primi risultati elettorali e con lo sfacelo della classe politica del Pdl e della Lega, emerge in tutta la sua gravità e portata.
    A questo punto, tenuto conto dei due aspetti, il quadro si chiarisce e si completa. E si è forse in grado di formulare una ipotesi certo non poco maliziosa, ma non del tutto sballata.
   E cioè la seguente: allo scaltro Napolitano occorreva una “testa di turco” con il complesso del “salvatore” e animato dal classico spirito di rivalsa dell’economista sul politico — chi meglio di un professore e di un professore della Bocconi? — che facesse quanto serviva per tacitare Bruxelles e le altre istanze critiche dell'Italia operando qualche ritocco di facciata che però non toccasse i veri nodi del sistema; che abbattesse il regime berlusconiano e che, soprattutto, “preparasse” l’Italia a un governo di centrosinistra il cui avvento il colpo mortale sferrato al governo eletto faceva ritenere inevitabile; un personaggio cioè che rimettesse in sesto la baracca e tirasse la volata a Bersani, che togliesse le castagne dal fuoco a un futuro governo — questo sì “del presidente” — che altrimenti avrebbe dovuto operare in una situazione finanziaria ed economica disastrosa e piena di rischi.
   Monti in sostanza, nei 18 mesi fra l’insediamento e le elezioni, sembra aver  svolto — non credo consapevolmente — il dirty job che sarebbe spettato al futuro governo guidato dal Pd. Il quale non toccherà lo zoccolo duro, ma avrà pur sempre necessità di dare l'impressione di mettere la scure alla radice. Bersani si troverà non solo a governare con questo handicap favorevole, ma non avrà contro nemmeno uno dei mille contropoteri — Europa, magistratura, media, sindacati, cultura — con cui l’esecutivo di Berlusconi ha dovuto scontrarsi quotidianamente e che — aggiungendovi l'autolesionismo testimoniato dalle poco edificanti vicende pubblico-private dei dirigenti — lo hanno paralizzato.
   Fantasie? Forse… Ma il passato politico di Napolitano e la sua proverbiale “scafatezza”, così come, dall’altro lato, la noiosa — e un po’ calandrinesca — sicumera (“ostentata esibizione di sicurezza o di una presunta superiorità”, recita il Sabatini-Coletti) del varesino, non scoraggiano poi tanto dall’avanzare anche questa ipotesi.

venerdì 15 giugno 2012

NUOVI PARTITI E VECCHIO CATTOLICESIMO LIBERALE


L’ormai pluriennale lavorio di svariati soggetti civico-politici, culminato nel convegni di Todi del 2011 parrebbe essere prossimo a sfociare nella costituzione di un nuovo partito cattolico, di cui dovrebbe essere levatrice un secondo convegno di Todi da organizzare nell’autunno di quest’anno.
Trascrivo da il Foglio quotidiano del 13 giugno (festa di sant’Antonio da Padova): «Vogliamo un partito — dichiara Carlo Costalli, leader del Movimento Cristiano dei Lavoratori, uno dei promotori, insieme a un nugolo di sigle e alla Compagnia delle Opere — che guardi all’area di centrodestra, liberale, con al suo interno una forte connotazione cattolica»: insomma, chiosa il “reporter”, Paolo Rodari, «un partito di cattolici liberali», «seppure — continua Costalli — non integralista, né dichiaratamente confessionale».
Il fatto appare oggettivamente marginale in un quadro turbato da pesanti minacce esterne che gravano sul presente e sul futuro politico del Paese, tuttavia merita qualche considerazione.
Per prima cosa, non siamo di fronte all’unico progetto di ripresa di un’iniziativa comune della politica cattolica.
La “linea Ruini” d’intervento in seconda battuta attraverso le forze di entrambi gli schieramenti disponibili alla tutela dei “principi non negoziabili” non è morta ma continua, anche se minoritaria, attraverso l’azione di esponenti non minori dell’episcopato italiano. La stessa “linea Bagnasco”, forse meno nitida di quella del predecessore, si presenta più come un ordito multidimensionale e pragmatico che non come una scelta a favore di un partito dei cattolici.
Ha un senso quest’ultimo?
Per capirci qualcosa è necessario ripercorrere le grandi linee della vicenda del cattolicesimo politico nel secondo dopoguerra. Essa, a oggi, appare segnata da due elementi fattuali che ne hanno determinato i destini: la spaccatura del mondo in due blocchi ideologici e l’egemonia della corrente catto-democratica (in senso gramsciano) al suo interno. Parlare del cattolicesimo politico nel dopoguerra equivale a parlare della parabola del contenitore-partito unico, la Democrazia Cristiana (Dc), nata nel 1943 all’interno del cartello antifascista, il Cln, ed esauritasi all’indomani della svolta globale del 1989.
Orfani da sempre di un partito conservatore a forte valenza religioso-civica, delusi e in parte coinvolti nel crollo del regime clerico-fascista, alla nascita della Repubblica, e dopo la clamorosa vittoria elettorale cattolica dell’aprile del 1948, i cattolici si esprimevano politicamente in forma variegata: una minoranza di essi, per lo più conservatori e memori di quanti buoni cristiani erano caduti nelle stragi comuniste del 1945-1948, si ritrovavano nelle file del partito neofascista, nel quale, come nel ventennio, convivevano due anime, quella movimentistica — e più anticlericale — e quella “di regime”, conservatrice e tendenzialmente religiosa.
Gli altri, la pressoché totale maggioranza — tralasciando una presenza esplicita nei partiti di sinistra ancora del tutto irrisoria — nella Democrazia Cristiana.
La Dc è stato il partito in cui per cinquant’anni sono convissute le diverse anime del cattolicesimo politico italiano, che prendono forma nell’Ottocento e riaffiorano dopo “il lungo viaggio attraverso il fascismo”. Cattolici politicamente “moderati”, integralisti non disposti a confluire nelle file del Movimento Sociale , ex popolari, sindacalisti “bianchi”, fanfaniani, sinistra “di base”, sinistra sindacale, “cattocomunisti” alla Dossetti, eredi di Romolo Murri: tutte queste tendenze — spesso più che semplici nuance —, nonostante la loro varietà, erano tenute insieme dalla politica unitaria dell’episcopato e dall’esigenza stringente di erigere e di conservare, in assenza di alternative e in alleanza con anticomunisti non esplicitamente cattolici, la “diga” da opporre al corposo fronte delle sinistre egemonizzato dal partito filosovietico togliattiano.
La crescente egemonia al suo interno delle correnti “cattolico democratiche”, più fortemente intese al compromesso ideologico e politico alla luce del più ampio “compromesso storico” fra cattolici e comunisti di Enrico Berlinguer con le sinistre, fino al loro definitivo dominio negli anni delle segreterie Moro e Zaccagnini e dei governi di unità nazionale Andreotti-Berlinguer, non altererà sostanzialmente il carattere e il ruolo del partito democratico-cristiano.
Una volta venuta meno, dopo il 1989, l’esigenza della diga anticomunista veieme meno anche il ruolo della Dc. Già i fermenti centrifughi già manifestatisi dopo il Concilio Vaticano II e dopo il “dissenso” degli anni 1970 aveva portato da un lato all’irrobustimento della sinistra del partito e, dall’altro, alla erosione del riconoscimento politico dei cattolici nella Dc con l’inizio di una certa diaspora dal partito verso le forze di sinistra. La tempesta politico-giudiziaria passata alla storia con il nome di “Tangentopoli” sarà poi la pietra tombale del partito unico che crollerà sotto la pressione dello scandalismo moralistico della “macchina del fango”.
La struttura deflagrerà e le varie anime si frantumeranno percorrendo traiettorie diverse e, in conseguenza del nuovo sistema bipolare, antitetiche.
L’anima moderata si rifugerà sotto le bandiere del neonato movimento centrista di Forza Italia che vincerà le elezioni politiche post-Tangentopoli nel 1994. La sinistra e, forse, la maggioranza dei quadri politici “politicanti” che si autodenominano cattolici si avvierà verso una collaborazione sempre più organica con i postcomunisti che culminerà nell’attuale Partito Democratico. Alcune frazioni di popolari cercheranno di mantenere un’identità separata in piccoli partiti di denominazione esplicitamente cristiana. I conservatori troveranno infine ospitalità politica nel nuovo partito della destra, succeduto al Movimento Sociale-Destra Nazionale, Alleanza Nazionale, e nei partiti autonomisti, soprattutto nella Lega Nord.
Davanti alla svolta, l’episcopato metterà la sordina agli accenti unitari e preferirà prendere atto del nuovo panorama, spostando l’accento anche perché il conflitto politico si spostava sempre più verso regioni dalle forti implicazioni etiche piuttosto sulla libertà della Chiesa e su un nucleo di principi prereligiosi da salvaguardare che papa Benedetto XVI designerà più tardi con il nome di “principi e valori non negoziabili” all’interno della convivenza civile nazionale, che non sposando in blocco questo o quel programma politico. Non mancheranno appelli all’unità dell’azione politica dei cattolici, ma saranno richiami diretti non tanto permanentemente a determinate forze politiche ma alle singole battaglie in cui i valori cattolici e naturali saranno in discussione, come, per esempio, nel caso della legge contro la manipolazione degli embrioni.
Questo scenario, determinatosi all’incirca una decina di anni or sono, parrebbe ora alquanto stabilizzato grazie anche al buon funzionamento dimostrato alla prova dei fatti. Oggi, di fatto, a livello di elettorato, vi è una percentuale di cattolici italiani peraltro una minoranza nel loro complesso che si riconosce nelle linee programmatiche del centrodestra e una percentuale che opta per l’altro schieramento. Nel primo predomina una presenza cattolica di tipo “implicito”, nell’altro vi è una sovrarappresentanza di ex esponenti del cattolicesimo “professionale”.
Perché rimettere in discussione questo quadro e questo equilibrio?
Certo, la rappresentanza delle istanze cattoliche, dalla tutela della famiglia alla moralità pubblica, non è stata in questi ultimi anni delle più lusinghiere. Le sinistre rimangono succubi di una visione ideologica che, accantonato il marxismo, si è improntata al più demolitorio radicalismo libertario. Sull’altro fronte un’azione politica sporadica ma continua e limpida, si è accompagnata purtroppo a una condotta moralmente assai discutibile della classe politica fino al vertice.
Ma per superare questa impasse, pur reale e grave, davvero serve un altro partito, per di più un partito dalle caratteristiche enunciate? Se proprio si vuole una rappresentanza meno implicita — è il massimo che si possa dire — non c’è già l’Udc di Casini?
Forse si scommette su un ritorno non remoto del proporzionalismo, per cui occorrerebbe prepararsi? Oppure una frammentazione del partito di maggioranza relativa, il Pdl, in tante forze fra cui avrebbe senso collocare una forza cattolica?
Si è poi sicuri che l’episcopato, che pure si muove debitamente sulla linea pontificia di “una nuova generazione di politici cattolici”, sponsorizzi davvero una forza politica in più? Che prospettive ha di raccogliere suffragi sufficienti per non farne l’ennesimo spezzone inutile?
Difficile rispondere…
Ha un poi senso così un partito così come viene presentato? Non sembra una fotocopia della Dc, eventualmente senza “sinistra”? E poi che cosa s’intende per “liberale”? S’intende forse una forte coscienza della sovranità del parlamento? Una propensione per il liberismo economico? Oppure una positiva valutazione dell’ideologia liberale, pur nel pallore con cui essa oggi si presenta?
Non pare questa un’autoattribuzione impropria, di cui non si valuta bene la portata e il rischio?
Il liberalismo filosofico, teorico-economico, religioso è una prospettiva incompatibile con la fede e con l’appartenenza almeno secondo quanto sancisce la Libertas leoniana. La sua azione storica si è manifestata apertamente avversa all’organismo ecclesiale e ha plasmato un contenitore statale unitario che per decenni ha emarginato e nascosto il genuino cattolicesimo della nazione italiana. Nella sua concezione della vita non vi è spazio per la rivelazione né per la verità che surroga con il relativismo, la sua opzione è scettica, antimetafisica e individualistica, nemica dei corpi sociali grandi e piccoli, quindi altro rispetto alla visione cristiana della vita.
In concreto come si presenta oggi l’ideologia liberale?
Oggi la grande forza che fece il Risorgimento, guidò lo Stato unitario per decenni e si coagulò nel Novecento intorno alla filosofia dialettico-idealistica di cui è emblema Benedetto Croce, che tanto ha influito sulla cultura italiana, specialmente sul ceto intellettuale e docente, nei decenni intorno alla metà del secolo scorso, non esiste più.
Ai nostri giorni, che vedono altresì la scomparsa completa di una forza politica esplicitamente liberale, l’ideologia liberale conosce a mio avviso tre declinazioni.
La prima è quella massimalista e rigorosamente anticlericale — se non anticattolica e antireligiosa —, che assolutizza il tema della  libertà individuale e la spinge al di là di ogni limite etico, fino a fare del divorzio, dell’aborto e dell’eutanasia — ma anche dell’omosessualismo — degli autentici valori e priorità politiche assoluti: è la posizione che si può ricondurre a forze piccole ma aggressive come il Partito Radicale italiano.
Una seconda corrente, ormai maggioritaria e più strutturata, è invece quella che enfatizza il ruolo pubblico nella massimizzazione delle libertà individuali e che si può vedere espressa dalla cultura liberal statunitense e, da noi, in gran parte — accanto alla componente di ascendenza “mazziniana” — dal quel liberalismo “giacobino”, che preferisce il razionalismo di Kant allo storicismo di Hegel, che si vide incarnato da movimenti come il Partito d’Azione e "Giustizia e Libertà" di Ernesto Rossi, dei Rosselli, di Gobetti, di Ferruccio Parri, Aldo Garosci — negli anni del fascismo e della seconda guerra mondiale — e ora anima laboratori di cultura e di politica — che in queste settimane si stanno altresì affacciando alla scena politica vero nomine — come il gruppo editoriale la Repubblica-Espresso.
Infine, vi è un filone più vicino alle origini, a lungo “silenziato” ma riapparso di recente, più influenzato alle teorie del diritto naturale — ancorché letto in maniera diversa da quanto fa la dottrina sociale della Chiesa e la filosofia politica cattolica, in genere — e dell’illuminismo e del liberalismo “all’inglese”, meno ostile alle posizioni dei credenti, e più incline a riconoscere fra i diritti dell’individuo diritti che le altre posizioni negano, come il diritto alla vita e l’identità e l’unità della famiglia. Negli Stati Uniti questo pensiero anima non poca parte dello schieramento conservatore, mentre da noi si ritrova in alcuni esponenti dello schieramento parlamentare di centro destra e in qualche illustre “ateo devoto”, come Marcello Pera e Giuliano Ferrara.
Certo, l’individualismo liberale è un nemico del cattolicesimo meno radicale di altre ideologie, anche se la sua declinazione “giacobina” — quella incarnata in Italia dal partito radicale o dal gruppo editoriale la Repubblica-Espresso — spesso si rivela attivamente ostile alla morale cristiana. Però, la sua anima genuinamente antistatalistica — anche se non a vantaggio dei diritti dei corpi ma dei diritti individuali — e antisocialista — anche se non a vantaggio del possesso solidale dei beni terreni ma dell’assolutizzazione della proprietà privata e della finanza senza scrupoli — può farne occasionalmente un alleato: per esempio nella battaglia per la libertà di educazione e per una riduzione del peso dello Stato.
Ma, al di là e al di fuori, di queste possibili convergenze, liberalismo e cattolicesimo sono due realtà eterogenee e irriducibili l’una all’altra.
Inoltre la storia insegna che quando occorre allearsi allora è quello il momento in cui occorre marcare al massimo le differenze identitarie: l’esempio del Patto Gentiloni del 1910, durante il pontificato rigorosamente antimodernista e antiliberale di san Pio X, può esserne un buon esempio.
Che cosa si rischia accentuando la proliferazione delle sigle e delle appartenenze?
Non s’indebolisce così forse l’efficacia dell’azione comune, non s’indebolisce così la difesa dei “principi non negoziabili”?
Almeno finché rimane un sistema bipolare, non sarebbe meglio irrobustire la presenza cattolica nel centrodestra per accentuare il peso delle istanze cattoliche nel quadro del pluralismo che connota quel contenitore? E, magari, migliorare il raccordo fra rappresentanti parlamentari dei cattolici all’interno dei due schieramenti? E, al limite, lavorare sui cattolici nel centrosinistra perché tamponino sortite discutibili — e oggettivamente urticanti e oltraggiose per un cattolico che voglia continuare a definirsi tale — come l’estatica ed enfatica lettera del segretario politico agli organizzatori della giornata dell’orgoglio omosessuale del 10 giugno scorso? Non si tratta del singolo individuo alle prese con le proprie pulsioni disordinate ma di coloro che organizzano ideologicamente questo disagio per trasformarlo in senso rivoluzionario e attraverso un falso egualitarismo e la rivendicazione aspra e aggressiva di sedicenti “diritti” per de-moralizzare la società e per creare un contesto di regole che tolgano ulteriore ossigeno alla rachitica istituzione familiare.
Mi sembrano quesiti legittimi dalla cui risposta dipende in certa misura — nel frangente, come detto, le priorità sono non nel fare un partito ma nel difendere il poco che resta di morale naturale e di libertà religiosa nella nostra società scristianizzata e tendenzialmente sempre più totalitaria — il futuro di noi cattolici e “uomini di buona volontà”. Non è certo con un nuovo partito catto-liberale che si avanza nella direzione auspicata.

martedì 10 gennaio 2012

Berlinguer (primo a destra) con alcuni  
dirigenti del PCI degli anni 1970)
MILANO: VIA ENRICO BERLINGUER, N. 1 


   Bene: finalmente anche Milano, come tante città d'Italia confesso che ignoravo non ne avesse una... , avrà la sua "Via Enrico Berlinguer, 1922-1984, politico".
   Ovvio: a "[...] un grande politico, ma anche un uomo di grande moralità che ha segnato un periodo storico importante. Un grande italiano" così lo ha definito l'assessora all'Urbanistica del Comune Ada Lucia De Cesaris scomparso non è dignitoso far mancare una pubblica commemorazione intitolandogli una strada.
   Ma è realmente come pensa e dice l'assessora? Chi è stato in realtà Berlinguer?
   Segretario politico del Partito Comunista Italiano, ha diretto  con efficacia, dal 1972 al 1984, la filiale italiana dell'internazionale rossa. Come dirigente locale riconosciuto e di alto rango del movimento giovanile e poi del Partito ha portato avanti la linea del movimento marxista-leninista mondiale al di là della "diversità" esteriore del comunismo italiano nel contesto di uno dei Paesi più delicati e complessi dell'Occidente, Paese di frontiera con l'area socialista e sede allo stesso tempo del vertice mondiale della religione più diffusa del pianeta, il cattolicesimo na sorta quindi di "tana del nemico"
   Come tale è stato costantemente schierato dalla parte dei nemici dell'Occidente e dell'Italia in tutti i frangenti (dalla guerra del Vietnam ai missili Nato) in cui gli interessi di questi fossero in gioco nel mondo bipolare, diffamando e boicottando tutte le forme di resistenza alla comunistizzazione del globo, lottando contro tutti i regimi che ancora vi si opponevano, lanciando campagne pacifiste sempre a senso unico. 
   Mai una sola lacrima, una sola critica davanti agli orrori che il comunismo veniva accumulando in tutto mondo dove regnava e dove voleva instaurarsi: non per gli studenti e operai  di Budapest nel 1956, non per i monaci tibetani nel 1957, non per Praga nel 1968, non per la Polonia "normalizzata", non per i martiri anticastristi cubani, non per i GuLag, non per i Laogai: il torto, i martiri erano sempre a Occidente... e gli assassini sempre gli stessi: i "fascisti", i reazionari, i generali.

   A lui si deve il tentativo più sviluppato e articolato in termini di mezzi messi in campo e di sottigliezza ideologico-politica per instaurare nel nostro Paese un governo comunista forse "all'italiana" ma non meno socialista e, quindi, non certo "a misura d'uomo e secondo il piano di Dio", collaborando con i cattolici democratici della DC e con i socialisti. 
   A lui si devono sconfitte demoralizzanti e devastanti per la fibra morale del Paese e per i cattolici come quella in occasione del referendum sul divorzio e quella nel successivo referendum sull'aborto, successi per le sinistre avvenuti grazie al decisivo contributo della macchina politica e organizzativa di un partito che vantava allora circa ottantamila funzionari sparsi sul territorio, il larga misura mantenuti con l'"oro di Mosca" e con le tangenti sull'import-export  verso i Paesi dell'area del socialismo reale.

   A lui si deve il tentativo di mantenere nelle fabbriche (leggi nella Fiat) il clima d'impunità e di terrore che vi si era radicato negli anni della rivolta operaia iniziata nel 1969 e nel quale, come in brodo di coltura, erano germinate le Brigate Rosse: quel clima che fu rotto, letteralmente, dalla "marcia dei Quarantamila" quadri e operai avvenuta a Torino nel 1980. E sarà promotore della presa di posizione comunista contro il terrorismo ultras solo quando a cadere sotto il piombo deelle mitragliette dei brigatisti sarà il sindacalista comunista Guido Rossa: prima, tutto quello che faceva rivoluzione andava bene e andava "gestito" anche se nato fuori della "casa-madre". 

   Berlinguer è il principale ispiratore della cosiddetta "politica di austerità" che, nel corso degli anni Settanta del XX secolo, impose  all'Italia rompendo per la prima volta l'euforia e l'ottimismo seguiti al dramma della guerra persa un look triste e sinistro: divieto di libera circolazione dei capitali; aumento dei prezzi dei carburanti, blocchi della circolazione e targhe alterne per ragioni non ecologiche ; anticipo del telegiornale per invitare ad anare a letto più presto; città più buie. 

   Al di là delle intenzioni personali, egli in sostanza non fece mai nulla che accrescesse realmente il bene comune della nazione di cui era parte e parte eminente: lo sforzo stesso di migliorare le condizioni del "proletariato", di combattere alla fine degli anni Settanta il terrorismo ultracomunista e di "strappare" con Mosca sono da vedere sempre inscindibilmente legate al suo ruolo e alla sua membership di alto livello del movimento rivoluzionario di obbedienza moscovita in tutte le evoluzioni strategiche e in tutte le metamorfosi subite da quest'ultimo.

   Credo che i motivi di riflessione (e anche d'indignazione, anche se in questi giorni vi sono forse motivi più forti) su un piccolo gesto che però conferma un quadro siano almeno due. 
   Da un lato non credo basti essere un politico, ancorché "grande" (Hitler non è stato anch'egli, nella sua perversione, un grande uomo politico?), per meritare una strada, e che occorra invece essere oggettivi e indiscutibili operatori di bene comune per meritare il ricordo di tutti i cittadini, come avviene attraverso la toponomastica. 
   L'altro è che davvero il passato in questo Paese non vuol proprio passare. E che non vi è cenno (anzi, questo piccolo evento suona proprio come campanello d'allarme) di quella volontà di depurarsi delle scorie del Novecento, non solo materiali in primo luogo liberandosi del socialismo di Stato che soffoca la ripresa italiana, ma anche mettendo mano alla memoria collettiva espressa dai nomi delle vie; sarebbe un segnale importante: quante vie "Lenin", quante vie "Togliatti", quante vie "Berlinguer" vi sono ancora in Emilia-Romagna, Toscana, Umbria e Lazio? , ma soprattutto culturali che impediscono di affrontare, con tutta l'efficacia che richiedono e che il Paese è n grado di mettere in atto, le nuove sfide, sempre più incalzanti, cui ci troviamo di fronte hic et nunc, a inizio del Terzo millennio cristiano.

   Ritenere che Berlinguer sia stato un benefattore pubblico equivale in un certo senso a ritenere che le idee per cui si è speso e le politiche da lui perseguite e attuate siano valide e benefiche e non semplicemente un contributo, ancorché indiretto, a quella "vergogna" del secolo passato che è stato (e per milioni di asiatici tuttora resta) l'"impero del male", in tutte le sue svariate forme e declinazioni.
   Una vergogna, per i cui terrificanti crimini, per inciso, nessuno ha finora pagato: anzi, i suoi massimi corresponsabili sono ancora in via di "canonizzazione" da parte delle amministrazioni pubbliche progressiste odierne di un Paese che ne è stato anch'esso teatro e vittima.

sabato 7 gennaio 2012

IL "TRINARICIUTO"
NON SI E' ESTINTO


C'è chi si augura che l'attuale sospensione della vita politica se non è sospensione della democrazia, non si può non notare come il governo Monti abbia ridotto al lumicino la dialettica politica giovi a fa rinsavire i due schieramenti che si confrontano nel nostro sistema politico, troppo sbilanciati e reciprocamente aggressivi in passato e in un passato ancora recente.
   Premetto credo poco alla tesi degli "opposti estremismi" perché non mi pare affatto aderente alla realtà:mi è parso infatti essersi trattato piuttosto di una aggressione brutale, sguaiata e demolitrice della sinistra contro una destra di rinnovamento considerata "anomala", "eretica", "antisistema", solo perché non pregiudizialmente antifascista ancorché in realtà sanamente "post-antifascista" come da (presunto ) Dna della Repubblica.
   Comunque, non mi pare che  la "notte della politica" stia "portando consiglio", né che la "salutare sosta" stia giovando molto al cambiamento della sinistra, quanto meno se devo prestar fede ad alcune recenti dichiarazioni di un alto dirigente del Pd.
   Alle critiche espresse dal Pdl per bocca del suo capogruppo alla Camera, on. Fabrizio Cicchitto, in merito alla palese esorbitazione in senso politico di cui è protagonista il dirigente dell'Agenzia delle Entrate, dott. Attilio Befera e che si è evidenziata in particolare a seguito delle ispezioni effettuate dai finanzieri a Cortina d'Ampezzo, il responsabile per l'Economia del partito di Bersani Stefano Fassina quindi non quidam de populo ha replicato (cito da Avvenire del 7 gennaio) asserendo che "[...] Cicchitto aggredisce e tenta di intimidire il dottor Befera [...] Purtroppo si dimostra ancora una volta che una parte del centrodestra difende i grandi evasori".
   Che dire, prima ancora che sul modo di argomentare, sul modo di pensare di un possibile futuro ministro italiano dell'Economia? Ogni critica è un'aggressione e se i fatti urlano che il governo del centrodestra (eletto dai cittadini) ha conseguito successi di grande rilievo nella lotta all'evasione  
sulla cui entità gioca senz'altro il livello proibitivo dell'imposizione attuale e peserà ancor di più quello cui arriveremo entro breve grazie al "governo tecnico" , tanto peggio per i fatti. L'ideologia, da Marx in poi, dice che la destra protegge i capitalisti, i rentier, gli "squali" sociali, quindi il centrodestra (grazie per "una parte") protegge gli evasori: non fa una grinza.
   Ma dove pensa di andare il nostro Paese, che cosa pensa di fare il nostro dinamico Presidente della Repubblica finché esponenti di rilievo del maggior partito italiano di (ex-)opposizione penseranno in questo modo da autentici "trinariciuti" di guareschiana memoria? Mi pare una domanda,  più che legittima, doverosa.

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