venerdì 18 novembre 2011


Un paese diviso
e ingessato?


   Se volevamo una controprova che i media italiani fossero intossicati, avvelenati, d’ideologia e di obbedienze partitiche basta osservare la virata di 180 gradi che i maggiori canali informativi pubblici e privati hanno effettuato dopo il fatidico 12 novembre scorso.
   Prima si assisteva a un fuoco di sbarramento contro il premier talmente senza tregua e onnipervadente da mozzare il fiato: bastava che Silvio Berlusconi emettesse qualunque giudizio, facesse qualsiasi dichiarazione d’intenti o passo politico, al limite, si limitasse a vivere ― non sempre per verità lodevolmente ― che a tutti i livelli, dai periodici economici più autorevoli agli sguaiati tabloid popolari o per intellettuali progressisti o postcomunisti, si scatenava una orchestra ― o una fanfara ― di critiche, di stracciamenti di panni, d'ironia, di sbracata e gratuita presa in giro. E questo avveniva sia nel circuito italiano, egemonizzato dalla "corazzata" Repubblica e dalle reti pubbliche di news appaltate alla sinistra, sia nel suo pendent estero, con i fogli britannici in pole position. Nessun riconoscimento, anche quando, come nel caso dell’Interno e di molti capitoli della politica estera, i successi dell’amministrazione Berlusconi erano molteplici e vistosi. Nessuna benevolenza, nessuna indulgenza, nessun vero giudizio critico, nessun raffronto fra Italia e resto del mondo ― se non per nuocere ―, nessun confronto fra prima e dopo: bisognava colpire e colpire duro. Anzi, bisognava approfittare dell’opportunità unica e preziosa di una crisi finanziaria continentale per raddoppiare le accuse e le petizioni di dimissioni.
   Ora tutto è cambiato: l’orchestra è passata dal Dies irae e dalla Messa da Requiem alla musichetta stucchevole, quel misto di pop jazz e di evergreens, che accompagna (almeno nella capitale) i matrimoni civili.
   Basta un cenno o un gesto, colto ― con fatica ― nella monotona e anomica retorica del nuovo Designato ― il “Preside”, come lo chiama Ferrara, o “Robocop”, un misto di robot eteroguidato e di poliziotto, privo di guizzi di umanità e che si muove a scatti, come preferisco chiamarlo io – per scatenare peana inverosimili e spalancare abissi di speranze insussistenti davanti agl’italiani. Francamente giudico i toni che ha assunto per esempio un Gr1 del tutto rivoltanti. Credo che neanche al tempo di Mussolini la stampa si sia dimostrata così ossequiosa e strisciante davanti all'“unto” del sovrano. Finalmente regnano la “serietà” e la “responsabilità”, finalmente il clima è di sobrietà ― anche se le serate dei week end degl'italiani non paiono proprio dei quaresimali di massa ―, come se chi c’era prima, per esempio un Bobo Maroni o una Mariastella Gelmini, avesse scherzato o scialato. Finalmente La 7 può fregiarsi di un presidente del Consiglio che non va a puttane e non organizza festini con bunga bunga finale, anche se non si fa scrupolo di trasmettere programmi serali “scientifici” come la Malaeducacion che, per dire il meno, insegnano alle spose e alle fidanzate come trasformarsi in soggetti da bordello: alle 20,30 orrore per la deboscia del premier, alle 23 dài che impariamo (donne e uomini) come si vive il piacere dei sensi!
   A questi ribaltamenti di toni e di accenti, ahimè, noi italiani siamo abituati. Senza tornare indietro fino all'Eiar o ai cinegiornali Luce del periodo fascista, chi ha la mia età ricorda senza m eno quanto veleno radicalmarxista le radio pubbliche ― poi c’era la serie infinita di radio private dei gruppi extraparlamentari, che completava il coro ― sputavano nell’informazione degli anni 1970, quando il Gr1 sembrava la voce della Tass.
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   La cosa su cui, al di là del disgusto, questo ribaltone informativo fa riflettere è quanto alto sia il tasso di ideologia che permea tuttora l’habitat pubblico e quanto profonda sia la spaccatura degl’italiani, e non da ieri, in due campi di opinione irriducibilmente avversi. Due campi che quotano ciascuno poco meno o poco più del 50 per cento del totale. Non c’è più un “Paese legale” separato da un “Paese reale”, ma è il “Paese reale” stesso a essere diviso e la divisione si prolunga nel "Paese legale".
   Il Paese è scisso in due grandi famiglie di riferimenti politici contrapposte, che si possono grosso modo così descrivere.
   L’una è costituita da quelli che vogliono sì cambiare, ma in modo riconciliato con un passato non tutto da buttare via: la linea di tendenza di questa linea di opinione è l’abbandono delle incrostazioni di socialismo che nella cultura e nella società sono state impiantate dal fascismo e che la Repubblica, a partire dagli anni Sessanta, ha portato all’estremo.
   L’altra famiglia, invece, che coltiva anch'essa esigenze di progresso, ma vede possibile rispondere loro solo all’interno di vecchi schemi ideologici e utopici, aggiornati sì, ma al prezzo di gravi difficoltà teoriche e di spesse resistenze psicologiche ― accentuando il valore dell'uguaglianza ― oppure – dal lato della libertà ― proseguendo quel disastroso percorso di liberazione individuale scandito dalle “vittorie” del divorzio, dell’aborto e ora, imminente, dall’eutanasia.
   Lo scontro frale due Italie verte in essenza intorno al problema della revisione della carta fondamentale del Paese: l’una la giudica ormai inadeguata e divisiva, l’altra invece la sacralizza: è “la carta più bella del mondo”, come ha detto il segretario del Partito Democratico in piazza San Giovanni a Roma il 9 novembre.
   Il problema delle mancate riforme in Italia e del colossale debito pubblico ora appesantito dall’euro è tutto qui, in questa sopravvivenza di un passato "che non vuol passare". Al netto delle debolezze strutturali come la denatalità, esiste cioè nella società e nei poteri reali uno zoccolo duro che si oppone al cambiamento in nome di un assetto da Welfare State che è stato costruito in omaggio ai paradigmi egualitari fondativi della Repubblica, ma scaricandone i costi sulle generazioni a venire, uno Stato del benessere che ora non siamo più in grado di permetterci.
   Esiste una Italia che rivendica una conservazione di "privilegi" ― di età, di casta, di classe ― in nome non tanto di principi obsoleti o di diritti inesistenti ma di forme di attuazione di entrambi ormai ingessate e fuori del tempo, che rappresentano altrettanti terribili macigni posti di traverso sul cammino di ogni iniziativa innovatrice ed emancipatrice.
   I governi Berlusconi ― che peraltro non ha governato sempre e non ha presiedutro all'ingresso nell'area dell'euro ― possedevano una carica d’innovazione dirompente ― quella del ceto medio ingrossato nei ranghi e compresso per anni ―, ma hanno dovuto fare i conti con i potenti residui di socialismo “reale” e culturale, a tutti i livelli, che il Paese presentava. E, con le armi spuntate dall’aggressività dei magistrati di sinistra ― altro e percorso oggettivamente “eccentrico” permesso dall’attuale Costituzione-colabrodo ― e l’ostilità dei poteri forti, nonostante la forte maggioranza conseguita nel 2008, l’esecutivo di centrodestra ha potuto fare ben poco.
   Fino a poco tempo fa il problema di questio handicap è rimasto un problema interno. Ma così non poteva durare, visto che l'Italia vive ormai all'interno di una unione di Stati. Ora sono i nostri partner, sinceramente od opportunisticamente, a ricordarci che così non si può andare avanti e bisogna cambiare davvero e adottare assetti pubblici più in linea con il resto dell'Unione e del mondo.  
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   C’è da domandarsi se nuove elezioni generali possano rimuovere questa impasse politica che è prima di tutto una impasse culturale. Francamente penso di no.
   Il passato insegna che di queste Italie contrapposte può prevalere l’una o l’altra, ma ormai con scarti numerici minimi. E con margini ridotti non si può far molto di più della ordinaria amministrazione, che pure è tanto. Le riforme profonde, delle strutture e della “struttura delle strutture”, cioè della Costituzione, richiedono maggioranze “pesanti” e non risicate.
   La via di uscita da questo stallo non s’intravede nell’appello a una memoria oleografica ― come fa la Presidenza della Repubblica ― o "condivisa" o "riconciliata" ― come fanno altre istanze ― di un passato che è tutt’altro che uniti-vo. Né nello spingere l’Italia “neocostituzionale” a rinunciare alle sue istanze che sono poi quelle, legittime, di avere anche in Italia un ambiente civile che è proprio di una larga parte dei Paesi del mondo occidentale avanzato.
   La via che vedo ― benché, consapevolmente, in astratto ― è la disintossicazione dell’Italia veteroprogressista ― mi si passi il maldestro ossìmoro ―, tanto la sua classe politica, quanto il suo elettorato passivo, dal suo ideologismo e dalla sua nefasta deformazione d’immagine e sfiducia nei riguardi dell’avversario.
   Per ottenere questo purtroppo ― lo vediamo nelle piazze e nelle manifestazioni giovanili ― non basta l’impatto con la realtà di un mondo cambiato che le ideologie non spiegano e dalla cui presa non difendono. Né, anche questo lo abbiamo visto, bastano i benefìci oggettivi derivati dai successi ancorché minuscoli – per esempio la lotta alla criminalità o il non incremento delle imposte ― segnati dall’opera di governo dell’avversario, che va invece demonizzata per principio.
   Per sanare il gap non basterebbe, posto per assurdo che fosse legittimo e non lo è, neppure una dittatura che impiegasse mezzi eccezionali.
   Certo non servirebbe una Costituente, dove la spaccatura si riproporrebbe, con il rischio di ricadute peggiorative o solo di meri ritocchi estetici su una nuova carta, destinata almeno per decenza a durare qualche decennio. E nemmeno l'azione un po' bersagliera della Presidenza della Repubblica, troppo prigioniera di schemi ideologici ancora più vetusti di quelli della sinistra ― e che non rinnega la filiére di questi ultimi dai primi ― e i cui appelli sono resi inani dal suo ruolo costituzionalmente limitato.
   Il massimo che si può auspicare ― ma non seriamente ipotizzarne l'avvio ― è un processo di disintossicazione culturale che includa il contatto con la realtà ma preveda anche un’opera di rieducazione a pensare, a pensare fuori da quei ritagli della realtà che sono gli schemi delle ideologie o, peggio, dai gorghi nefasti del “pensiero debole”.
   Certo, la vigente ― almeno in tesi ― ibernazione della lotta politica e la tutela imposta alle parti in causa aiuterà forse, frapponendo un “terzo in causa”, per qualche tempo a smorzare i toni polemici, ma non servirà a risolvere la questione di fondo di un Paese spaccato culturalmente e diviso sul da farsi, anzi forse potrebbe aggravarla. Non è un caso che la rivolta antiglobalizzazione abbia già avuto una revivviscenza che potrebbe tendere ad ampliarsi nella misura in cui il potere, anche se per invocate ragioni di necessità, tende a indurirsi.


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