lunedì 14 novembre 2011

25 Aprile o 8 settembre?


Il “tiranno” è stato rimosso e la sinistra esulta: “si chiude il sipario su una delle più tristi parentesi della nostra storia”, “siamo in mezzo alle macerie”, “dobbiamo ricostruire”, hanno detto i suoi massimi esponenti.
Parrebbe che Berlusconi sia stato sconfitto da un trionfale moto di popolo di cui la sinistra sarebbe l’interprete e la guida… Ma non è così, e la sinistra finge di non vederlo: come la classica mosca cocchiera crede di essere lei a tirare il carro e non di essere solo un minuscolo passeggero. E conferma anche in questo frangente non solo la sua ribadita impotenza in parlamento, nonostante giochi raffinati e sponde compiacenti, non ha determinato un bel niente —, ma la sua consueta arroganza, la sua disinvoltura etica e la sua povertà morale intrinseca.
Ha fatto di tutto per ostacolare il governo ordinario e soprattutto scatenando persino gli addentellati che ha nella stampa e nei penosi governi esteri per impedire la presa di decisioni straordinarie che il governo del centrodestra era benissimo in grado di prendere da solo. Poi, sorda a ogni appello di collaborazione del Presidente della Repubblica e a ogni profferta del governo ve ne sono state diverse , ha messo in croce il premier, accusandolo di non riuscire a gestire una crisi di cui in larga misura l’ostruzionismo sociale della sinistra è causa.
Ora accetta senza fiatare la sospensione delle regole democratiche Costituzione o no, è semplice buon senso che governa solo chi vince le elezioni dopo aver strillato per anni contro il “regime” illiberale berlusconiano. Ma, si sa, la contraddizione è “naturale”, è nel DNA, dei postmarxisti.
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Ma, nonostante i toni apocalittici, non è stata una Waterloo, una sconfitta che ha travolto il despota, ma al massimo un Piave dopo la Caporetto del 2008 e una Vittorio Veneto, vinta, come allora, solo grazie a potenti alleati stranieri e contro un fronte nemico che già si stava sgretolando.
La faziosità con la quale ha salutato la notizia delle imminenti dimissioni di Silvio Berlusconi, ma specialmente lo scatenamento maramaldesco ma con scaltra attenzione ai media esteri della piazza contro il premier uscente nelle ore del trapasso dei poteri dimostra che ha assaporato l’ebbrezza di un nuovo 25 luglio 1943, quando il tiranno venne licenziato dal re sotto la pressione della guerra ormai persa. Ma che non ha capito che il 25 luglio è solo il preambolo all’8 settembre.
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E questa mi pare l’analogia più “forte” di quanto sta accadendo.
Il licenziamento di Berlusconi, il commissariamento politico dell’Italia, la rimozione di un governo legittimo e capace, il nuovo regime presidenziale-tecnocratico, puzzano non tanto di 25 aprile, di golpe della Corona, come ha detto l’on. Di Pietro, quanto di 8 settembre, ovvero di crollo non solo di un regime ma di uno Stato.
Quello che si sta svolgendo sotto i nostri occhi non è la crisi di una nazione, pur attraversata da problemi non piccoli, ma è la macchina dello Stato nato fra il 1943 e il 1948 e la sua ideologia, incapaci di realizzare, in un contesto diventato ostile, i mille presunti diritti che ogni giorno una cultura impazzita fa nascere e di svolgere decentemente — dall’ordine pubblico alla nettezza urbana — la miriade di funzioni sociali si è arrogato, togliendole alla società.
Se l’8 settembre 1943, infatti, caduto il tiranno che si è prestato al gioco, cade anche la monarchia liberale, lo Stato liberale stesso nato dal Risorgimento, ora, a quasi settant’anni dall’8 settembre, al capolinea pare essere arrivata la Repubblica semi-socialista, fondata sul lavoro e non su Dio — almeno un Dio condivisibile —, nata dal patto di unità nazionale fra le forze risorgimentali — inclusi i cattolici democratici — e socialiste stipulato allora.
Abbandonata dall’ombrello americano, dopo il 1989 essa ha dovuto confrontarsi con un mondo in rapido cambiamento, ma non ha voluto liberarsi dalle tossine accumulate e abbandonare le rigidità ereditate dall’esperienza semi-totalitaria del fascismo e dalle strutture a capitalismo di Stato e consociative che si era date nel secondo dopoguerra. Ha continuato a produrre Welfare scaricandone i costi sul pubblico e sulle generazioni a venire, senza tener conto dell’erosione che non da ieri fenomeni trasversali, come per esempio la denatalità, c’imponevano.
La perdita di competitività di un sistema produttivo pur brillante e creativo nei nuovi orizzonti globali a causa di un costo del lavoro insostenibile è stata la conseguenza di questo mancato adeguamento. L’euro, così com’è stato congegnato al tempo di Romano Prodi, ha dato il colpo di grazia, impoverendo gl’italiani e trasformando un forte debito statale in valuta debole in un debito in valuta forte, ergo sempre più pesante.
Berlusconi ha cercato fin dall'inizio di porre rimedio a questi handicap originari ma si è scontrata con formidabili coaguli conservatori — sindacati populisti, partiti rimasti tenacemente ideologici ancorché metamorfizzati, scorie impazzite del Sessantotto, media incattiviti, pezzi di Stato in rivolta — e ha faticato tremendamente a fare il non poco che ha fatto. Ora i nodi del mancato riposizionamento vengono a galla sulla spinta dei poteri estranei ed extrapolitici che ormai avvolgono la Repubblica.
L’intento dell’operazione avviata ieri con il varo di un governo tecnico dovrebbe essere quello di attuare un intervento straordinario — una forzatura delle regole, ovvero un micro-golpe —, che sospende temporaneamente il verdetto del popolo, per far in modo che a rimettere ordine siano dei tecnici e non i politici eletti — al governo e all’opposizione — che si sono dimostrati — nell’ipotesi — non all’altezza della situazione.
Ma questo nuovo arroccamento dell’establishment italiano attuato sulla testa del popolo —riprendiamo in mano noi le redini… —, come la rimozione di Mussolini, non farà vincere la guerra e porterà anzi al marasma dell’8 settembre. Chi voleva salvarsi e salvare il Paese dalla guerra glo poi esposto a due invasioni simmetriche e allo scontro fra i due nemici stranieri sul suolo patrio, cui si è accompagnata al Centro-Nord una sanguinosa guerra civile.
Chi ha fatto la mossa vuole mettersi a posto con l’Unione Europea e con i mercati, ma salvando le “conquiste democratiche”, la concertazione, il potere sindacale, la Costituzione democratico-sociale e il Welfare e pur di riuscirci non esita ad affidarsi a personaggi non eletti da popolo, che finiranno per ripercorrere poi, questa volta però senza contestazioni, le orme lasciate da Berlusconi, limitandosi semplicemente a inasprire la portata degl’interventi fiscali e legislativi.
Questa tentata blindatura dei vecchi assetti per salvare capra e cavoli pare la classica palizzata che la cavalleria supererà di slancio o, con altra metafora, la diga che le maree finiranno per sommergere.
I venti della globalizzazione che flagellano la Magna Europa e il resto del mondo o cesseranno oppure non vi sarà riparo tecnico sufficiente da essi.
Se non si cambierà in profondo e non si punterà a rimodellare la convivenza civile secondo nuovi parametri, che salvino i diritti veri, la giustizia e l’equità, l’identità e la libertà, ma smantellino le loro contraffazioni ideologiche vecchie e nuove, e veicolino e convoglino, invece che arginarli, i macro-processi che attraversano il nostro tempo, credo i micro-golpe serviranno a ben poco: i professori di economia non hanno mai salvato nessuna repubblica dal disastro.
Ma forse non è solo questione di economia. L’Europa tutta sta subendo una sorta di “normalizzazione” politica: non è solo l’Italia, ma anche il Portogallo, l’Islanda, l’Irlanda, la Grecia a essere rimessi in riga dai poteri europei che non possono o non vogliono ammettere regimi eccentrici che per esempio vietino l’aborto come l’Irlanda o siano governati da un centrodestra “anomalo” come l’Italia.
Se si pensa che anche la sponda settentrionale del Mediterraneo è stata normalizzata — benché con altri metodi — in pochi mesi, depurandola, apparentemente “a furor di popolo”, di tutti o di quasi tutti i poteri assoluti o personali — da Ben Alì a Gheddafi, a Mubarak — che vi regnavano, sembrerebbe di trovarsi di fronte a una accelerazione, a un passo avanti, alla nascita di una ulteriore tessera di mosaico, dei processi di mondializzazione nati dopo il 1789 e letti come itinerario verso una Repubblica Universale — secolarizzata e ugualitaria, umanitaria e democratica, ma in realtà nelle mani di pochi “iniziati” — da autori di scuola cattolica contro-rivoluzionaria. Prima si è globalizzata la finanza, nell’Ottocento; poi, nel Novecento, l’economia; quindi la politica. È una catena: la prima non ha senso se non si attua la seconda, e la terza è conseguenza necessaria dell’ingovernabilità delle crisi che si producono a valle di entrambe le altre.
Come resistere a questi trend illiberali che vengono da molto lontano nel tempo?
Gli spazi di libertà per animare la società e metterla in guardia da quanto accade ci sono e vanno sfruttati al massimo; così come i meccanismi politici sono ancora in larga misura aperti e popolari e occorre sapientemente avvalersene. Per il resto è difficile individuare ricette.






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