giovedì 14 dicembre 2006

Vita da cani
in Cina?

Il Corriere della Sera di oggi 14 dicembre 2006 riporta che in Cina è stata abolita la legge che prescriveva l’«abbattimento selettivo» di alcune specie di cani per limitarne il numero. La causa sarebbe stata l’estesa protesta popolare promossa da alcuni gruppi «animalisti», una protesta naturalmente non pubblica ma fatta filtrare all’interno delle stanze del potere attraverso i consueti canali informali. Come si sa in Cina non esiste espressione pubblica della volontà della società in quanto sono assenti forme politiche democratiche.

Resta invece in pieno vigore il divieto per le famiglie cinesi di mettere al mondo più di un figlio, divieto attenuato nelle campagne dal permesso di un secondo nato qualora il primogenito sia di sesso femminile. Esiste ormai tutta una letteratura che racconta quali siano le conseguenze di questa proibizione: aborto coatto, infanticidio, perdita del lavoro, violenze, ricatti, corruzione. Solo i «nuovi ricchi» delle grandi metropoli cinesi sono in grado di aggirarlo, anzi fanno di questo escamotage una sorta di status symbol, perché sono i soli in grado di pagare le multe elevatissime previste in caso d’infrazione e gli unici a poter assicurare comunque un futuro economico al «nato in soprannumero», il quale, altrimenti, sarebbe un cittadino di serie B.

Dunque il regime comunista cinese antepone al diritto alla vita dell’uomo quello di un animale. E torna ancora spontanea la domanda a chi così si è di recente espresso, il nostro ministro degli Esteri: ma un paese come la Cina che ha questa visione dei diritti umani è un paese «normale»?

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