domenica 8 febbraio 2009


Un “no” che uccide

Che cos’era la dottrina comunista prima dell’Ottantanove? Semplificando, si può ridurre a tre componenti: il materialismo dialettico, l’ateismo che ne deriva e la lotta di classe.
Quest’ultima è venuta meno dopo il fallimento del socialismo “reale” alla sovietica nel 1991.
Che cos’è quindi rimasto dopo tale data nei comunisti di prima del 1989? Le prime due caratteristiche: il post-comunista rimane un materialista, anche se più che un materialista dialettico alla Engels è più simile a un materialista settecentesco o a un positivista ottocentesco. Possiamo dire che, il rattrappirsi dell’evoluzionismo marxiano ha fatto sì che il vecchio materialismo pre-dialettico rimanesse allo scoperto. Ovviamente la complessità e la ricchezza dottrinale di questa versione del materialismo sono molto maggiori che non nel XVIII secolo, perché, anche se per decenni il filone hegeliano-marxista è stato egemone, gli altri “filoni” delle ideologie moderne hanno camminato e per un lungo tratto.
E resta peraltro anche un ateo-ateista, cioè militante, e, per la presenza della prima caratteristica, il suo è un ateismo ancora più radicale, che non nega solo Dio, ma la stessa struttura metafisica e finalistica della realtà.

Mai come in queste ultime ore questa analisi si è rivelata esatta. Che cosa infatti può aver indotto un personaggio come il Capo del nostro Stato a prendere la decisione che ha preso di bloccare il decreto salva-vita di Eluana Englaro? Come si spiega un tale atteggiamento sul piano personale se non con la persistenza nel primo degli italiani, aderente al Partito Comunista Italiano fin dal 1945 e fin da subito dirigente, di una mentalità come quella che ho cercato di descrivere? E non è un caso che tutti gli esponenti del Partito Democratico di origini comuniste – ma anche una post-democristiana come Rosy Bindi –, interpellati sul caso, dagli “onesti uomini” alla “Vannino” Chiti alle milionarie platinate come Barbara Pollastrini o a signore eleganti come Anna Finocchiaro, si siano stracciati le vesti (metaforicamente) davanti all’iniziativa del Governo Berlusconi.
Se poi scendiamo sul piano politico mai come inquesto frangente è emerso lampante qual è il ruolo svolto dall’attuale Presidenza: quello di vestale della vecchia Repubblica, non tanto di quella degli anni Cinquanta-Ottanta a egemonia democristiana ma del regime di unità antifascista – il CLN – a egemonia comunista che ha dominato, anche tingendosi di sangue, gli anni dal 1945 al 1948. Di quel regime elitario e rosso, da nessuno legittimato, se non dalla sua vittoria – grazie agli Alleati – nella guerra italo-italiana del 1943-1945. Oggi l’ideologia comunista si è praticamente estinta e – di certo – anche il sangue. Ma un altro cemento ideologico, ora di segno libertario e ugualitario, è rimasto a legittimare agli occhi dei suoi antichi protagonisti o estimatori quel modello d’Italia.

Un governo di centro-destra, anche dopo il 1948, anche dopo il 1989, può vivere in Italia solo in un regime di “amministrazione controllata”, sotto la sorveglianza di esponenti della vecchia guardia e dei poteri eredi, quanto meno culturalmente, dell’azionismo e del socialcomunismo degli anni postbellici, dovendone subire le impennate improvvise e gli umori cangianti. Una custodia ora volta a reprimere – dalla presidenza o attraverso il braccio sindacale o l’ala rossa della magistratura le eventuali deviazioni e velleità conservatrici del governo eletto e ora, come in questo caso, a difendere la parte peggiore della cultura repubblicana e socialista, quella che esprime cioè quel progetto, emblematizzato ma non esaurito dai radicali, di “allineare” (così si dice) le leggi italiane al resto d’Europa, ma in realtà di far percorrere al Paese quell’itinerario, concepito nelle logge massoniche e denunciato dai cattolici già ai tempi del referendum contro il divorzio, di dissoluzione del costume nazionale, introducendo nelle leggi italiane il presunto “diritto”, dopo quello di sciogliere il matrimonio, di uccidere l’innocente nel seno della madre e quello di “morire” e di “aiutare a morire”, se non addirittura di “costringere a morire”. In tutti questi passaggi, anche nel “caso Englaro” si è sempre scelta la tattica del “caso pietoso”: per il divorzio le violenze in famiglia, per l’aborto il disagio della madre e ora, per l’eutanasia, il presunto desiderio di morte – probabilmente costruito ad arte da persone senza scrupoli (fra le quali, ahimè, il padre) – espresso del tutto informalmente dalla ragazza friulana, solo diciottenne al tempo del suo tragico incidente.

Ora finalmente si comprende quale errore abbia commesso il centro-destra nel contribuire ad affidare la magistratura suprema della Repubblica a personaggi le cui idee sono in stridente contrasto con la realtà nuova, nel bene e nel male, del Paese, a uomini che antepongono le ragioni politiche o tecnico-giuridiche alla vita di una creatura umana innocente, a persone per le quali vale di più la costituzione della vita innocente, a uomini che da materialisti e da atei “post-comunisti” non possono nemmeno immaginare la bellezza della trama di realtà, di essere, naturale e spirituale, che sta dietro, in cui è incastonata, la “vegetazione” della povera disabile.
Né, peraltro, a quali lidi potrà condurre una conclusione omicida del “caso”. Si ricorda spesso, ad altro proposito, citando il Talmud, che salvando un uomo si salva un mondo: dunque dobbiamo credere che il nostro mondo sia perduto?

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